venerdì 13 settembre 2013

La fede creduta




Vent’anni fa l’assassinio a Palermo di don Giuseppe Puglisi proclamato beato il 25 maggio. 
Il 15 settembre di vent’anni fa veniva assassinato a Palermo, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, padre Giuseppe Puglisi, parroco di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio. L’arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, in questo articolo, ne ricorda la figura.

(Vincenzo Bertolone) «Ho capito che non era sufficiente denunciare l’ingiustizia: bisognava dare la vita per combatterla». Sono parole di Albert Camus, eppure sembrano scritte dal beato don Pino Puglisi, martire di mafia che lo assassinò a Palermo nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. È il 15 settembre del 1993. È sera, l’estate brucia ancora. Spente le candeline sulla torta e stappato lo spumante al Centro «Padre Nostro», poco dopo le 8 il parroco di Brancaccio saluta tutti e si avvia a casa. Parcheggia la sua Fiat Uno rossa, scende e si dirige verso il portone d’ingresso con le chiavi in mano.
È allora che un uomo, sbucato dal nulla, gli si para davanti ed esclama: «Questa è una rapina!». «Me l’aspettavo», risponde il sacerdote, abbozzando un sorriso, prima di cadere sul selciato, ferito a morte da un colpo di pistola sparatogli alla nuca da un secondo sicario, non visto. Chi apre il fuoco lo fa con una calibro 7,65, solitamente non utilizzata per delitti di Cosa Nostra. I sicari portano via il borsello della vittima: lo fanno per depistare le indagini e far apparire l’omicidio come il risultato di una rapina finita in modo tragico. Non ci riusciranno. E tutti, dagli esecutori ai mandanti (questi ultimi successivamente identificati nei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, capi del mandamento mafioso di Brancaccio poi condannati all’ergastolo), verranno assicurati alla giustizia.
Ma perché, quel giorno di vent’anni fa, la mafia uccise un sacerdote? Per odio. Per odio verso la fede cristiana che quel prete incarnava. Puglisi ha subito un martirio per amore di Cristo e della Chiesa per aver esortato a coltivare valori umani e cristiani, quali la difesa dei deboli, l’educazione della gioventù, il rispetto della giustizia e della legalità, l’acquisizione di diritti fino a quel momento non garantiti dalla società civile: una scuola, un presidio sanitario, una casa. In definitiva, il suo martirio è stato la conseguenza non ricercata di un’umile volontà di quotidiana fedeltà al Signore e al compito da lui affidatogli. Era solito ripetere: «Il discepolo di Cristo è un testimone. La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio. Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come lui, annunciare il suo amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti siamo costruttori di un mondo nuovo». E testimone fu: lui che si era formato secondo la manualistica preconciliare, ispirata a una secolare tradizione filosofico-teologica, si era trovato a tradurre in atto quotidianamente l’opera di trasformazione e di aggiornamento figlia del concilio Vaticano II, quando forte si era levato il grido di tanti popoli e nazioni alla ricerca di una nuova speranza, di una nuova gioia e di una nuova evangelizzazione.
Puglisi ha vissuto intensamente da discepolo di Cristo, fino a donare la propria vita per gli altri, in nome del Vangelo. Ha conosciuto e sempre meglio approfondito la verità che egli ha ricevuto perché potesse essere trasmessa ad altri (cfr. Dignitatis humanae, 14). Ha annunciato con fedeltà e difeso con fierezza la fede creduta, senza mai usare mezzi difformi al Vangelo. Non ha mai ammainato la bandiera: la carità, che lo ha sempre sospinto in avanti, trattando con amore, prudenza e pazienza coloro che erano nell’errore, nell’ignoranza circa la conoscenza della fede (cfr. ibidem, 14), mostrando e dimostrando una religiosità fatta di fede autentica e non di credenze, di santità e non di sacralità, di liturgia e non di ritualità. Quanto mai eloquente l’ultima omelia davanti a coloro che lo osteggiavano per l’opera del Centro sociale «Padre Nostro»: «Vorrei sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi vuole educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio. Chi usa la violenza non è un uomo». E questo è particolarmente valido ai giorni nostri in contesti in cui la speranza e la fiducia nel futuro stanno venendo meno, il rispetto delle istituzioni vacilla, il desiderio di riscatto e di voglia di rinascita sembra ormai assunto da pochi e sparuti sognatori, che credono ancora che ci possa essere un futuro migliore a partire da un presente più attendibile e sicuro.
Oggi il beato Puglisi viene additato dalla Chiesa come un martire della fede. Non primariamente e soprattutto come modello per prendere le distanze dalla criminalità e combatterla, ma quale emblema del modo straordinariamente ordinario di essere cristiano e prete e, per ciò stesso, voce inevitabilmente critica di qualunque comportamento che attenti violentemente al diritto alla vita e conculchi gli altri diritti fondamentali dell’essere umano. La sua morte, come tutte le altre morti di uomini giusti, invita a essere cristiani a pieno titolo, coerenti e credibili e non quelli che, per citare Henri de Lubac, usano la fede come anestetico. Il cristiano si lascia trasformare dalla Parola di Dio in attivo cooperatore della crescita del mondo materialmente e spiritualmente. Persone capaci di sognare un futuro diverso e di costruire un mondo nuovo. Proprio come don Pino Puglisi.
L'Osservatore Romano