martedì 22 luglio 2014

In odio alla fede.


 E i responsabili vanno indicati chiaramente
di Luigi Negri*

È un fatto enorme questo gigantesco esodo in massa di cristiani espulsi dai luoghi dove da millenni era radicata la presenza cristiana, esclusivamente perché cristiani. Quindi per quello che la tradizione cattolica chiama l’odio della fede. E questo deve essere detto esplicitamente: non sono soltanto buttati fuori dalle loro case, privati di tutti i loro beni, privati di tutti i loro diritti e quindi della possibilità di sussistenza; ma la ragione di tutto questo è la fede.
E questo i cristiani, la Chiesa, non possono non sentirlo come un evento terribile e insieme grandioso, perché è l’evento del martirio.
Ho ascoltato con molta gratitudine domenica l’intervento all’Angelus di papa Francesco, così forte, così appassionato e insieme così profondamente compreso di dolore, di compassione. Con non meno gratitudine ho letto la lunga intervista del cardinale Kurt Koch all'Osservatore Romano, che ha offerto un momento di dolorosa riflessione su questo evento. Non si capisce perché alcune cose vengano chiamate Shoah e per queste non venga usato lo stesso termine, che dice di una spaventosa e dissennata ideologica violenza contro l’altro semplicemente perché ha una posizione religiosa diversa dalla propria.
Ma il cardinale Koch ha insistito su un aspetto che non è sempre in primo piano negli interventi del mondo cattolico. Il problema è che c’è una grande difficoltà a una denuncia esplicita. I responsabili di questi spaventosi avvenimenti hanno nomi e cognomi espliciti, e non soltanto quelli degli ultimi, degli epigoni di questa vicenda di criminalità ideologica. Ma c’è una tradizione che risale lungo i secoli della presenza islamica nel Medio Oriente e in Europa.
Ora, il cardinale Koch dice che dovremmo essere più coraggiosi nella denuncia. Ecco, il coraggio è sempre un elemento fondamentale per una presenza cristiana, ma più che mai in un momento come questo. Il coraggio è un aspetto della testimonianza cristiana, è un aspetto fondamentale dell’impatto con la realtà del mondo e degli uomini che ci vivono. Queste responsabilità dunque devono essere dette e proclamate, altrimenti anche le denunce e la volontà di condividere la situazione tremenda di tanti nostri fratelli rischiano di essere parziali.
Certamente noi occidentali, in particolare noi cristiani di questo Occidente che giustamente negli ultimi tempi è stato indicato come caratterizzato da una profonda stanchezza, rischiamo di non affrontare la realtà secondo tutti i suoi fattori. Soprattutto cerchiamo di nascondere o quantomeno di ridurre l’impatto con questo mondo islamico che, ci piaccia o no, ha la responsabilità storica di questi eventi oggi come lungo i secoli che hanno preceduto questo ultimo.
Forse c’è una prevalenza della volontà di dialogo a ogni costo che deprime la verità. E un dialogo senza la verità o che non parta dalla verità non è un dialogo: è un compromesso, è una connivenza, è un’ignavia. 
Ricordo ancora gli interventi di papa Benedetto XVI nel corso dell’indimenticabile Sinodo sulla nuova evangelizzazione quando intervenne dicendo che «il dialogo è in misura della forza della propria identità»; e la forza della propria identità è la pienezza della coscienza critica della propria identità. Il dialogo è espressione di una cultura: il dialogo non produce cultura, la esprime. E la varietà di culture che si esprimono nella loro diversità è un apporto fondamentale a una convivenza pluralistica e democratica.
Ci nascondiamo o rischiamo di nasconderci di fronte a questa terribile minaccia che incombe sull’Occidente, e non solo sull’Occidente, facendo un po’ quello che hanno fatto le cosiddette democrazie liberali borghesi nei confronti della terribile vicenda hitleriana, nei tempi immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale. Si era tutti protesi a dialogare con Hitler, a concedere sul piano immediatamente politico la spartizione di alcuni territori sacrificando qualche volta diritti di popoli che sarebbe stato giusto potessero continuare a vivere la propria esperienza di popolo, di nazione e di stato. Fra tutte la cosa più tragicomica fu quella famosa conferenza di Monaco fatta nell’anno 1938 in cui si andò ancora una volta con il cappello in mano convincendosi che Hitler non era poi così tanto cattivo e che con lui ci potevano essere possibilità di intesa.
Sono così vecchio da aver visto alcuni fotogrammi dei ministri degli Esteri che tornavano nelle rispettive capitali europee lieti di avere segnato un colpo straordinario per l’avvenire pacifico dell’Europa e del mondo. Pochi mesi dopo Hitler rifiutò tutti gli accordi sottoscritti e in pochi altri mesi fece scoppiare quella guerra mondiale che ingoiò sui campi di battaglia o di sterminio 15 milioni di uomini.
La piaggeria, l’ignavia, la mancanza di coraggio non sono virtù, non sono mai virtù. Allora di fronte al sacrificio di centinaia, di migliaia di nostri fratelli uccisi o espulsi in odio alla fede abbiamo il dovere di una profonda solidarietà: nella preghiera e nella carità con loro certo, ma abbiamo non meno grave la responsabilità di dire che ci sono delle responsabilità storiche che fanno capo a certe formulazioni ideologico-religiose che rendono permanente il pericolo che i cristiani, e non solo loro, possano essere oggetto di violenze anche sul territorio nell’ambito dell’Europa o dell’intero mondo civile.

Non avere il coraggio di questa denuncia è esattamente nella misura della debolezza della fede.

* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

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Mosul, 2000 anni di cristianesimo rischiano di sparire
di Giorgio Bernardelli

C'è il dramma di migliaia di persone costrette a lasciare la propria terra a causa della pulizia etnica: un dolore immenso, impossibile da immaginare fino in fondo. Eppure se ci fermiamo solo qui non abbiamo ancora detto tutta la tragedia che stanno vivendo in questi giorni i cristiani dell'Iraq, costretti ad abbandonare Mosul. Ogni angolo del Medio Oriente, infatti, per il cristianesimo non è un posto come gli altri: qui ogni pietra dice qualcosa di ciò che tutti siamo.
Dire Mosul - dunque - per il cristianesimo significa riandare al grande patrimonio di fede del cristianesimo assiro, dal cui alveo sono nate anche le Chiese che oggi chiamiamo caldea e siro-cattolica. Comunità le cui origini risalgono alla predicazione apostolica: la tradizione vuole infatti che gli evangelizzatori siano stati direttamente gli apostoli Tommaso, Taddeo e Bartolomeo; ed è comunque un dato storico la presenza di comunità cristiane a Mosul fin dal II secolo. Questo spiega perché le sue chiese siano così antiche: il monastero di Mar Benham, dal quale ieri le milizie dello Stato islamico hanno cacciato via i monaci, è abitato dagli uomini di Dio fin dal IV secolo. La chiesa dell'Al Tahira - l'Immacolata in arabo, la più antica di Mosul - risale al VII secolo e a testimoniarlo anche visivamente è il fatto che si trova parecchi metri sotto il livello della strada. La chiesa siro ortodossa di San Tommaso, poi, anche questa risalente all'VIII secolo, si chiama così perché custodiva alcune reliquie dell'apostolo evangelizzatore. Anche questo segno però oggi è esule da Mosul: i cristiani hanno portate via al sicuro le reliquie in un altro monastero; erano troppo importanti perché cadessero nelle mani del più fanatico tra i gruppi di miliziani musulmani.
Viene allora da chiedersi: ma perché c'erano così tante chiese antiche a Mosul? La risposta sta nella storia del cristianesimo assiro, che nel primo millennio tra il Tigri e l'Eufrate conobbe una straordinaria vitalità. Al punto che furono loro i grandi evangelizzatori del primo millennio: da qui partirono missionari che molti secoli prima di Giovanni da Montecorvino e Matteo Ricci arrivarono addirittura fino in Cina, come testimonia la stele di Xi'ian. Ma anche in Persia, in Afghanistan, lungo le rotte della via della seta, fino ad arrivare addirittura all'Himalaya. La conquista araba, ma ancora di più la successiva invasione dei mongoli, hanno poi gravemente indebolito la storia del cristianesimo assiro. Ma queste comunità - pur tra mille sofferenze e anche parecchio dimenticate in Occidente - sono sempre sopravvissute. Anche in anni recenti non si erano dissolte nemmeno dopo la prova durissima del rapimento e dell'uccisione del vescovo caldeo di Mosul, Paulos Farahi Rahho, morto martire qui nel 2008. Si capisce allora come l'accostamento pronunciato domenica con amarezza dal patriarca caldeo Raphael Sako contenga un preciso riferimento storico: «Neanche i mongoli erano arrivati a tanto», ha dichiarato.
Accanto alla tragedia del cristianesimo dell'Oriente c'è infine anche un volto tutto latino che vale la pena di segnalare. Mosul è stato infatti un luogo storicamente molto importante pure per i domenicani. L'ordine dei predicatori era giunto in Mesopotamia già nel XIII secolo e aveva stabilito un suo convento anche a Mosul. Con la caduta del regno crociato ad Acri nel 1291 tutti i domenicani presenti qui subirono il martirio. Ma cinque secoli dopo Papa Benedetto XIV volle ricominciare quella storia; così nel 1750 inviò di nuovo i domenicani a Mosul. Una presenza che in 250 anni ha messo radici, al punto che sono nate anche due congregazioni femminili irachene che si rifanno al carisma domenicano e avevano la loro casa madre proprio nella grande città del nord dell'Iraq.
Su tutte queste storie lo Stato islamico ha impresso quella N dispregiativa di «nazareni», dipinta sui muri. Accendere oggi i riflettori su questo dramma è anche un modo concreto per far sì che questa testimonianza straordinaria di fede non vada perduta per sempre.