lunedì 21 luglio 2014

Cristiani in Iraq

Iraq, la preghiera dei cristiani

Appello del patriarca di Babilonia dei caldei affinché i musulmani rispettino le prescrizioni non violente del Corano. Peggiora di ora in ora la situazione dei cristiani in Iraq

Peggiora di ora in ora la condizione dei cristiani in Iraq. Dopo che centinaia di famiglie nei giorni scorsi sono state costrette a fuggire e ad abbandonare i propri villaggi e le proprie abitazioni sotto la minaccia delle milizie jihadiste dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), ora, nel tentativo di piegare la popolazione di Mosul e delle altre località della provincia settentrionale irachena di Ninive, il gruppo estremista ha improvvisamente lasciato senza acqua, luce e gas quelli che ancora resistono alle sue minacce. In varie zone di Ninive, che è sotto il controllo degli estremisti islamici, sono in aumento gli sfollati interni.
Tra questi famiglie cristiane che nei giorni scorsi sono state costrette ad abbandonare i propri beni sotto la minaccia dell’ultimatum dei jihadisti (conversione all’islam o morte) e per la mancanza dei servizi di base. 
Domenica pomeriggio, poi, i miliziani jihadisti si sono impossessati anche dell’antico monastero di Mar Behnam, a dieci minuti dalla città di Qaraqosh, in maggioranza cristiana, fino a sabato scorso gestito dai monaci siro-cattolici. «La comunità internazionale — ha sottolineato, commentando i fatti accaduti a Mar Behnam, il sacerdote Nizar Semaan, collaboratore dell’arcivescovo di Mossul dei Siri, monsignor Yohanna Petros Moshe — fa registrare una inquietante passività davanti a ciò che sta accadendo. Occorre porre in atto misure concrete sul piano umanitario e politico». 
In una lettera aperta, indirizzata «a tutti gli uomini di buona volontà e a coloro che si preoccupano per la nazione irachena», il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphaël Sako I, ricorda che le recenti azioni di violenza sono contrarie al Corano e danneggiano la grande storia comune di impegno di tutti gli iracheni per la nazione. Scrive il patriarca: «I cristiani — sin dall’avvento dell’islam e in particolare nel nostro Oriente — hanno condiviso con i musulmani ricordi felici e amari, hanno mischiato il sangue per la difesa dei propri diritti e delle proprie terre, hanno costruito insieme città, civiltà ed eredità comune». È «una vergogna — continua — che ora i cristiani vengano rigettati, espulsi e limitati nella loro vita. È ovvio che questo fenomeno avrà conseguenze disastrose nel concetto stesso di coesistenza fra la maggioranza e le minoranze, e persino fra gli stessi musulmani, nel breve e nel lungo periodo. L’Iraq è sull’orlo di un disastro umanitario, culturale e storico».
Ecco perché, si legge ancora nella lettera, «noi ci appelliamo con calore fraterno, in maniera seria e con un senso d’urgenza, ai nostri compagni iracheni». Essi «devono riconsiderare la propria strategia e rispettare gli innocenti disarmati, di qualunque etnia, religione o setta. Il Corano impone il rispetto degli innocenti e non chiede il sequestro forzato delle proprietà delle persone: al contrario esso predica l’aiuto per le vedove, gli orfani, i deboli e coloro che non hanno difesa. Raccomanda persino di aiutare tutti i vicini».
Conclude Sako: «Chiediamo anche ai cristiani della regione di adottare razionalità e acume, calcolando bene le loro opzioni e cercando di comprendere cosa è previsto per la loro regione, andando avanti con amore e solidarietà per costruire una vera fiducia in loro stessi e nei vicini. Radunatevi vicino alle vostre chiese, siate pazienti, sopportate e pregate fino a che la tempesta non sarà passata». 
Le azioni di rappresaglia dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante contro la comunità cristiana non sono comunque gradite da tutta la popolazione irachena. Domenica sera, infatti, un gruppo di musulmani di Baghdad, uomini e donne, si è riunito davanti alla chiesa caldea di san Giorgio per condannare gli attacchi alla comunità cristiana di Mosul e per portare la propria solidarietà e vicinanza alla comunità minacciata. Alcuni di loro si sono presentati davanti alla chiesa con un cartello dove c’era scritto: «Sono un cristiano iracheno». I fedeli caldei che li hanno raggiunti dopo la messa — secondo quanto riferisce l’agenzia AsiaNews — hanno cantato insieme a loro l’inno nazionale. Molti musulmani hanno dichiarato: «La mia casa è aperta per il mio fratello cristiano». 
Il patriarca di Babilonia dei Caldei li ha ringraziati, sottolineando che «questo raduno porta speranza per un nuovo Iraq. Penso soprattutto ai giovani, che hanno il compito e il dovere di cambiare la situazione». Secondo monsignor Sako, «è una vergogna e un crimine cacciare persone innocenti dalle proprie case e confiscare le loro proprietà perché sono “diversi”, perché sono cristiani. Il mondo intero deve ribellarsi contro queste azioni abominevoli. Noi cristiani amiamo i musulmani e li consideriamo fratelli; essi devono fare lo stesso». Prima di tornare alle proprie case, i cristiani hanno recitato il Padre Nostro e i musulmani la sura al Fatiha (la prima del Corano, che rappresenta il “sunto” del credo musulmano).
A confermare che quanto sta accadendo in Iraq è davvero tragico e che la comunità cristiana è in grave pericolo vi sono continue testimonianze che giungono da consacrati che rimangono nonostante tutto in mezzo a chi ha bisogno, esponendosi a gravi pericoli. Fra questi suor Maria Hanna, priora generale delle suore domenicane, che su quanto sta accadendo in queste ore in particolare a Qaraqosh ha scritto una lettera, che è stata diffusa dalla consorella Madeleine Fredell. Nella missiva suor Maria Hanna racconta il pericolo e i disagi per i cristiani della piana di Ninive e di altre città come Mosul ed Erbil. 
Da quando i miliziani dello Stato islamico hanno preso il controllo di Mosul, il 10 giugno scorso, la mancanza di combustibile e di luce elettrica sono ormai una costante per la popolazione assediata e sotto il controllo dei jihadisti. Adesso a queste complicazioni, si unisce la mancanza di acqua, una punizione per i cittadini «infedeli» che per la loro religione non hanno giurato lealtà ad Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato islamico e la massima autorità di quel califfato islamico che il gruppo estremista dichiara di aver istituito nei territori controllati in Iraq e in Siria. 
Nei giorni scorsi, i miliziani dell’Isis avevano segnato le abitazioni dei cristiani con una grande «N». Lo scopo era di far vedere a tutti che lì abitavano dei “Nazareni”, come sono chiamati i cristiani nei Paesi arabi. «È possibile — ha dichiarato il vescovo ausiliare di Babilonia dei Caldei, monsignor Shlemon Warduni — che cose di questo genere possano avvenire nel mondo di oggi? Dov’è il Governo? Dove sono i diritti umani, le Nazioni Unite, la comunità internazionale?».
L'Osservatore Romano

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... tramonta il “sogno” della Piana di Ninive

Con l’espulsione dei battezzati da Mosul sembrano eclissarsi tutte le prospettive proposte per assicurare la permanenza di comunità cristiane autoctone nello spazio dell’antica Mesopotamia. Da quella “identitaria” a quella “mimetica”

GIANNI VALENTEROMA
A Mosul i militanti dell’auto-proclamato Califfato Islamico hanno occupato chiese e conventi, distrutto statue mariane, divelto croci, bruciato l’arcivescovato siro-cattolico e imposto ai cristiani l’ultimatum: o andate via, lasciando le vostre case e i vostri beni, o pagate la “tassa di protezione”, o vi convertite all’Islam, o morite. Gli ultimi battezzati ancora presenti in città dopo la fuga di massa di giugno sono scappati verso Dohuk, Qaraqosh, Kramles,  Tilkif e altri centri della Piana di Ninive saldamente presidiati dai Peshmerga e dalle forze armate regolari che rispondono al governo autonomo del Kurdistan iracheno. La fuga verso la salvezza assicurata dai “protettori” curdi – che hanno preso anche il controllo di Kirkuk – fa affondare almeno temporaneamente il “progetto della Piana Di Ninive” coltivato da tempo immemore in seno alle comunità cristiane irachene, che puntava a creare in quell’area una regione autonoma da assegnare ai cristiani, per realizzare almeno in parte il sogno ancestrale di un “focolare nazionale” indipendente riservato alle comunità caldee, assire e sire. Sorprende sapere che ancora lo scorso 5 giugno,  soltanto 4 giorni prima della offensiva lanciata su Mosul dai jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), un gruppo di politici e amministratori locali di sigle politiche di matrice cristiana – a cominciare dall’Assyrian Democratic Movement - si erano incontrati a Dohuk per rilanciare il progetto di una Provincia autonoma nella Piana di Ninive, e avevano anche deciso di inviare una delegazione di politici cristiani iracheni negli USA per ravvivare intorno alla causa il sostegno degli ambienti politici internazionali e delle comunità cristiane irachene in diaspora. Nei discorsi dei promotori, la creazione di una Provincia indipendente “dedicata” ai battezzati rappresentava l’unico strumento in grado di tutelare la sopravvivenza di una componente cristiana autoctona in seno alla nazione irachena.


Intorno alla Piana di Ninive si  concentrano da secoli le opzioni contrastanti e i nodi da sciogliere per garantire la permanenza di comunità cristiane autoctone nello spazio dell’antica Mesopotamia. Dopo i fasti della Chiesa nestoriana dei primi secoli cristiani e le persecuzioni subite sotto i turchi selgucidi e poi sotto i mongoli al tempo del Tamerlano, in epoca ottomana quel che sopravviveva dell’antica Chiesa assira d’Oriente era sopravvissuto per secoli arroccandosi proprio tra le tribù assire concentrate tra i contrafforti montuosi del Kurdistan, nel territorio tra Mosul, l’Hakkari e il lago Urmia. In quel lungo tempo d’isolamento la fisionomia stessa della Chiesa assira d’Oriente aveva portato a compimento la sua immedesimazione con l’etnia assira. L’isolamento tribale si era rotto parzialmente solo con l’arrivo dei missionari cattolici latini. Nel 1553, alcuni vescovi assiri avevano scelto di riaffermare la piena comunione col vescovo di Roma. Così è nata la Chiesa caldea, con a capo un Patriarca, divenuta col tempo maggioritaria in seno al cristianesimo iracheno, e che rispetto ai cristiani “assiri” di solito ha trovato anche nel suo legame con la Sede romana un prezioso antidoto alle derive del particolarismo etnico. Lo si è potuto sperimentare più volte anche nel diverso approccio davanti ai rivolgimenti geo-politici dell’area, e alle manovre politico-militari attuate in Asia centrale dalle potenze straniere. Durante la prima guerra mondiale, agenti britannici infiltrati in Kurdistan avevano arruolato gli assiri con la promessa di appoggiare la creazione di uno Stato assiro indipendente alla fine del conflitto. Anche nell’Iraq sotto mandato britannico i combattenti assiri avevano affiancano le truppe del Regno Unito nella repressione delle insurrezioni sciite e curde, continuando a rivendicare lo statuto di “Stato nello Stato” sotto l’autorità temporale del Catholicos. Un’ostinazione “indipendentista” punita con ferocia dal nuovo Stato indipendente, imbevuto di nazionalismo arabo e intenzionato a colpire tutti i particolarismi etnico-religiosi che mettevano a rischio l’unità nazionale. Nell’agosto 1933, in tutta la provincia di Mosul le truppe regolari avevano infierito con massacri non solo contro gli assiri ma anche contro siri, armeni, caldei. Nelle sole regioni di Dohuk e di Cheikhan erano stati messi a ferro e fuoco 65 villaggi cristiani mentre il Catholicos assiro, espulso, trovava rifugio negli Stati Uniti e le comunità assire in diaspora divenivano custodi fuori frontiera del nazionalismo assiro, coltivando per tutto il Novecento il miraggio di “Assiria”, la Patria assira indipendente.


Da canto suo, da quel momento la Chiesa caldea ha puntato sulla carta dell’integrazione “panaraba” e accantonando la rivendicazione di ogni particolarismo etnico-nazionale. Mentre Sembrava affievolirsi il miraggio di un focolare nazionale assiro-caldeo, i cristiani rimasti in Iraq si arabizzavano culturalmente, con un’attitudine mimetica e minimalista grazie alla quale i caldei iracheni hanno attraversato i decenni del militar-socialismo baathista subendo limitazioni e soprusi ma riuscendo comunque a sopravvivere e a crescere, anche nelle grandi città dell’Iraq centro-meridonale, fino agli interventi militari a guida nord-atlantica. La condanna espressa dalla Chiesa caldea guidata dal Patriarca Raphael I Bisawid alle operazioni a guida Usa Desert storm (’91) e Iraqi freedom (2003), ha trovato una formidabile sponda a Roma, in Giovanni Paolo II e nella diplomazia vaticana. In quegli anni i cristiani d’Iraq si sono sottratti al sospetto di complicità coi “nuovi crociati” d’Occidente che serpeggiava tra i loro connazionali musulmani. Ma negli anni successivi, anche loro non sono rimasti immuni al contagio delle pulsioni settarie e nazionaliste scatenate dopo la fine del regime di Saddam. La linea “mimetica” che configurava l’assimilazione culturale e politica dei cristiani nel milieu arabo è sembrata venire sconfessata, soprattutto sotto la spinta dei circoli “assiri” e “caldei” operanti nella comunità della diaspora sparse in Nord America. Negli anni del Patriarca Emmanuel III Delly, il revanscismo identitario ha segnato anche alcune dichiarazioni dei vertici della Chiesa caldea che si esprimevano sulla scena pubblica come leadership di una minoranza etnico-nazionale in lotta per la salvaguardia dei propri diritti sociali, politici e culturali nel settembre 2003  - per fare un esempio - i vescovi caldei scrivevano al funzionario Usa Paul Bremer – a quel tempo amministratore civile dell’Iraq - per protestare contro la totale assenza di caldei nel governo transitorio, parlando come custodi di un’identità etnica, più che religiosa («i caldei rappresentano la terza comunità etnica dell’Iraq, subito dopo gli arabi e i curdi »).

Negli ultimi tempi, con l’elezione del Patriarca Louis Raphael I Sako, le pulsioni identitario-nazionaliste in seno alla leadership caldea avevano  registrato una forte battuta d’arresto. L’attuale Patriarca non ha mai sostenuto i progetti di una Piana di Ninive organizzata come provincia “cristiana” autonoma e protetta, surrogato del mito dell’Assiria “indipendente”, e ha sempre denunciato l’esplosione dei settarismi come un pericolo esiziale per la sopravvivenza stessa di quel che rimane delle comunità cristiane in territorio iracheno dopo l’esodo seguito agli interventi armati occidentali. Adesso, la ferocia jihadista dei fiancheggiatori del Califfato islamico fa piazza pulita dell’idea stessa di convivenza tra diversi. Ne fanno le spese non solo i cristiani, ma anche gli sciiti, i curdi, gli Yezidi, gli stessi sunniti non contagiati dal furore islamista. Per i cristiani di Mosul e dei villaggi della Piana di Ninive, rimane aperta la prospettiva di continuare a vivere sotto la protezione delle milizie curde, in un Kurdistan di fatto indipendente. Così sembrano sul punto di realizzarsi i piani di chi a Erbil puntava da tempo - anche con generose elargizioni - a guadagnare il sostegno delle minoranze cristiane alla causa indipendentista curda, inglobando  nel futuro Stato indipendente anche la pianura di Ninive come “riserva assiro-caldea” tollerata all’interno di uno stato etnico curdo.

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Il musulmano che si è fatto uccidere per i cristiani di Mosul


Il sito caldeo ankawa.com racconta: un docente universitario ha parlato apertamente contro la persecuzione verso i cristiani ed è stato ucciso. Intanto lo Stato islamico ha fissato in 450 dollari al mese la tariffa della jizya

GIORGIO BERNARDELLI

Non ha accettato di rimanere in silenzio di fronte alle violenze contro i cristiani di Mosul, costretti alla scelta tra la conversione all’islam, il pagamento della jizya (la tassa islamica per i non musulmani) o la fuga. Così il professor Mahmoud Al 'Asali, un docente di legge del dipartimento di pedagogia dell’Università di Mosul, ha avuto il coraggio di schierarsi apertamente contro questa forma brutale di costrizione, da lui giudicata contraria ai dettami dell’islam. Un gesto che - però - ha pagato con la vita: i miliziani dell’Isis lo hanno ucciso ieri a Mosul.

A riferire la notizia è il sito caldeo ankawa.com, uno dei più tempestivi nell’aggiornare sul calvario vissuto dai cristiani nel nord dell’Iraq. Tra i tanti fatti tragici di queste ore ha voluto che comunque non fosse dimenticato questo atto di grande coraggio compiuto da un musulmano. Il professor Al 'Asali sapeva infatti certamente quello che rischiava: a Mosul tutti sanno che a Raqqa, la città siriana dove lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante governa già da un anno, sono tantissimi gli attivisti per i diritti  umani che hanno pagato con la morte la loro opposizione all’intolleranza dell’Isis. Eppure Al 'Asali ha ritenuto lo stesso di non poter stare in silenzio.

Come stanno facendo anche tanti altri musulmani, che da ieri a Baghdad hanno lanciato la campagna «Io sono iracheno, io sono cristiano» come risposta alle lettere N di «nazareni» tracciate sui muri delle case dei cristiani di Mosul. Alcuni di loro si sono presentati anche con un cartello con questo slogan, ieri, fuori dalla chiesa caldea di San Giorgio a Baghdad e hanno postato la foto su Facebook.


Segnali contro corrente che non fermano – però - la follia dei fondamentalisti dello Stato islamico. Così oggi sono andati avanti con il loro proposito di pulizia etnica, diffondendo le tariffe della jizya, la tassa islamica «di protezione» che dovrebbero pagare tutti i non musulmani che volessero restare o tornare a Mosul. La cifra indicata è di 450 dollari al mese, una somma iperbolica per chi vive oggi nel nord dell’Iraq. Sempre oggi è giunta anche la notizia di un altro luogo cristiano carico di storia nel nord dell’Iraq, caduto nelle mani dello Stato islamico: si tratta del monastero siro cattolico di Mar Benham, vicinissimo a Qaraqosh, la citta cristiana della piana di Ninive, dove è scappata la maggior parte dei cristiani. A Mar Benham la presenza monastica risale addirittura al IV secolo. «Hanno imposto ai tre monaci e ad alcune famiglie residenti nel monastero di andar via e di lasciare le chiavi», ha raccontato all’agenzia Fides il vescovo siro cattolico di Mosul, Yohanna Petros Moshe. Il monastero - riferisce il sito Bagdadhope - era stato restaurato nel 1986 diventando luogo di pellegrinaggio per i cristiani ma anche per alcuni musulmani.