martedì 22 luglio 2014

Come parlare di Paolo VI



Nella sua parola. A tredici anni dalla prima uscita nel dicembre 2001 viene ripubblicato, in edizione ampliata, il libro di Pasquale Macchi (1923-2006) Paolo VI nella sua parola (Brescia, Morcelliana, 2014, pagine 405, euro 25). Qui presentiamo l’introduzione scritta dall’autore (poi arcivescovo prelato di Loreto) che fu segretario di Montini dal 1954, e quasi integralmente sia la presentazione del cardinale Martini sia la nuova postfazione del cardinale Capovilla.
Nuova edizione per il libro in cui nel 2001 Montini venne ricordato dal suo segretario.
(Pasquale Macchi) Una testimonianza su Paolo VI è per me un bisogno del cuore; ma la grandezza morale della sua persona rende ardua e quasi impossibile un’espressione adeguata.
Per questo voglio limitare al massimo le mie considerazioni personali e, invece, far parlare Lui, direttamente, con i suoi discorsi, i suoi scritti, le sue note, i suoi atti, i viaggi, le visite, gli incontri con persone di ogni ceto.
Intendo avvalermi della parola viva del Papa, mettere in rilievo la sua stessa narrazione, le sue riflessioni su quanto avveniva nella Chiesa e nel mondo, per conoscere come sono nati in Lui i suoi gesti più importanti, e come Lui stesso li ripensava e li giudicava.
Bisognerebbe essere alla sua altezza spirituale per parlare in modo degno di questo Papa, protagonista in un momento decisivo della storia della Chiesa, impegnata nel concilio ecumenico Vaticano II per un aggiornamento coraggioso, sempre più fedele al disegno di Cristo e al suo compito provvidenziale nel divenire della storia.
D’altra parte, la lunga frequentazione per quasi venticinque anni ha generato in me un’ammirazione che è andata crescendo dal primo incontro con Lui, designato arcivescovo di Milano, fino al giorno della sua morte come Papa, a Castelgandolfo.
In queste pagine io vedo emergere ciò che sembra costitutivo della personalità di Paolo VI: la tensione di un amore appassionato a Cristo Signore e quindi il suo servizio generoso e instancabile alla Chiesa, mistero di Cristo risorto.
Capisco come Egli, consapevole dei grandi doni ricevuti, non potesse fare a meno di denunciare le proprie debolezze e chiederne perdono, di considerare se stesso non secondo misure umane, ma nella luce suprema della verità di Dio, in un continuo impegno di conversione.
E l’umiltà di Paolo VI che appare da tutta la sua persona, nei modi più impensati e con una continuità impressionante: umiltà che nasce dalla fede e genera una fede sempre più coraggiosa, e approda a una sempre più amorosa contemplazione di Gesù.
È l’umiltà che apre a una attenzione e a un devoto ascolto della parola di Dio, a una preghiera ispirata, illuminata e prolungata in un raccoglimento continuo.
Queste note sono soltanto una testimonianza di quanto io ho potuto condividere con Lui, perciò non tengono conto di tutto il periodo prima dell’episcopato.
Non si tratta quindi di una “biografia” di Paolo e ancor meno sono le memorie di un segretario, ma solo delle tracce, dei richiami che attingono agli anni del periodo milanese e molto di più a quelli del sommo pontificato, e vogliono delineare la luminosa e paterna figura di questo Papa, senza interferire nel cammino del processo canonico in corso. Chi ha avuto il dono privilegiato di vivere assieme a una persona così importante e così umile, così “pubblica” e così riservata, così austera e così delicata, deve fare molta fatica per riuscire a trasmettere la ricchezza sconfinata di questa esperienza unica.
Ma è una fatica doverosa e gioiosa, che si spera venga condivisa dal lettore per dare gloria a Dio che «opera meraviglie», e per amare la Chiesa sempre madre e maestra lungo i secoli. Paolo VI parla ancora e la sua parola si fa eco della parola di Dio per illuminare il cammino della storia verso la civiltà dell’amore.

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Grande cristiano e grande Papa
(Carlo Maria Martini) È con timore e tremore che mi accingo a scrivere alcune parole di presentazione a questo splendido libro che permetterà di comprendere più a fondo il disegno globale della vita e dell’opera di Paolo VI come arcivescovo e come pontefice.
Tuttavia mi sento impegnato a farlo, sia per rispondere al cortese invito di monsignor Macchi, sia per il legame di affetto che mi unisce a Giovanni Battista Montini come mio predecessore sulla cattedra di sant’Ambrogio e per la devozione e la riconoscenza che debbo a lui come Sommo Pontefice.
Non ho avuto molte occasioni per conoscerlo e per incontrarmi con lui. Desidero tuttavia richiamare qualche episodio che può far comprendere il perché dei sentimenti che provo per Paolo VI. Vorrei partire dalla situazione dell’esegesi cattolica verso la metà del secolo scorso e poco prima degli inizi del concilio. Mentre essa stava elaborando con pazienza e non senza qualche fatica le acquisizioni del metodo storico-critico per l’esegesi della Scrittura, venivano emergendo qua e là delle paure e delle prevenzioni, quasi che agendo così si mettesse in pericolo il carattere soprannaturale della Bibbia.
Questi timori erano già stati espressi subito dopo la Seconda guerra mondiale, e vi aveva risposto con brio e intelligenza un grande esegeta del Pontificio Istituto Biblico, il gesuita padre Alberto Vaccari. Ma queste inquietudini emersero di nuovo sotto il pontificato di Giovanni XXIII, con accuse pesanti rivolte in particolare al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Esse avrebbero potuto dare origine ad una diatriba aspra e in fondo inconcludente, perché gli avversari del metodo storico-critico partivano da principi astratti e rifiutavano di confrontarsi con i testi e con il realismo della storia. In realtà fu soltanto l’autorità del concilio Vaticano II a far decantare il problema, soprattutto con il Decreto conciliare Dei Verbum, approvato nel 1965. Ma già prima si rivelò particolarmente preziosa l’opera personale di Paolo VI. Poco dopo la sua elezione al pontificato il Papa presiedette l’inaugurazione dell’anno accademico in una università romana dalla quale erano partite le accuse all’esegesi cattolica e all’Istituto Biblico. Con parole forti e decise e con grande coraggio richiese la fine immediata di tutte le polemiche sterili: «Mai più, mai più!». Ricordo l’attenzione e la commozione con la quale ascoltammo, nell’Istituto Biblico, il testo registrato delle sue parole. Si sentiva in esse una forza, una sicurezza, una passione per la verità che fu per noi motivo di grande gioia.
Rimaneva ancora un problema aperto. Proprio a partire da simili accuse, poco prima dell’inizio del concilio due professori molto noti del Pontificio Istituto Biblico vennero sospesi temporaneamente dall’insegnamento per ordine dei superiori. I due padri gesuiti presero la cosa con molta umiltà e obbedienza, con la convinzione che presto tutto si sarebbe chiarito. Ma in realtà la vera soluzione di questo problema fu data da Paolo VI. Ricordo ancora molto bene come l’allora rettore del Pontificio Istituto Biblico, l’esegeta canadese padre Roderick MacKenzie, ci raccontava l’esito della sua prima udienza col nuovo Sommo Pontefice. Vedendo in Paolo VI tanta disponibilità all’ascolto, il rettore del Pontificio Istituto Biblico prese il coraggio di parlargli apertamente del problema dei due professori tuttora sospesi dall’insegnamento. Il Papa mostrò grande attenzione a questo fatto, chiese di poter conoscere esattamente i nomi dei due docenti e li trascrisse su un foglio. Poi fece verificare dal rettore quanto aveva scritto per essere sicuro che i due nomi fossero esatti. Aggiunse semplicemente questa parola: «Mi farò informare». Il rettore uscì dall’udienza con la persuasione che il Papa aveva ben capito il problema e avrebbe agito rapidamente. Fu ciò che avvenne. Fu tolta la sospensione dall’insegnamento e i due professori poterono riprendere con fiducia il loro lavoro. Da ciò ricavammo subito l’impressione che il nuovo Papa era molto attento alle persone e capace di ascolto e di intervento coraggioso.
Quando, nel 1969, divenni rettore del Pontificio Istituto Biblico ebbi più volte l’occasione di incontrare il Papa. Ricordo ancora bene i temi di quei colloqui. Egli mi parlò tra l’altro del suo desiderio di far rivedere la versione della Bibbia latina detta «Vulgata» per venire incontro a una richiesta del concilio. Discutemmo brevemente della cosa con il pro e il contro delle diverse soluzioni. In quella discussione fui stupito della conoscenza che il Papa mostrava dei problemi della critica testuale e della storia della trasmissione del testo biblico: si sentiva che si era documentato accuratamente per il colloquio. Egli trovò poi la soluzione più efficace per l’auspicata revisione del testo, con la creazione di un’apposita commissione pontificia che affrontò con decisione il lavoro e lo condusse a termine in tempi ragionevoli. Un altro argomento toccato da quei colloqui fu quello di alcune recenti scoperte archeologiche e del significato che potevano avere per l’esegesi biblica. Ammirai in quell’occasione sia l’attenzione del Papa per questi problemi sia il suo assoluto rispetto per la libertà della ricerca scientifica. Si trattò in un’altra occasione di alcuni problemi del Pontificio Istituto Biblico. Anche qui vidi il Papa prendersi a cuore personalmente la cosa e far poi avere all’Istituto una cospicua donazione che permise di effettuare alcuni lavori importanti di ristrutturazione.
Questi miei ricordi personali sono ben poca cosa rispetto a quanto questo libro ci dirà di quel grande cristiano e grande Papa che fu Paolo VI. Ma ho voluto confermare con qualche memoria inedita quello che ho sempre intuito di lui: una persona profondamente credente, umile, disponibile e attenta al dialogo, sempre desiderosa di aiutare e timorosa di disturbare altri, una persona che ebbe il dono di una grande perseveranza nelle prove. Sono certo che l’esempio della sua vita, descritto in questo volume, aiuterà molti a mettere in luce nella propria esistenza quel primato della santità di cui ci ha parlato così efficacemente Giovanni Paolo II nella sua ultima lettera Novo millennio ineunte. Così la testimonianza cristiana passa da una generazione all’altra portando frutti di vangelo vissuto.

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Genio e interprete del concilio
(Loris Francesco Capovilla) L’esistenza di Giovanni Battista Montini, dall’avviamento di servizio in Vaticano sino alla morte di Giovanni XXIII, sarebbe stata, secondo l’opinione di alcuni, un lento avanzare verso le soglie della Basilica Vaticana, per ricevervi l’investitura di Successore di Pietro. Nessuno potrà asserire con assoluta certezza che le cose siano andate così. Tuttavia sappiamo che l’humanitas di Montini, la sua fede, la sua religiosità, la sua cultura ed esperienza, la sua capacità di leggere la storia e di interpretarne gli eventi, lo qualificavano come il prelato tra i più eminenti, uno sul quale doveva convergere la designazione dei cardinali elettori.
Dopo la morte di Giovanni XXIII, Montini non partecipò alle cosiddette congregazioni generali che i porporati, sede vacante, tengono una o due volte al giorno. Partì da Milano per recarsi a Roma il 18 giugno 1963, alla vigilia dell’ingresso in conclave. Lo seguiva l’eco delle parole fatte risonare dentro le volte del duomo di Milano il 7 giugno. Il 21 giugno, al quinto scrutinio, accettò il papato assumendo il nome di Paolo. Dell’Apostolo delle genti imitò sin dai primi mesi l’impegno itinerante: l’impegno del concilio e l’aggiornamento secondo l’indicazione data dal suo antecessore: «Fedeltà e rinnovamento», il cammino del colloquio e dell’incontro con i popoli dei cinque continenti.
Quindici anni di pontificato impressero solchi profondi nella Chiesa da farci ora ripetere, applicandola a lui, la domanda che egli rivolse alla cristianità quindici giorni innanzi durante le esequie milanesi di Giovanni XXIII: «Potremo noi lasciare strade così magistralmente tracciate per l’avvenire? È da credere che no! E sarà questa fedeltà ai grandi canoni del suo pontificato ciò che ne perpetuerà la memoria e la gloria e ciò che ce lo farà sentire ancora a noi paterno e vicino».
Per ritrovarlo, riudirne la conversazione sapiente e lungimirante non si dura fatica. Difatti in ciascuno degli atti del suo papato c’è tutto Montini: in ciascun suo documento e insegnamento, in ciascuna delle sue peregrinazioni in Italia e nel mondo.
Uomini dell’area cattolica e di ogni altro spazio culturale e religioso ne hanno ammirato il genio pastorale. Molti lo hanno introdotto nel loro cuore con riverenza affettuosa. Arduo sarebbe tracciarne il profilo esaustivo; inutile fare ricorso a vocaboli altisonanti. Definirlo Papa diplomatico o politico, Papa aristocratico, Papa incerto o angosciato, significherebbe non aver capito nulla. È stato Pontefice religioso nel significato più profondo; uomo semplice e discreto, rispettoso della propria e altrui libertà, consapevole del peso formidabile calato sulle sue fragili spalle e ciononostante ugualmente sicuro di camminare con Cristo, la mano nella mano. È stato un cantore dell’umanità e dei suoi valori, non pessimista, non illuso, non spaventato, bensì aperto alla speranza, sempre fiducioso nella resipiscenza degli erranti. «Vediamo la sua figura nella luce di tutto ciò che ha fatto ed insegnato e la vediamo sempre meglio a misura che il tempo ci allontana dalla sua vita terrena e dal suo ministero» (Giovanni Paolo II).
Alcune sue immagini continueranno a ispirare artisti e poeti: Paolo VI recante il Crocifisso al Colosseo; lui, sulle rive del Giordano e nel Cenacolo; lui, alla tribuna dell’Onu; lui, mentre nella Cappella Sistina bacia i piedi dell’inviato di Costantinopoli; lui, sulla scaletta dell’aereo. Sono sequenze che commentano i contrassegni della Chiesa itinerante all’epoca del concilio Vaticano II: la Chiesa della Parola, del servizio, della comunione.
Paolo VI è stato la guida e l’interprete del concilio. A Papa Giovanni va riconosciuta la paternità e la profezia della provvidenziale assise ecumenica; al suo successore il merito incomparabile di averla condotta alla sua piena realizzazione e di esserne stato, sino alla fine, il perseverante catechista e cantore.
Paolo VI è entrato nella storia come il Papa della riforma liturgica, della riforma della Curia Romana e della Casa Pontificia, del regolamento del conclave e di altro ancora; il Papa del dialogo con i fratelli separati, dell’abbraccio coi patriarchi dell’Oriente e coi capi delle comunità anglicane e protestanti; della cortesia di rapporti con i rappresentanti dell’ebraismo e delle religioni monoteistiche, e con gli uomini di stato e di cultura di ogni estrazione ideologica, ancorché non credenti; il Papa pellegrino in Terra Santa e a Efeso, il Papa presidente di grandi assemblee religiose in Asia, in Africa, in America, in Oceania. A New York, nell’aula del Palazzo delle Nazioni risonerà per sempre la sua evangelica esortazione: «Mai più la guerra! Mai più! (...) Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo, in maniera nuova le vie della storia e dei destini del mondo. Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo».
L'Osservatore Romano