sabato 3 agosto 2013

Nuovo inizio della Chiesa in Brasile


Il cardinale Hummes sul viaggio di Papa Francesco. 
(Gianluca Biccini) «Il Papa dimostra con i gesti e con le parole come nel ministero petrino l’opzione preferenziale per i poveri sia fondamentale». Ritorna su un tema a lui caro il cardinale brasiliano Cláudio Hummes tracciando per il nostro giornale un bilancio del viaggio pontificio in Brasile. Per diciott’anni arcivescovo di San Paolo, poi per altri quattro prefetto della Congregazione per il Clero, il porporato francescano è stato l’ecclesiastico più vicino al cardinale Bergoglio durante il conclave, come ha confidato il Santo Padre ai giornalisti ricevuti in udienza all’indomani dell’elezione.
Lei ha potuto vedere da vicino Papa Francesco durante la sua visita in Brasile. Che impressione le ha fatto?
Per lui è stato bello tornare nell’America Latina, di cui conosce molto bene la storia e la realtà: anche il Brasile conosce molto bene, in particolare il santuario mariano di Aparecida. E nei suoi discorsi c’erano numerosi riferimenti alla cultura e alle tradizioni di fede del nostro popolo.
Qual è stato il momento più bello della gmg di Rio?
Considero particolarmente importante è la messa dell’invio, in cui i giovani divengono evangelizzatori e missionari. Tutto ciò che è stato fatto prima della celebrazione finale sulla “orla” di Copacabana è stata una preparazione. Direi che con questa celebrazione la gmg di Rio non si è conclusa, ma ha segnato un nuovo inizio, soprattutto per la Chiesa qui in Brasile e nell’intero continente latino-americano. Dal punto di vista del raccoglimento e della partecipazione anche la veglia del sabato sera è stata impressionante, specie durante l’adorazione del Santissimo Sacramento. Una moltitudine di giovani che fino a poco prima avevano vissuto tra loro e con il Papa una lunga festa fatta di balli, musiche e coreografie, si sono raccolti in preghiera silenziosa per adorare Gesù nell’eucaristia.
Durante l’incontro con i vescovi del Brasile, Papa Francesco ha voluto ringraziarla personalmente per il lavoro da lei svolto come presidente della commissione episcopale per l’Amazzonia. Quali conseguenze avrà l’appello del Papa per quello che è considerato il polmone verde del pianeta?
Innanzitutto bisogna chiarire che era un discorso rivolto ai vescovi del Brasile: ci ha dato indicazioni molto chiare per l’evangelizzazione e la pastorale. L’Amazzonia rappresenta per l’episcopato del nostro Paese una grande responsabilità, e l’invito del Papa a consolidare il volto amazzonico della Chiesa dev’essere per noi un impegno prioritario nel campo della formazione del clero indigeno e della tutela delle popolazioni locali. Più in generale ha lasciato un segno di come la Chiesa deve andare avanti: nella forma più semplice, riportandoci di nuovo alle cose essenziali.
«Non dimenticarti dei poveri!»: è stato lo stesso Papa Francesco a rivelare al mondo la raccomandazione che lei gli ha rivolto al momento dell’elezione. Ritiene che in questi primi mesi di pontificato l’abbia ascoltata e messa in pratica?
Penso proprio di sì: è il suo modo di essere. Lui era già un Francesco a Buenos Aires. Tutta la sua vita è stata e continua a essere un messaggio molto forte in tal senso. Anzi adesso, da Papa, dimostra con i gesti e con le parole come nel ministero petrino l’opzione preferenziale per i poveri sia fondamentale. E quello che ha fatto per l’Argentina prima e per l’America latina poi, grazie al ruolo avuto ad Aparecida, ora lo fa per la Chiesa universale.
In che modo?
Aprendo i cuori, indicando la via sulla quale egli intende condurre la Chiesa. I suoi gesti, il suo modo di entrare in rapporto con la gente, fatto di prossimità, lo hanno portato verso quelli che vivono nelle “periferie”: le persone che hanno bisogno, quelle che stanno soffrendo, i poveri. Con semplicità Papa Francesco insegna a tutti noi che non dobbiamo lavorare soltanto a progetti di ampio respiro, ma impegnarci con chi ci vive accanto, con i nostri vicini, nei quali dobbiamo vedere l’aspetto umano e non considerarli dei numeri. Un insegnamento che vale soprattutto per i giovani, chiamati a evangelizzare i loro coetanei
L'Osservatore Romano


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A Rio de Janeiro accolti dai poveri

(Gualtiero Bassetti, Arcivescovo metropolita di Perugia - Città della Pieve) I giorni di ogni pellegrinaggio sono un tempo di grazia, nel quale il Signore si serve di ogni occasione per illuminare, scuotere e cambiare il cuore. Tra le testimonianze della giornata mondiale della gioventù, una esprime bene lo spirito di questo pellegrinaggio. Alcuni ragazzi della mia diocesi, dopo aver vissuto alcuni giorni ospiti nelle favelas di Rio de Janeiro, hanno detto di aver trovato tra quei poveri, che avevano rinunciato al cibo e al letto per ospitarli, dei veri e propri genitori adottivi. Non degli amici, dunque, ma addirittura dei genitori che avevano donato loro quel poco che avevano.
Quei ragazzi, sperimentando la tenerezza di Dio, hanno vissuto quei giorni come un kairòs, un tempo favorevole nel quale la grazia di Dio è stata accolta. In maniera sincera e forse inconsapevole, hanno reso concrete le parole di Papa Francesco che ha detto, durante la visita alla comunità di Varginha, di non lasciare entrare «nel nostro cuore la cultura dello scarto», perché tutti siamo fratelli e «nessuno è da scartare». Non esistono scarti per il Signore perché tutti siamo figli di Dio e coeredi di Cristo, come scriveva san Paolo ai cristiani di Roma.
Moltissimi di questi giovani che, proprio nei giorni di Rio, hanno maturato scelte di vita importanti attraverso un discernimento profondo, hanno dimostrato di saper essere dei «cristiani autentici», proprio come ha invocato il Santo Padre nell’omelia a Copacabana, e di non essere, quindi, «cristiani part-time» o addirittura «cristiani inamidati» o di «facciata». A loro Francesco ha infatti affidato un compito fondamentale: essere gli «atleti di Cristo» e «i costruttori di una Chiesa più bella e di un mondo migliore».
Il Brasile, come tutta l’America latina, è terra ricca di umanità e di fede, di gioia e di colori, ma anche di povertà e di contraddizioni. Le «periferie dell’esistenza» di cui spesso parla il vescovo di Roma non sono un concetto intellettuale, ma una realtà concreta e ben visibile. Tra la spiaggia di Copacabana, circondata da hotel lussuosi, e le favelas non c’è soluzione di continuità. Tra la striscia sul mare, dove la società dei consumi mette in mostra la sua orgogliosa vanità, e le colline circostanti, dove sorgono quegli agglomerati caotici, la distanza non è molta e non è solo geografica, ma esistenziale.
Non sono solo i beni materiali a distinguere un uomo da un altro. Ma è soprattutto l’incontro autentico con la parola di Dio che trasforma l’esistenza. Ed è l’accoglienza di questo messaggio di speranza e salvezza che differenzia, concretamente, il ricco e il povero. Così, si può essere ricchi di beni e in realtà non avere niente. Oppure essere come la povera vedova che mette nel tesoro del tempio di Gerusalemme tutto quel poco che possiede e, così facendo, avere tutto. Cioè la fede e la consapevolezza che è Cristo l’unico tesoro inestinguibile. La cultura del superfluo, dello scarto e dell’usa e getta, della quale si ciba con avidità — e, in parte, inconsapevolmente — la società dei consumi, allontana l’uomo dal suo creatore con una «catechesi della rimozione» antitetica all’annuncio del Vangelo. Concentrando tutta l’esistenza umana sull’efficienza e sul raggiungimento del profitto, questa «catechesi al contrario» impone subdolamente all’uomo di vivere come se Dio non ci fosse, cancellando dalla vita quotidiana i riferimenti al trascendente: dai simboli religiosi nei luoghi pubblici al disconoscimento della sacralità della vita, dalla marginalizzazione della domenica come giorno di riposo fino all’abbandono del povero.
La scelta evangelica della povertà, invece, senza rivendicazioni classiste ma, al contrario, attraverso «la rivoluzione della tenerezza» più volte evocata dal Santo Padre, rovescia tutto e fa comprendere ai giovani che si può essere discepoli del Signore solo se si accetta questa speranza, che è Cristo, nella propria esistenza. Francesco ha destato l’attenzione dei milioni di giovani che erano a Copacabana, con parole che assomigliano a una carezza, ricordando che il centro da cui partire è sempre Cristo. Solo da questo centro si può arrivare «con gioia» alle periferie, concrete ed esistenziali, dell’umanità.
Benedetto XVI nel Gesù di Nazareth ha descritto la gioia che caratterizza l’annuncio cristiano. Quando Cristo sale al cielo benedicendo, «le sue mani restano stese su questo mondo» e sono, allo stesso tempo «come un tetto che ci protegge» e una «presenza» nella nostra vita. Questa gioia della fede, anche attraverso la settimana di Rio, ha contagiato tutti. «Gesù semina» ricordava Francesco durante la veglia di preghiera. E allora, «in silenzio, lasciamo entrare la semente di Gesù». Lasciamola crescere, «e Dio ne avrà cura».
L'Osservatore Romano