lunedì 10 novembre 2014

A cosa serve la riforma della Chiesa?


Dianich: ecco a cosa serve la riforma della Chiesa


Il teologo italiano: la «Nuova Evangelizzazione» come progetto di «ri-cristianizzare» la società ha coperto solo l’ulteriore venir meno della memoria cristiana. La fede si comunica da persona a persona, come accadeva agli inizi

GIANNI VALENTEROMA

Qualche giorno fa, durante l'udienza, il bestiario di Papa Bergoglio si è arricchito della nuova specie del «vescovo–pavone». Quello che «fa di tutto» per ottenere l'episcopato «e quando arriva là non serve, si pavoneggia, vive solo per la sua vanità». Anche per don Severino Dianich, sacerdote e teologo ottantenne e appassionato, la questione dei vescovi è diventata un banco di prova decisivo per il tempo che stiamo vivendo. Un tempo in cui, a suo giudizio, anche la riflessione sulla natura e il compito della Chiesa deve abbandonare i binari morti su cui è ferma da tempo. A cominciare dagli slogan ormai esausti della cosiddetta «Nuova Evangelizzazione» . 

I vescovi nel mondo oggi sono più di 5mila. Convocare un Concilio sarebbe impossibile anche sul piano meramente logistico. 
«Però i vescovi responsabili di una circoscrizione ecclesiastica sono meno di 2700. E i vescovi senza diocesi sono figure che in tutto il primo Millennio della Chiesa nessuno avrebbe ritenuto possibili. Finché non si correggono queste storture, prevale l’idea che la nomina episcopale sia come un’onorificenza professionale».
 
Cosa si può fare per smentire tale impressione?  
«Come prima cosa, si mettano dei limiti ai trasferimenti dei vescovi. Soprattutto a quella prassi per cui appare inconcepibile essere spostati da una sede grande a una sede più piccola. Questo è la negazione del servizio episcopale. Nel primo millennio il vescovo portava l'anello perché sposava la sua Chiesa».

E il meccanismo di selezione? Anche quello andrebbe rivisto?
«Anche nella Chiesa occidentale andrebbe recuperata la prassi per cui un vescovo è come “partorito” dal grembo delle Chiese locali, come avviene nelle Chiese d’Oriente, comprese quelle cattoliche. Non dico che sarebbe il toccasana. Ma certo si avrebbero vescovi più consoni a clima spirituale e culturale dei loro popoli. Si eviterebbero le figure dei vescovi paracadutati da fuori, che cercano di acquisire influenza ostentando i propri contatti con la Curia romana, come se fossero funzionari periferici di un impero».

La questione della riforma della Chiesa riprende quota. Ma di solito non si è chiari sui criteri che dovrebbero muoverla.
«Qualsiasi prospettiva nuova si vuole proporre, occorre chiedersi prima di tutto se essa è consona allo scopo per il quale la Chiesa esiste: comunicare a tutti l’esperienza della fede in Cristo. Occorre partire da lì».
 
Ci spieghi.
«Per 1500 anni, in tante aree del mondo la trasmissione della fede è avvenuta da genitori a figli, in famiglia. C'erano i missionari per le terre dove il Vangelo non era ancora arrivato. Ma la vita “normale” della Chiesa era pensata senza i missionari. Questo quadro mentale ha dato l'impronta a tutta la struttura ecclesiale, e anche alla legislazione canonica, fino a oggi. Ma adesso la vecchia società cristiana, quella in cui la evangelizzazione era l’ovvio della trasmissione di padre in figlio, non c’è più. Semplicemente non c’è più. Anche in Italia, che pure viene considerata una “roccaforte”, i battesimi di bambini sono già scesi sotto il 70 per cento. Solo tre o quattro famiglie su dieci nascono in forza del sacramento cristiano del matrimonio. È facile prevedere che sempre meno bambini riceveranno il battesimo». 

Ma proprio per questo, da decenni, si parla di “Nuova Evangelizzazione”. Hanno creato apposta anche un nuovo dicastero vaticano. 
«La Nuova Evangelizzazione, nonostante l’aggettivo, ha coinciso perlopiù con l’idea di poter tornare indietro. Una replica, sia pur aggiornata, di quello che fu la grande cultura della Restaurazione, dopo la Rivoluzione francese. Essa si è espressa soprattutto come idea di ri-cristianizzare le società. Le idee e i progetti della Nuova Evangelizzazione si sono declinati più nell’ambito del rapporto della Chiesa con la società, la cultura, le nazioni, che in quello delle persone. La priorità era ridare vigore all’influenza che la Chiesa può ancora esercitare sui contesti sociali e culturali, così che le persone potessero tornare ad assorbire la fede dal contesto che le circonda, come avveniva un tempo. Ma io credo che non ci sia la possibilità di tornare indietro. Quindi il problema dell’evangelizzazione si pone come problema nuovo. E implica anche strutture della Chiesa rinnovate. Perché tutte le istituzioni ecclesiastiche sono funzionali al vecchio sistema, e rischiano di diventare un ostacolo e non un aiuto all’evangelizzazione. 

Lei cosa suggerisce?
«Occorre guardare alla dinamica propria e originaria della comunicazione della fede. Quella che si è verificata all’inizio, quando i credenti comunicavano la propria esperienza di fede ai propri vicini e parenti non credenti nella convivenza concreta di ogni giorno. Ora, una certa forma prevalsa nel corpo ecclesiale risulta impreparata a riconoscere questa semplice dinamica, e a mettersi al suo servizio. Eppure proprio la comunicazione della fede da persona a persona, propria della Chiesa degli inizi, appare più consona alla condizione in cui viviamo».
 
Per quali ragioni?
«Nei profondi processi di secolarizzazione, la cultura prevalente ha anche tirato fuori in maniera prepotente l’individuo con sua libertà, fino a condurlo all’isolamento e al solipsismo. Il senso del “collettivo” è molto meno percepito. Così, sarebbe facile riscoprire che la strada più consona per trasmettere la fede di Gesù è il contatto diretto, da persona a persona. Che non può essere scavalcato. E mette anche in risalto che la dinamica propria della trasmissione della fede è sacramentale, e non pedagogica o propagandistica. La vita di grazia si trasmette attraverso i sacramenti. E i sacramenti non si celebrano a distanza, né per delega, ma solo nell’incontro, anzi nel contatto tra persone».
 
Nel suo saggio «La Chiesa verso la sua riforma», lei mostra che spesso il modo di esercitare il magistero non lascia intravedere la sorgente sacramentale della vita della Chiesa. 
«La rilevanza del magistero viene ancora misurata più dalle dichiarazioni solenni di principi che non quando richiama la dinamica sacramentale della Chiesa. Mi sono sempre chiesto come mai un'enciclica papale, spesso stesa dai collaboratori e firmata dal Papa a tavolino, dovesse essere considerata un atto papale più importante che non un'omelia pronunciata all'interno della liturgia eucaristica, lì dove la sorgente sacramentale della vita della Chiesa si mostra nella sua forma più alta. Papa Francesco, con le sue omelie quotidiane a Santa Marta e la loro divulgazione, sembra avere colto questo punto nevralgico. Il suo stile di governo esercita l'autorità nell'alveo della carità pastorale. E in questo modo, attraverso una scelta così semplice, si evidenzia anche la natura essenzialmente sacramentale del ministero ordinato».