martedì 19 aprile 2011

Meditazioni sulla Pasqua 4 (Cantalamessa) - La Pasqua eterna.

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sopra: Kiko Arguello,  La Discesa agli Inferi (*)


1. Una Pasqua in salita

La tradizione biblica e patristica ha interpretato l’idea pasquale di “passaggio” in vari modi: come “passaggio sopra” (hyperbasis), come “passaggio attraverso” (diabasis), come “passaggio verso l’alto” (anabasis), come “passaggio fuori” (exodus), come “passaggio in avanti” (progressio). La Pasqua è un passaggio “sopra”, quando indica Dio, o il suo angelo, che passa e “sorvola”, senza colpirle, le case degli ebrei in Egitto; è un passaggio “attraverso”, quando indica il popolo che passa dall’Egitto alla terra promessa e dalla schiavitù alla libertà; è un passaggio “verso l’alto”, quando l’uomo passa dalle cose di quaggiù alle cose di lassù; è un passaggio “fuori”, un esodo, quando l’uomo esce dalla schiavitù del peccato; è un passaggio “in avanti”, quando l’uomo progredisce nella santità e nel bene.

In questa ultima meditazione vogliamo riflettere sul passaggio verso l’alto. Origene dice che la Pasqua sempre si fa “salendo”; Gesù la celebrò “nella sala alta” e anche il cristiano deve “salire” per celebrare la Pasqua con lui. “Nessuno che celebri la Pasqua come Gesù vuole resta al piano inferiore” [1].

Richiamiamo ancora una volta alla mente il noto distico latino: “La storia dice ciò che è accaduto, l’allegoria cosa credere, la morale cosa fare, l’anagogia dove tendere”. La parola anagogia, alla lettera, vuol dire movimento o spinta verso l’alto, salita, ascesa. Nell’uso cristiano questa parola ha finito per raccogliere in sé tutto il vasto campo del “non ancora”, distinto dal “già” realizzato nella vita di Cristo e della Chiesa; in altre parole, la tensione escatologica della vita cristiana.

L’anagogia ha preso due direzioni diverse: o quella speculativa consistente in una riflessione teologica sulle realtà ultime (il trattato teologico sui Novissimi), o quella pratica che consiste nel tendere di fatto alle cose ultime, nell’essere costantemente “orientati verso i beni eterni”. Sant’Agostino ha illustrato bene la differenza tra le due cose. Quando si vuole attraversare un braccio di mare, diceva, la cosa più importante non è starsene sulla riva e scrutare l’orizzonte per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva[2].

È risaputo quanto la tensione escatologica sia presente nei discorsi di Cristo e nella primitiva comunità cristiana. L’Eucaristia stessa è celebrata “nell’attesa della sua venuta” (cf. 1 Cor 11, 26). Uno sguardo alla storia ci aiuterà a scoprire quando e come questa attesa entrò a far parte della celebrazione della Pasqua e ne determinò il clima e il contenuto.

2. Pasqua e attesa

San Girolamo parla di una tradizione apostolica, secondo cui Cristo sarebbe ritornato durante la notte di Pasqua; dice anzi che a suo tempo non era lecito, nella veglia pasquale, congedare le folle prima della mezzanotte, perché fino a quel momento era sempre possibile che si realizzasse il ritorno glorioso di Cristo [3]. La prima testimonianza di questa tradizione è di Lattanzio che scri ve: “Questa è la notte che noi celebriamo con una veglia a causa della venuta del nostro Re e Dio. La ra gione di questa notte e duplice: perché in essa egli ricevette la vita dopo la sua passione e perché in essa rice verà, un giorno, il regno del mondo “[4].

È esistita dunque nel cristianesimo antico una tradizione che legava, anche crono­logicamente, Pasqua e parusia. Ma già alla fine del II secolo il clima, a questo riguardo, è cambiato. Dalla “seconda venuta“, o dal ritorno di Cristo, l’attenzione si sposta alla prima venuta cioè all'incarnazione; dal futuro al passato. A provocare questo cambiamento è stata l’eresia del docetismo e il tentativo perseguito dallo gnosticismo di svuotare di significato gli eventi storici della vita terrena di Cristo, riducendo tutto ad apparenza.

In questo clima, gli autori cristiani del II sec. trovano par ticolarmente appropriata l'escatologia giovannea del “già realiz zato” che pone il punto decisivo della storia non già davanti, nel compimento della fine, ma nel passato, nell'evento fondamentale dell’incarnazione e della morte reden trice di Cristo. Con essa si è inaugurata già l'era della fine. Memoria e attesa continueranno a essere entrambe al cuore della Pasqua cristiana, ma l’accento è decisamente ormai sulla prima. La Pasqua, come l’Eucaristia, è essenzialmente “memoriale” della morte e risurrezione di Cristo. L’attesa dell’imminente ritorno di Cristo prende ormai la forma di un orientamento costante verso “le cose di lassù”. Nasce l’anagogia. “Dopo l’allegoria che edifica la fede, e la morale che edifica la carità, l’anagogia edifica la speranza”[5].

In questo senso, si può dire che la veglia pasquale cristiana è una “ liturgia “ della speranza.

Il suo oggetto - da quando è stata superata ogni suggestione millenarista - è essenzialmente ultramondano. Per Origene, si fa Pasqua quando “si espongono i misteri del secolo futuro e la speranza dell’anima, strappata alla terra, viene proiettata in cielo e ancorata a quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì e che mai salirono in cuore di uomo”[6] .

In questo nuovo clima, la speranza diventa l'anima della veglia pasquale. L'atto stesso del vegliare è inter pretato come simbolo dell'attesa della venuta del Signore che deve caratterizzare l'intera vita del cristiano. “In questa nostra veglia –scrive sant’Agostino - noi non aspettiamo il Signo re quasi che debba ancora risorgere, ma piuttosto rinnoviamo con solennità annuale il ricordo della sua risurrezione. In questa celebrazione, tuttavia, il passato è da noi richiamato alla memoria in modo tale che questo stesso nostro vegliare significhi an che qualcosa che con la fede noi facciamo nella vita. Tutto questo tempo, infatti, nel quale il secolo presente trascorre a guisa di notte, la Chie sa veglia con gli occhi della fede intenti alle Scrit ture come a fiaccole che brillano nell'oscurità, fino al giorno in cui il Signore verrà” [7].

Mai, come si vede, Agostino di stacca l’attesa di ciò che sarà dal ricordo di ciò che fu. Anche la gioia pasquale sgorga per lui congiuntamente da questi due movimenti dell'anima e sgorga pro rompente: “Quanta gioia, fratelli! Gioia nel trovarvi riuniti insieme; gioia nel cantare i Salmi e gli Inni; gioia nel ricordo della passione e della risurrezione di Cristo; gioia nella speranza della vita futura. Se tanta letizia dà la speranza, cosa sarà il possesso? In questi giorni, al sentire risuonare l'Alleluia, il nostro spirito è come trasfigurato. Non ci sembra di gustare un non so che di quella città superna?”[8]

Ogni Pasqua avvicina la Chiesa alla parusia del Si gnore, senza mai distaccarla dalla culla della redenzione in cui è nata. “Il giorno della Pasqua - scrive san Zeno di Verona - corre senza posa verso la vecchiaia e tuttavia non si scosta dalla culla dove è nato “. E ancora: “Esso è erede e padre di se coli“ `.” È il giorno che anticipa ciò che sarà “; il giorno che più invecchia con il passare degli anni, più appare giovane per l'approssimarsi al traguardo [9].

Sulla scia di sant’Agostino, la teologia pasquale arrivò a un equilibrio mai più superato tra ricordo, presenza e attesa nella celebrazione della veglia pasquale. “La Pasqua che noi celebriamo – scrive un autore che attinge da lui - rende presente il passato e si protende verso il futuro della risurrezione”[10]. La celebrazione liturgica della Pasqua ha mantenuta viva in seno alla Chiesa la tensione escatologica, anche dopo che da tre pida attesa della parusia si è trasformata in fiduciosa spe ranza della Pasqua eterna.

3. Cercare le cose di lassù

Dopo questo sguardo alla storia, ci poniamo il problema pratico: come vivere oggi questa dimensione verticale della Pasqua, consistente in una tensione verso la Gerusalemme celeste? Soggiacente all’idea di Pasqua è l’idea di “passaggio”, di transitus; questa parola evoca qualcosa di passeggero, di “transitorio”, dunque di negativo. Sant’Agostino ha percepito questa difficoltà e l’ha risolta in modo illuminante. Fare la Pasqua, ha spiegato, significa, sì, passare, ma “passare a ciò che non passa”; significa “passare dal mondo, per non passare con il mondo”[11].

Per cogliere le potenzialità contenute in questa definizione della Pasqua, occorre aver preso atto una volta, lucidamente, della transitorietà della vita. Un filosofo antico, Eraclito, ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: panta rei, cioè: tutto scorre. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma le immagini che vi passano sopra cambiano. Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo una generazione dopo l’altra. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi -di me, di te, di tutti noi- cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla. L’uomo non è che “un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella”.

Nel tentativo di non passare e di non morire del tutto, ci aggrappiamo chi alla giovinezza, chi all’amore, chi alla prole e chi alla fama. “Non morirò del tutto, esclamava il poeta Orazio, ho eretto (con le mie poesie) un monumento più duraturo del bronzo”. Sì, ma a che serve ormai a lui questo “monumento”? Serve a noi, ma non a lui. “L’uomo non è che un soffio, i suoi giorni come ombra che passa”, ripete la Bibbia e credo che almeno su questo punto tutti siamo pronti a darle ragione.

Al momento stesso della nascita inizia per ognuno un conteggio alla rovescia che non si arresta un solo istante, né di giorno né di notte. Nei nostri conventi avevamo una volta dei grandi orologi a pendolo su cui era scritto, come per ammonirci: Vulnerant omnes, ultima necat, “Tutte (s’intende, le ore) feriscono, l’ultima uccide”.

Di fronte a questa esperienza che tutto passa, si possono prendere diversi atteggiamenti. Uno, molto antico e ricordato nella stessa Bibbia, è quello di chi dice: “Mangiamo e beviamo, tanto domani moriremo” (Is 22,13). Parlando dei giorni che precedettero il diluvio, Gesù dice: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito... e non si accorsero di nulla, finché venne il diluvio e li inghiottì tutti” (cf. Mt 24,38).

Cosa ha da dirci la fede a proposito di questo dato di fatto che tutto passa? “Il mondo passa, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17). C’è dunque qualcuno che non passa, Dio, e c’è un modo per non passare del tutto neanche noi: fare la volontà di Dio, cioè credere, aderire a Dio. Una delle immagini più frequenti con cui la Bibbia ci parla di Dio è quella della roccia. “Egli è la Roccia, perfetta è l’opera sua” (Dt 32,4). Intuii cosa vuole dirci con ciò la Parola di Dio il giorno che, per la prima volta, vidi da vicino il Cervino.

In questa vita noi siamo come persone su una zattera trasportata dalla corrente di un fiume in piena verso il mare aperto, da cui non c’è ritorno. A un certo punto, la zattera si viene a trovare vicino alla riva. Il naufrago dice: “O ora o mai più!” e spicca il salto sulla terra ferma. Che respiro di sollievo quando sente la roccia sotto i suoi piedi! È la sensazione che ha spesso colui che arriva la fede. Ecco cosa vuol dire passare a colui che non passa, passare dal mondo, per non passare con il mondo.

4. Perché state a guardare il cielo?

In attesa di realizzare questo passaggio con il corpo nell’ultimo giorno, il cristiano deve realizzarlo con il cuore, ogni giorno. Ma questo passaggio del cuore a ciò che è eterno e non passa, non distoglie il cristiano dai compiti storici che ha in questo mondo? Sono note le accuse formulate nei confronti dei credenti a questo riguardo: “I cristiani – ha detto Hegel – sprecano in cielo i tesori destinati alla terra!”. “Essi – ha affermato C. Marx – proiettano in cielo i loro desideri inappagati sulla terra”.

Il racconto dell’Ascensione di Cristo al cielo ci offre lo spunto per rispondere a queste obbiezioni. È curioso ascoltare sulla bocca dei due “uomini in bianche vesti” che appaiono agli apostoli lo stesso rimprovero che, in toni meno amabili, è stato spesso rivolto ai cristiani, da parte dei non credenti: “Perché state a guardare il cielo?” (cf. At 1,11).

Precisiamo anzitutto cosa significa la parola cielo nel linguaggio cristiano e in che rapporto esso è con la vita presente sulla terra. Prendiamo le mosse dal famoso mito della caverna di Platone. Immagina – scrive il filosofo– questa scena. Degli uomini sono stati rinchiusi nel fondo di una grotta buia, con le spalle voltate all’ingresso. Sono legati in modo tale che non possono guardare che in avanti, alla parete di fondo. Alle loro spalle, dietro un muretto, c’è della gente che va e viene, recando vari oggetti in mano o sulla testa. Tra l’ingresso della grotta e questa gente con i vari oggetti, c’è un fuoco che proietta le loro ombre sulla parete di fondo, l’unica che i prigionieri possono vedere. Non avendo, da sempre, visto null’altro, le persone incatenate nella grotta pensano che quelle ombre siano l’unica realtà, che non esista altro. Tanto che se qualcuno riesce a liberarsi e a uscire all’aperto e torna poi indietro, tentando di dire ai prigionieri come stanno veramente le cose, essi lo metteranno a morte, pensando che per la troppa luce gli ha dato di volta al cervello. (Quello che fecero, di fatto, gli Ateniesi con Socrate!).

Questa, dice Platone, è la condizione di noi uomini nel mondo. Il mondo è tutto una caverna. Le cose che crediamo vere e reali, non sono che ombre di realtà che si trovano lassù, in cielo. Sono imitazioni di realtà celesti. Bisogna sciogliersi dal corpo che ci incatena alla materia e alle illusioni, “uscire dalla caverna”, per conoscere la vera realtà. Raffaello ha magistralmente sintetizzato il pensiero di Platone nel famoso quadro detto “La scuola di Atene”. In esso vediamo i due massimi filosofi antichi, Platone e Aristotele, rappresentati in atteggiamenti opposti. Aristotele, con la mano rivolta in giù, dice che la realtà è sulla terra e che la nostra conoscenza deve partire dalle cose che si vedono e si toccano; Platone con il dito rivolto in su ricorda che la realtà è in alto, in cielo.

Ci sono frasi della Scrittura che sembrano ricalcate sul modulo platonico di vedere le cose, illustrato dal mito della caverna. Quel personaggio del quadro di Raffaello con il dito puntato verso il cielo, potrebbe benissimo essere san Paolo quando dice: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3, 1-2).

Allora, la fede cristiana non sarebbe che una forma aggiornata di platonismo? Niente di nuovo sarebbe successo con la venuta di Cristo? No, c’è una differenza sostanziale; il cielo dei cristiani non è lo stesso di Platone. Quando parliamo di cielo, noi non intendiamo uno luogo che sta sopra di noi e neppure il mondo superiore delle idee, o iperuranio; intendiamo un evento che sta davanti a noi. Dopo aver detto agli apostoli: “perché state a guardare il cielo?”, i due angeli dicono loro in che direzione devono, invece, guardare, e cioè verso il ritorno del Signore: “Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. San Paolo dice la stessa cosa: “La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo” (Fil 3, 20).

Il cielo della fede cristiana è, in ultima analisi, una persona; è il Cristo risorto con cui andremo a ricongiungerci e a fare “corpo” dopo la nostra risurrezione e in modo provvisorio e imperfetto già subito dopo morte. “Andare in cielo”, o andare “in paradiso” significa andare a stare “con Cristo” (Fil 1,23). “Vado a prepararvi un posto, ha detto Gesù, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 2-3).

Questo fa una enorme differenza. Agli occhi di Platone, questo mondo perdeva ogni valore; era per lui una caverna, cioè una prigione. Fuggire, evadere dal mondo diventa, in questo caso, la parola d’ordine. Non c’è salvezza della carne e del mondo, ma solo dalla carne e dal mondo. Per i cristiani no. Il corpo non è un semplice “veicolo” o “contenitore” da lasciare quaggiù. Esso è destinato a partecipare, con l’anima, alla gloria. “Questa vita è così dolce”[12], noi vogliamo essere felici in questa nostra carne, non senza di essa, e la fede ci assicura che così sarà.

Di più: se questo mondo è di Dio, creato da lui e in attesa, anch’esso, della piena redenzione (cfr.Rom 8, 19), allora non solo non possiamo disinteressarci della sua sorte, ma dobbiamo contribuire alla sua conservazione e al suo miglioramento. Non è necessario fuggire dal mondo per essere con il Signore, perché il Signore è, lui stesso, in questo mondo: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Lungi dal distoglierci dal compito di migliorare le condizioni di vita in questo mondo, la fede nel ritorno di Cristo e in una vita futura diventa uno stimolo formidabile che non lascia nessuno tranquillo nella sua pigrizia. Il tempo ci è dato per “operare del bene a tutti”, diceva san Paolo (cfr.Gal 6, 10). Altro che “sprecare in cielo i tesori destinati alla terra”! Il cristiano è una persona che tende al cielo, ma tenendo i piedi per terra.

Qualcuno si domanda: ma che faremo “in cielo” con Cristo per tutta l’eternità, visto che è lì che siamo destinati ad andare? Non ci annoieremo? Rispondo: ci si annoia forse a stare bene e in ottima salute? Chiedete a degli innamorati se si annoiano a stare insieme. Quando ci capita di vivere un momento di intensissima e pura gioia non nasce forse in noi il desiderio che ciò duri per sempre, che non finisca mai? Quaggiù questi stati non durano per sempre, perché non c’è un oggetto che possa appagare indefinitamente. Con Dio è diverso. La nostra mente troverà in lui la Verità e la Bellezza che non finirà mai di contemplare e il nostro cuore il Bene di cui non si stancherà mai di godere.

Voglio terminare con una simpatica storia. In un monastero medievale vivevano due monaci legati tra loro da profonda amicizia. Uno si chiamava Rufus e l’altro Rufinus. In tutte le ore libere non facevano che cercare di immaginare e descrivere come sarebbe stata la vita eterna nella Gerusalemme celeste. Rufus che era un capomastro se l’immaginava come una città con porte d’oro, tempestata di pietre preziose; Rufinus che era organista, come tutta risonante di celesti melodie. Alla fine fecero un patto: quello di loro che sarebbe morto per primo sarebbe tornato la notte successiva, per assicurare l’amico che le cose stavano proprio come le avevano immaginate. Sarebbe bastata una parola: se era come avevano pensato avrebbe detto semplicemente: taliter!, cioè proprio così; se fosse stato diversamente (ma la cosa era impossibile) avrebbe detto: aliter, diverso!

Una sera, mentre era all’organo il cuore di Rufino si fermò. L’amico vegliò trepidante tutta la notte, ma niente; attese in veglie e digiuni per settimane e mesi e mai nulle. Finalmente, nell’anniversario della morte, ecco che, di notte, in un alone di luce entra nella sua cella l’amico. Vedendo che tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta affermativa: taliter? “È così, vero?” Ma l’amico scuote il capo in segno negativo. Disperato, grida allora: aliter? “È diverso?” Di nuovo un segno negativo del capo. E finalmente dalle labbra chiuse dell’amico escono, come in un soffio, due parole: Totaliter aliter: è tutt’un’altra cosa! Rufus capisce in un lampo che il cielo è infinitamente di più di quello che avevano immaginato, che non si può descrivere, e di lì a poco muore anche lui, per il desiderio di raggiungerlo[13]. Il fatto è una leggenda, ma il suo contenuto è quanto mai vero.

Un giorno, quando saliremo alla vera “sala alta” dove si celebra la Pasqua eterna, sono sicuro che verranno spontanee alle labbra anche a noi quelle due parole: Totaliter aliter! È tutt’un’altra cosa!

[1] Origene, Omelie su Geremia, 19,13 (GCS 2, pp. 239 s.)

[2] Cf. Agostino, La Trinità IV,15, 20; Confessioni, VII, 21.

[3] S. Girolamo, In Matthaeum, IV, 25, 6.

[4] Lattanzio, Divinae instit. VII, 19, 3.

[5] H. de Lubac, op. cit., I,2, p. 623.

[6] Origene, Omelie sui Numeri, 23, 6 (GCS, 7, p.218).

[7] S. Agostino, Sermo Wilmart, 4, 3 (PLS, II, 718).

[8] S. Agostino, Sermo Morin-Guelferbytanus, 8, 2 (PLS, II, 557).

[9] S. Zeno di Verona, De Pascha, Tract. I, 33. 58; 11, 13 (CC, 22, pp. 84. 133. 187) ; De Pascha, Tract. I, 16. 44 (CC, 22, pp. 63. 117) (“longaeva semper aetate novellus“).

[10] Pseudo Agostino, Sermo Caillau - Saint-Yves, I, App. 3 (PLS, II, 1020).

[11] S. Agostino, Trattati su Giovanni 55, 1 (CCL 36, pp. 463 s.).

[12] S. Agostino, Sermones 335B (Misc. Agostiniana, 1, p. 561).

[13] Cf. H. Franck, Taliter?, in Moderne Erzähler, Paderborn 1957, pp. 37 sas.



(*): Cristo è morto e discende agli inferi. Nel silenzio del Sabato Santo, sulla terra è il giorno del dolore, ma agli inferi è già Pasqua. Cristo vi discende come il sole che dissipa per sempre le tenebre della morte. L'icona significa ciò che canta il mattutino del Gran Sabato nella liturgia orientale: "Tu sei disceso sulla terra per salvare Adamo, ma non trovandolo sulla terra, o Signore, sei andato a cercarlo negli inferi". L'Amore si è donato gratuitamente e totalmente per andare in cerca della pecora perduta; è sceso sino alle profondità degli inferi per strappare gli uomini dalla schiavitù del peccato e della morte e per introdurre tutta l'umanità nella sala delle nozze, nel Paradiso. Cristo ha attraversato la morte, simboleggiata dal cerchio nero, ed ora, inserito nelle due sfere paradisiache, afferra Adamo e lo attira a se'. E' l'incontro tra il primo e il secondo Adamo: il Nuovo restituisce al primo l'immagine e la somiglianza con Dio "Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la Risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1 Cor 15,2 1-22). Di fronte ad Adamo si trova Eva, la madre di tutti i viventi, anch'essa tende le braccia verso il Salvatore. Le sue mani sono coperte perché toccarono il frutto proibito. Cristo Re ha una veste dorata, risplendente della gloria divina; Egli sovrasta gli abissi, sotto di lui cadono infrante le porte degli inferi. I due gruppi di figure rappresentano i profeti e i giusti che attendono il Salvatore. Alla sinistra si riconoscono: il re Davide, Salomone, e Daniele con il copricapo di foggia babilonese. Più vicino a Gesù, Giovanni Battista che ripete il suo gesto di testimone. Alla destra si trovano Mosè con le tavole della Legge, Abramo dal volto rugoso e Noè con le vesti screziate dei colori dell'arcobaleno; essi sono testimoni dell'Alleanza. Tutti riconoscono il Signore nel quale hanno sperato: in Lui si compiono la Legge e le promesse. "Strappa dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome: i giusti mi faranno corona quando mi concederai la tua grazia" (Sal 142,8). Cristo liberatore annuncia il vangelo ai prigionieri: ogni cristiano partecipa di questo zelo apostolico per il destino di tutti coloro che in questo mondo sono agli inferi, seduti nelle tenebre e nell'ombra della morte.