mercoledì 30 luglio 2014

La cena delle lunghe forchette




Una tradizione derviscia per la fine del ramadan invita a riflettere sul futuro della convivenza. 


(Alberto Fabio Ambrosio) Quest’anno il ramadan, mese sacro dell’islam nel quale dall’alba al tramonto il musulmano digiuna per lasciare spazio alla meditazione del Corano, è stato segnato da eventi tutt’altro che di pace. Se in questo periodo i musulmani si ritrovano in famiglia, tra amici e in società, per rompere insieme il digiuno, condividere una ricca cena e insieme trasmettere i valori di pace, benedizione e fraternità, non si può dire che questi valori siano stati praticati da tutti credenti e in tutti i Paesi a maggioranza musulmana. 
Basta pensare all’Iraq ma anche alla situazione in Siria e ancora a Gaza; che tutto ciò capiti durante questo mese fa rimanere ancora più sbigottiti. La mia non vuole essere un’analisi politica, ci vuol ben altro per capire quanto sta succedendo e forse una delle prime vittorie del male è proprio quella di lasciare esterrefatti e inermi tanti credenti. Quanto sta accadendo in varie regioni del mondo è una vera e propria prova della fede: gli avvenimenti a cui si assiste in maniera inerme finiscono per creare nel semplice credente una specie di dicotomia che mina alla base la speranza nel futuro. Mi spiego.
A Istanbul capita spesso di essere invitati per l’iftar, la tradizionale cena che chiude il digiuno giornaliero. Quando all’iftar sono invitati membri di chiese e di altre comunità di fede, il senso del dialogo interreligioso è ancora più forte e in queste occasioni vengono rivolte parole di augurio per una serena convivenza. Anche questo anno, come da parecchi anni, i francescani della comunità di Santa Maria si ritrovano nella moschea di Şişli, uno dei moderni quartieri di Istanbul, insieme al maestro Nail Kesova, erede della tradizione dei dervisci danzanti. Di solito anch’io ne prendo parte e vi scopro ogni volta una profonda fraternità. Diversi sono i fedeli turchi, alcuni amici francesi che organizzano amorevolmente la serata, un console generale e anche e soprattutto l’ospite, l’imam della suddetta moschea.
È una cena cordiale, dove gli invitati possono conversare sinceramente perché ormai si è consolidata una cortese amicizia, per cui le parole di augurio non sono più una parata per l’occasione. Quest’anno un gesto ha gettato una luce tutta particolare sull’evento: durante la cena, l’imam porge a un ospite un boccone di dolce con una forchetta. Si direbbe che lo imbocca. All’inizio, gli estranei alle tradizioni si lasciano andare al sorriso: «Che sta facendo?», pensano. Poi l’imam spiega, secondo un detto ben noto, che il boccone offerto dall’imam è «più leggero, più sano» (è da notare che si tratta di un dolce al miele e ben fritto, dunque tutt’altro che leggero). Preso dall’interesse, anch’io chiedo di poter essere servito con quella tradizione. E l’imam non lascia passare un solo secondo dalla mia provocazione che prende il vassoio e fa il giro dei convivi imboccando ciascuno con quel dolce prelibato. La tradizione, come ci racconta, prevedeva due cucchiai per ogni derviscio: quello sulla destra era per servirsi da sé e quello sulla sinistra era al fine di porgere il cibo all’ospite accanto, ritenuto sacro. È perfino commovente pensare a quanto i veri credenti cerchino di rispettare l’ospite, il primo prossimo in cui possiamo imbatterci.
Dopo la serata, uscendo, si ripensa a quanto sta accadendo nel mondo e nasce l’angoscia di vivere delle esperienze che si rivelano fini a sé stesse: cosa sono questi piccoli gesti se poi, là fuori, nel mondo “vero”, tutto peggiora? E il ramadan, come ogni periodo forte di una religione, rischia di diventare un tempo di disperazione anziché di maggiore intensità nella fede. Questa è la situazione del vero fedele, sospeso tra le situazioni di guerra che toccano le differenti comunità religiose e la speranza dei piccoli gesti. Non possiamo nascondere che per tutti quelli che credono nel dialogo e desiderano una costruttiva convivenza, nel rispetto delle differenze, questi momenti sono di tentazione. Non so se esistano vere ricette se non quella della forza reiterata nella fede solida che non nasconde le atroci verità e non annulla il senso dei piccoli gesti che costruiranno, lo si voglia o no, l’avvenire.
Il gesto dell’amico imam mi ha ricordato quanto un profondo uomo di fede e di dottrina, un confratello domenicano, mi aveva raccontato. Si dice che nell’aldilà, nel banchetto regale delle nozze, ogni credente ammesso al convito avrà a disposizione lo stesso coperto tanto per il paradiso che per l’inferno. Si tratta di posate particolari, di forchette e cucchiai con manici lunghissimi impossibili da utilizzare per portare il cibo in bocca.
Allora la differenza sarà chiara: chi non si sarà esercitato nell’amore tenterà di imboccarsi, fino a diventare esausto, ma non ci riuscirà a causa di quelle enormi posate perché non avrà nemmeno preso il tempo per riflettere su come poter sormontare l’apparente ostacolo dei lunghi manici. Chi si sarà esercitato nell’amore e nella carità, non avrà nessuna difficoltà a nutrirsi perché avrà immediatamente trovato la soluzione più semplice: essere imboccato dal proprio vicino. Ognuno potrà servirsi di quelle posate ma per imboccare il proprio compagno di eterna esistenza. Da strumento inutile per la propria sussistenza, l’amore rende quel mezzo un segno forte di amore. Forse dovremmo pensare più sovente a queste tradizioni e a queste storie per risvegliare il senso così naturale in noi per l’amore, sbiadito dalla dicotomia che oggi la realtà ci propone.
L'Osservatore Romano