domenica 20 luglio 2014

I tempi dell’affettività


di F. Agnoli
Si parlava, la volta scorsa, del tempo cristiano, come di un tempo lineare, irripetibile, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Anche nella vita affettiva la Chiesa propone una chiara scansione dei tempi. Può essere interessante comprenderla, oggi che l’idea di ordine, anche cronologico, è respinta in ogni campo.
Prima di stare con una donna, o con un uomo, insegna la Chiesa, è bene vivere due tappe: fidanzamento prima, e matrimonio, poi. Un ordine cronologico che è anche logico. E che comporta, come primo dato, il famoso e vituperato divieto di avere rapporti carnali prima del matrimonio.
Nel pensiero cristiano, infatti, prima si conosce una persona, si sperimenta la possibilità di un accordo profondo, e, conoscendola, si impara piano piano ad amarla. Non si dà amore vero, infatti, prima della conoscenza. Così come non si dà profonda conoscenza, senza amore vero. Perché allora la Chiesa chiede ai fidanzati di non avere rapporti carnali prima del matrimonio? Per evitare che un atto che è coronamento della conoscenza (in linguaggio biblico “conoscersi” significa, appunto, stare anche fisicamente insieme) preceda la conoscenza stessa; per impedire che un atto che, per essere vero, presuppone la conoscenza vera tra due persone, sia falsato nella sua natura unitiva, mettendo insieme due realtà che non sono, in verità, unite, ma solo alla ricerca di un egoistico piacere carnale, e cioè divise.
La riprova della veridicità di questo approccio è, per chi voglia guardare con serena razionalità, evidente: i rapporti intrapresi senza una motivazione profonda, senza che una vera conoscenza preceda l’atto carnale, sono gesti che non nascendo dall’amore, non generano amore e si esauriscono in fretta. Lasciando in eredità delusione e tristezza.
Un esempio di questo è la convivenza. Sempre più spesso i rapporti carnali non sono solo prima del matrimonio, ma vengono concepiti al di fuori di esso. Tutti i dati, però, parlano chiaro: le convivenze hanno un tasso di dissoluzione altissimo, sia che siano finalizzate, un domani, al matrimonio, sia, ancora di più, se ciò non accade. Secondo indagini svolte in Inghilterra “se il matrimonio è preceduto dalla convivenza il rischio di divorzio cresce del 60%”. Perché? Dovrebbe essere chiaro: convivere senza aver fatto una precisa scelta, “questa è la persona della mia vita”, indebolisce l’atto (che non possiamo neppure chiamare, appunto, “scelta”, ma “tentativo”) alla sua origine, ma anche nel suo dipanarsi nel tempo.
Le indagini in Inghilterra, coincidenti nei loro risultati con tante altre, dimostrano inoltre che un ragazzo nato da genitori sposati ha il 75% di probabilità di vedere i propri genitori ancora sposati quando compirà il 16esimo anno d’età, “ma se lo stesso ragazzo nasce da genitori che convivono la probabilità è di appena il 7%” (Renzo Puccetti, I veleni della contraccezione, ESD).
Prima ci si fidanza, dunque, e ci si conosce; poi, quando si è scelto di intraprendere una vita insieme ci si sposa e si corona la propria scelta attraverso un conoscersi completo; che è nel contempo “garanzia” per gli sposi, come per l’eventuale progenie. Sposarsi, per un credente, è l’assumersi una responsabilità di fronte a Dio e al prossimo.
Continuiamo a scandire il tempo cristiano dell’affettività: prima si diventa marito e moglie; solo dopo si diventa padre e madre; per essere poi, nel contempo, marito e padre, moglie e madre. Perché prima moglie e poi madre? Prendiamo l’esempio di un rapporto extra matrimoniale, e mettiamoci davanti la ragazza madre che tutti conosciamo: costei, o sarà spinta all’aborto, oppure si troverà ad allevare un figlio da sola, in condizioni di estrema difficoltà, per entrambi. Questo perché l’atto unitivo, ha preceduto l’unità vera e propria; perché l’unione carnale non è stata figlia di un amore cosciente, cioè determinato, fedele, proiettato nel futuro. Prima si assume una responsabilità, l’uno, l’uomo, verso l’altra, la donna, e viceversa; solo allora si potrà vivere lo stesso amore responsabile, e cioè vero, verso una eventuale nuova creatura. E solo l’uomo che sa essere prima marito, saprà anche essere, nel contempo, padre, perché non si dà ideale rapporto con un figlio, se non assicurandogli le stesse figure genitoriali che lo hanno generato.
Le “regole” uccidono l’amore? E’ il presunto amore, senza altra regola che il capriccio e il desiderio del momento, a uccidere. Non siamo forse spettatori, ogni giorno, di omicidi passionali? Di rapporti carnali che generano morte invece che vita? Di separazioni e divorzi che esitano in suicidi? Di stermini di figli, da parte di genitori che hanno rotto la loro unione?
Oggi troppo poco ci interroghiamo su fatti come quello accaduto l’11 febbraio: Michele Graziano, 37 anni, ha una bimba nata da una relazione; da una seconda relazione ha un altro figlio. Anche la seconda relazione si rompe. Un giorno Michele prende i due figli e li sgozza. Poi pianta nel suo petto la lama del pugnale, per suicidarsi.
Simili tragedie possono sempre accadere, ma sono certo più probabili quando il rapporto tra uomo e donna è divenuto “liquido”, senza regole, senza tempi, senza un processo di crescita e di verifica.  Il Foglio, 20 febbraio 2013