martedì 29 luglio 2014

Se il gaucho c’insegna che la crisi è un problema morale.



 Una rilettura del «Martín Fierro» di José Hernández come grande metafora del presente. Prefazione di Jorge Mario Bergoglio    

È in uscita nelle edicole italiane un’edizione del poema epico Martín Fierro di José Hernández inserito nella collana «La biblioteca di Papa Francesco», curata da Antonio Spadaro (edizioni Rcs per il «Corriere della Sera», in collaborazione con «La Civiltà Cattolica»). Anticipiamo stralci della prefazione di Jorge Mario Bergoglio tratta da Educar: exigencia y pasión. Desafíos para educadores cristianos (Buenos Aires, Claretiana, 2006).

di Jorge Mario Bergoglio

È curioso. Solo a vedere il titolo del libro, ancora prima di aprirlo, trovo stimolanti spunti di riflessione riguardo al nucleo della nostra identità in quanto nazione. El gaucho Martín Fierro, titolo con cui fu pubblicato il primo libro del poema, in seguito conosciuto come La ida(“La partenza“). Che cos’ha a che vedere il gaucho con noi? Se vivessimo nella Pampa, e badassimo al bestiame, o almeno in un paesino di campagna, a contatto con la terra, sarebbe facile capirlo. Nelle nostre grandi città, sicuramente a Buenos Aires, molti ricorderanno i cavalli della giostra o i recinti della Feria de Mataderos come quanto di più vicino all’esperienza equestre abbiano conosciuto in vita loro.
È necessario sottolineare che l’ottantasei per cento degli argentini vive nelle grandi città? Per la maggior parte dei nostri giovani e dei nostri bambini il mondo del Martín Fierro è più lontano degli scenari mistico-futuristi dei fumetti giapponesi.
Questo, naturalmente, dipende dalla globalizzazione. Da Bangkok alla città brasiliana di San Paolo, da Buenos Aires a Los Angeles o Sidney, i ragazzi ascoltano la stessa musica, i bambini vedono gli stessi cartoni animati, le famiglie si vestono, mangiano e si divertono servendosi nelle stesse catene di franchising. La produzione e il commercio circolano attraverso frontiere nazionali sempre più permeabili. Concetti, religioni e stili di vita di altri Paesi ci sembrano più vicini grazie ai mezzi di comunicazione e al turismo.
Eppure questa globalizzazione è una realtà ambigua. Sono molti i fattori che paiono indurci a sopprimere le barriere culturali che impedivano il riconoscimento della comune dignità degli esseri umani, e ad accettare la diversità di condizioni, razze, sesso o cultura. Mai come oggi l’umanità ha avuto la possibilità di costituire una comunità mondiale multiforme e solidale. 
Per contro, l’indifferenza verso i crescenti squilibri sociali, l’imposizione unilaterale di valori e abitudini da parte di alcune culture, la crisi ecologica e l’esclusione di milioni di esseri umani dai benefici dello sviluppo inducono a porsi una serie di domande riguardo a una simile mondializzazione. Il costituirsi di una famiglia umana solidale e fraterna continua a rappresentare, in tale contesto, un’utopia.
Una reale crescita nella coscienza dell’umanità non può che basarsi sulla pratica del dialogo e dell’amore. Dialogo e amore che presuppongono il riconoscimento dell’altro in quanto tale, l’accettazione della diversità. Soltanto su ciò si può fondare il valore di una comunità: non pretendendo che l’altro si subordini ai miei criteri e alle mie priorità, non “assorbendo” l’altro, ma riconoscendone il valore, e accogliendo con gioia questa diversità che arricchisce tutti noi. Il contrario è mero narcisismo, imperialismo, pura stupidità.
Questo però va letto anche in senso inverso: come posso dialogare, come posso amare, come posso costruire qualcosa di comune se lascio che si dissolva, si perda, scompaia quello che sarebbe stato il mio contributo? La globalizzazione in quanto imposizione unidirezionale e uniformante di valori, pratiche e merci, si accompagna all’integrazione intesa come imitazione e subordinazione culturale, intellettuale e spirituale. Allora, né i profeti dell’isolamento relativista, né eremiti localisti in un mondo globale, né banderuole ebeti e insulse, seduti ad ammirare i fuochi d’artificio del Mondo (degli altri) con la bocca spalancata e l’applauso programmato.
Possiamo fare buon uso del nostro poema nazionale solo se ci rendiamo conto che quanto vi si narra ha a che fare direttamente con noi, qui e ora, e non perché siamo dei gauchos o ce ne andiamo in giro con il poncho, ma perché il dramma che Hernández ci racconta si inserisce nella storia reale che con il suo percorso ci ha portati fin qui. Gli uomini e le donne riflessi nel tempo del racconto vissero in questa terra, e le loro decisioni, produzioni e ideali plasmarono la realtà della quale oggi noi facciamo parte, quella che ci tocca direttamente. 
E proprio questa “produttività”, questi effetti, questa capacità di situarsi nella dinamica reale della storia sono ciò che fa del Martín Fierro un poema nazionale. Non la chitarra, le improvvise scorrerie degli indios, la payada.
Dinnanzi alla crisi si rende di nuovo necessario rispondere a una domanda basilare: su che cosa si fonda quello che chiamiamo “vincolo sociale”? Quello che siamo soliti dire corre seriamente il rischio di perdersi, che cos’è, in definitiva? Che cos’è quella cosa che mi “vincola”, mi lega ad altre persone in un luogo determinato, al punto da condividerne il destino?
Si tratta di una questione etica. Il fondamento del rapporto tra l’ambito morale e quello sociale sta proprio in quello spazio (così difficile da definire) nel quale l’uomo è uomo nella società, animale politico, come direbbero Aristotele e tutta la tradizione repubblicana classica. Ed è questa natura sociale dell’uomo a fondare la possibilità di un contratto tra individui liberi, come propone la tradizione democratica liberale (tradizioni tante volte opposte, come dimostrano i numerosi conflitti avvenuti nella nostra storia). 
Allora, porre la crisi come problema morale presuppone la necessità di tornare a riferirsi ai valori umani, universali, che Dio ha seminato nel cuore dell’uomo e che vanno maturando con la crescita personale e comunitaria. Le libere azioni degli esseri umani, oltre ad avere un peso per quanto riguarda la responsabilità individuale, hanno conseguenze a lungo termine: generano strutture che rimangono nel tempo, diffondono un clima nel quale determinati valori possono occupare una posizione centrale nella vita pubblica o rimanere emarginati dalla cultura vigente. E anche questo ricade nell’ambito morale. 
Perciò dobbiamo ritrovare quel particolare modo di convivere, di essere una comunità, che ci siamo dati nel corso della nostra storia.
Riprendiamo dunque in mano il poema in base a quest’ottica. Come ogni racconto popolare, il Martín Fierro comincia con una descrizione del paradiso originario. Dipinge una realtà idilliaca, in cui il gauchovive secondo il lento ritmo della natura, circondato dai suoi affetti, lavorando con gioia e destrezza, divertendosi con i suoi pari, integrato in un mondo semplice e umano. Che cosa vuole dirci questo scenario?
In primo luogo, l’autore non è mosso da una sorta di nostalgia per un «gauchesco Eden perduto». 
L’espediente letterario di dipingere una situazione ideale al principio di una narrazione non è che una presentazione dell’ideale stesso. Il valore cui intende dare forma non sta dietro, alle origini, ma avanti, nel progetto. 
Alle origini vi è la dignità del figlio di Dio, la vocazione, la chiamata a dare forma a un progetto. È un “porre la fine al principio” (idea, del resto, profondamente biblica e cristiana). La direzione che conferiremo alla nostra convivenza avrà a che fare con il tipo di società che vogliamo formare: con il suo telostipo. Lì sta la chiave del carattere di un popolo. Questo non significa ignorare gli elementi biologici, psicologici e psicosociali che influiscono sulle nostre decisioni. Non possiamo fare a meno di portarci dietro (nel senso negativo di limiti, di condizionamenti, di zavorre, ma anche nel senso positivo del portare con noi, dell’avere dentro, dell’annettere a noi) l’eredità ricevuta, i comportamenti, le preferenze, i valori che si sono andati costituendo nel corso del tempo. 
Una prospettiva cristiana però (e questo è uno dei contributi del cristianesimo all’umanità nel suo insieme) è in grado di valutare sia ciò che è dato, ciò che è nell’uomo — e non può essere altrimenti — sia ciò che scaturisce dalla sua libertà, dalla sua apertura al nuovo; in definitiva, dal suo spirito in quanto dimensione trascendente, sempre secondo le potenzialità di ciò che è dato.
E dunque, i condizionamenti della società e la forma che hanno assunto, così come le scoperte e le creazioni dello spirito finalizzate a un sempre maggiore ampliamento dell’orizzonte umano, insieme alla legge naturale insita nella nostra coscienza, si mettono in gioco e si realizzano concretamente nel tempo e nello spazio: in una comunità reale, fatta di persone che condividono una terra, che si pongono obiettivi comuni, che costruiscono un loro modo di essere uomini, di coltivare i molteplici legami che le uniscono attraverso le tante esperienze condivise, preferenze, decisioni e avvenimenti. 
Così si creano un’etica comune e l’apertura verso un destino di pienezza che definisce l’uomo in quanto essere spirituale. Quest’etica comune, questa “dimensione morale”, è quella che permette alla moltitudine di svilupparsi nel suo insieme, senza che ci si trasformi in reciproci nemici. Che cosa fa sì che molte persone formino un popolo? In primo luogo, vi è una legge naturale, e poi un’eredità. In secondo luogo, un fattore psicologico: l’uomo si fa uomo nella comunicazione, nella relazione, nell’amore verso i suoi simili. Nella parola e nell’amore.
E in terzo luogo, questi fattori biologici e psicologico-evolutivi si realizzano, si mettono davvero in gioco nel libero agire, nella volontà di legarci agli altri in un certo modo, di costruire la nostra vita con i nostri simili in un ventaglio di preferenze e pratiche condivise (Agostino definiva il popolo come «un insieme di esseri razionali associato dalla concorde comunione delle cose che ama»).
La dimensione “naturale” cresce trasformandosi in “culturale”, “etica”; l’istinto gregario acquista forma umana nella libera scelta di diventare un “noi”. Una scelta che, come ogni azione umana, tende a farsi abitudine, a generare un sentimento radicato e a produrre istituzioni storiche, fino al punto che ciascuno di noi viene al mondo in seno a una comunità già costituita senza che ciò neghi la libertà responsabile della persona. E tutto ciò trova il suo saldo fondamento nei valori che Dio ha inculcato nella nostra natura umana; nel soffio divino che ci anima da dentro e che ci rende figli di Dio.
L'Osservatore Romano