martedì 19 aprile 2011

Meditazioni sulla Pasqua 1 (Cantalamessa) - La dimensione storica




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A beneficio di tutti coloro che volessero riscoprire il senso autentico dell'unica festa cristiana, quella che celebreremo domenica prossima, ho pensato di pubblicare le meditazioni tenute dal padre Cantalamessa qualche anno fa alla Casa Pontificia. Buona lettura!


In questa prima meditazione riflettiamo sulla dimensione storica della Pasqua, cioè sugli eventi da cui essa trae origine. Se trattassimo della Pasqua in genere la "lettera" da prendere in esame sarebbero i racconti dell'Esodo che parlano dell'immolazione dell'agnello in Egitto; volendoci concentrare sulla Pasqua cristiana, la "lettera" sono i racconti della passione e risurrezione di Cristo.

1.Ma la lettera narra davvero l'accaduto?

A questo riguardo si pone una domanda molto attuale: la lettera riferisce davvero, in questo caso, "i fatti", come dice il distico antico, o da invece, di essi, una versione "tendenziosa", rispondente a fini apologetici? A questo riguardo si è diffusa ultimamente un’opinione che non può essere lasciata senza una risposta.

La tesi sposata da riviste a diffusione mondiale e divulgata da noi perfino da un telegiornale della sera, in breve, è la seguente. Attenersi strettamente ai racconti evangelici, nel rappresentare la Passione, significa ignorare i risultati della scienza esegetica moderna. Questa afferma che, nel riferire i fatti, Marco e, dietro di lui, gli altri evangelisti hanno attribuito la responsabilità della morte di Cristo agli ebrei per ingraziarsi il potere politico romano e tranquillizzarlo sul conto della nuova religione. In realtà, il motivo principale della condanna di Gesù fu di natura politica e non religiosa, e cioè la minaccia che egli costituiva per l'ordine costituito [1] .

Va anzitutto affermato che qualunque sia la spiegazione che si da delle circostanze esterne e delle motivazioni giuridiche della morte di Cristo, esse non intaccano minimamente il senso reale della sua morte che dipende da ciò che pensava lui, non da ciò che pensavano gli altri. E il senso che egli dava alla sua morte lo ha messo in chiaro in anticipo, al momento di istituire l'Eucaristia: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo dato per voi".

Detto questo, va però notata anche la serietà della posta in gioco in queste discussioni. La fede cristiana è una fede basata sulla storia; la compatibilità con la storia non le è meno necessaria che la compatibilità con la ragione. Non basta dire che i vangeli "non sono discesi dal cielo bell'e formati, ma che sono prodotti di mani e cuori umani", soggetti anch'essi a condizionamenti e pregiudizi. Questo lo ammette oggi ogni serio cultore di studi biblici. Il problema è sapere se sono racconti onesti o no; se il pregiudizio è inconscio, o è una tesi consapevolmente scelta e portata avanti per fini di comodo.

Essendomi occupato di questo problema al tempo in cui insegnavo Storia delle origini cristiane all'Università Cattolica di Milano [2] , mi sembra mio dovere portare un piccolo contributo di chiarimento a questa discussione. Quello che va contestato energicamente è che la ricerca storica moderna sia giunta, circa la condanna di Cristo, a conclusioni diverse da quelle che si ricavano dalla lettura dei Vangeli.

La tesi della motivazione essenzialmente politica della condanna di Cristo è nata, nel cinquantennio trascorso, da due preoccupazioni e ha avuto due Sitz-im-Leben. Il primo è stato l'epilogo tragico dell'antisemitismo con la Shoa, il secondo l'affermarsi negli anni 60' e 70' della cosiddetta teologia della rivoluzione. Se non si voleva che Che Guevara prendesse, nel cuore delle nuove generazioni, il posto di Cristo, non restava che fare di lui un suo discepolo. Ed è quello che si tentò ingenuamente di fare.

I due punti di vista, per vie diverse, arrivavano, nella sostanza, a una conclusione comune: Gesù fu un simpatizzante del movimento zelota che si prefiggeva di scuotere con la forza il giogo della dominazione romana e delle classi ricche locali che lo appoggiavano. Prove di ciò erano viste nel fatto che uno dei suoi discepoli si chiamava Simone lo "Zelota" (con lo stesso ragionamento si poteva difendere la tesi del Gesù collaboratore dei romani, avendo chiamato al suo seguito Matteo il Pubblicano!), che il soprannome di Giuda "Iscariota" poteva essere una deformazione di "Sicariota", il nome con cui era designata l'ala estrema del partito zelota e altri fatti, come la cacciata dei mercanti dal tempio, l'ingresso trionfale in Gerusalemme, la moltiplicazione dei pani con il tentativo di farlo re...

Nel giro di pochi anni la tesi del Gesù rivoluzionario è stata abbandonata come insostenibile. Essa finiva per attribuire a Gesù proprio l'idea di un Messia che si impone con la forza, contro la quale egli lottò tutta la vita. È rimasta invece in piedi l'altra istanza, quella suggerita dal desiderio di togliere ogni pretesto all'antisemitismo.

Questa è una preoccupazione giusta, ma si sa che il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all'antisemitismo va posta su un fondamento più sicuro che una ipotesi discutibile come questa. Il Concilio Vaticano II lo formula così: "Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo” [3] .

In questo c'è una certa convergenza con la stessa tradizione ebraica del passato. Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta [4] .

Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti neotestamentarie che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione delle autorità ebraiche alla condanna di Cristo, dall'altra la scusano, attribuendola a ignoranza (cf. Lc 23,34; Atti 3, 17; 1 Cor 2,8). Quanta parte di questa ignoranza fosse dovuta a obbiettiva difficoltà di riconoscere per vera la rivendicazione messianica di Cristo e quanta a motivi meno scusabili (Gv 5,44 mette tra di essi la ricerca di gloria umana), lo sa solo Dio che scruta i cuori, e su nessuno è dato a noi portare un giudizio definitivo, né su Giuda, né su Caifa, né su Pilato.

Una constatazione fondamentale è questa: nessuna formula di fede del Nuovo Testamento e della Chiesa dice che Gesù morì "a causa dei peccati degli ebrei"; tutte dicono che "morì a causa dei nostri peccati", cioè dei peccati di tutti.

L'estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: "Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio" (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale.

Se si ritenevano gli ebrei delle generazioni future responsabili della morte di Cristo, per lo stesso motivo si sarebbero dovuti ritenere responsabili e accusare di deicidio i romani delle generazioni future, compresi i papi di famiglie romane, in quanto è certo che, dal punto di vista giuridico, la condanna di Cristo e la sua esecuzione (la forma per crocifissione lo conferma) sono da imputarsi, in ultima analisi, all'autorità romana.

Forse, come credenti, bisogna spingersi oltre l'affermazione della non colpevolezza del popolo ebraico e vedere nella sofferenza ingiusta da esso subita nella storia qualcosa che li mette dalla parte del Servo sofferente di Dio e, dunque, per noi cristiani, dalla parte di Gesù. Edith Stein aveva compreso in questo senso il dramma che si stava preparando per lei e per il suo popolo nella Germania di Hitler: "Lì, sotto la croce, capii il destino del popolo di Dio. Pensai: coloro che sanno che questa è la croce di Cristo hanno il dovere di prenderla su di sé, in nome di tutti gli altri".

2. Possiamo credere ancora ai racconti della passione?

Messo al sicuro il rifiuto dell'antisemitismo, possiamo tornare a occuparci dell'attendibilità dei racconti della passione che è la sola cosa che in questa sede ci interessa. Vorrei fare presenti alcuni fatti che inducono a prendere con molta cautela la tesi secondo cui essi sono stati scritti con la preoccupazione di tranquillizzare le autorità dell'impero a proposito dei cristiani.

Questa tesi finisce per ascrivere gli scritti apostolici allo stesso genere letterario delle Apologie, indirizzate da autori cristiani del II secolo agli imperatori romani, per convincerli della bontà della loro religione. Si dimentica che essi sono testi nati per uso interno della comunità cristiana, senza pensare a lettori estranei ad essa, che di fatto non ci furono mai. (Il primo autore pagano che mostra di aver letto delle fonti cristiane è Celso nel II secolo e non certo per interessi politici).

Sappiamo che i racconti della passione, in unità più brevi e in forma orale, circolavano nelle comunità ben prima della stesura finale dei vangeli, compreso quello di Marco. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all'anno 50, da, della morte di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli (cf. 1 Ts 2,15) e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, all’inizio, approvato e difeso “accanitamente” la condanna del Nazareno.

Durante questa fase più antica il cristianesimo si considerava ancora destinato principalmente a Israele; le comunità nelle quali si erano formate le prime tradizioni erano costituite in maggioranza da giudei convertiti; Matteo è preoccupato di mostrare che Gesù è venuto a compiere, non ad abolire, la legge. Se c'era dunque una preoccupazione apologetica, questa avrebbe dovuto indurre a presentare la condanna di Gesù come opera piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche, al fine di rassicurare i giudei di Palestina e della diaspora.

Molti equivoci nascono dal fatto che noi proiettiamo all'inizio della Chiesa la situazione posteriore che vede contrapposti tra loro ebrei e cristiani, mentre, fino all'affermarsi di comunità a maggioranza gentili, la contrapposizione era un'altra, e cioè: ebrei credenti (in Cristo) ed ebrei non credenti. La distinzione passava all'interno della comune identità ebraica. I discepoli di Gesù potevano dire con Paolo: “Sono ebrei? Anch’io!”. Questo da alla polemica antigiudaica degli autori del Nuovo Testamento un senso tutto diverso da quello del cristianesimo posteriore, come sono diverse le invettive contro il popolo d'Israele di Mosè e dei profeti da quelle di certi Padri della Chiesa o di Lutero.

D'altra parte, quando Marco e gli altri evangelisti scrivono il loro vangelo c'è stata già la persecuzione di Nerone; ciò avrebbe dovuto spingere a vedere in Gesù la prima vittima del potere romano e nei martiri cristiani coloro che avevano subito la stessa sorte del Maestro. Se ne ha una conferma nell'Apocalisse, scritta dopo la persecuzione di Domiziano, dove Roma è fatta oggetto di una invettiva feroce ("Babilonia", la "Bestia", la "prostituta") a causa del sangue dei martiri (cf. Ap. 13 ss.).

Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. Il vangelo attesta, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sull'atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull'impuro. Jeremias ha dimostrato la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole di Gesù [5] . Non si può eliminare questo retroterra senza disintegrare completamente i vangeli e renderli incomprensibili. Ma una volta dimostrato questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore?

Uno degli argomenti più spesso addotti contro la veridicità dei racconti evangelici è l'immagine che essi ci danno di un Pilato sensibile a ragioni di giustizia, che si preoccupa della sorte di un ignoto giudeo, mentre si sa che era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta.

Qui c'è però un equivoco. Pilato non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Se i primi cristiani si sono sbagliati in qualcosa è stato nell'attribuire l'agire di Pilato a sentimenti di giustizia e di pietà verso Gesù (per Tertulliano egli era segretamente cristiano e la Chiesa Copta lo ha canonizzato insieme con sua moglie!). Quello che lo animava era in realtà solo la volontà di non dare soddisfazione agli odiati capi giudei. A leggere con un minimo di psicologia il dialogo tra lui e gli accusatori di Gesù, ci si accorge che questa motivazione reale non è sfuggita agli evangelisti.

In conclusione si deve dire che la discussione sui motivi della condanna di Cristo negli anni del dopoguerra ha prodotto una valanga di ipotesi critiche, spesso in contrasto tra di loro, ma non ha ottenuto il consenso della maggioranza degli storici su nessun punto di rilievo. Ogni volta si è visto che per una difficoltà che si voleva rimuovere, ne spuntavano a grappoli di nuove. Qualcuno, per esempio, ha tentato di eliminare come non storico il processo davanti al Sinedrio, ma ci si è accorti subito che così non si spiegava più l'episodio sicuramente storico del rinnegamento di Pietro, inestricabilmente legato al momento e al luogo di tale processo.

I racconti evangelici presentano senza dubbio numerose discrepanze di dettaglio e punti oscuri, ma a ben considerare questo conferma la loro "ingenuità" di racconti, nati dalla vita e dai ricordi di persone diverse, non per dimostrare una tesi. Indice di onestà di tali racconti è anche la figura meschina che vi fanno i loro stessi autori e testimoni: uno di essi, il capo, rinnega, uno tradisce e tutti al momento dell’arresto fuggono ignominiosamente. Non aveva tutti i torti il biblista Lucien Cerfaux quando diceva: "Il modo più semplice di leggere il Vangelo è spesso anche il più scientifico" [6] .

Questo lascia aperto il discorso sull'uso che si fa del materiale evangelico. Che in passato esso sia stato usato in maniera impropria, con forzature antigiudaiche, è cosa da tutti oggi riconosciuta e dalla Chiesa fermamente riprovata in appositi documenti. Alla luce delle osservazioni fatte, si può dire una cosa: una rappresentazione della Passione è da riprovare se induce a credere che tutti gli ebrei del tempo e quelli venuti dopo siano responsabili della morte di Cristo; non si può accusare di aver tradito la verità storica se si limita a mostrare che un gruppo influente di essi vi ebbe una parte determinante.

3. Gesù taceva

Se c'è ancora disparità di opinioni sul ruolo e la condotta dei vari personaggi e poteri coinvolti nella passione di Cristo, per fortuna c'è unanimità su di lui e sulla sua condotta: s ovrumana dignità, calma, libertà assoluta. Non un solo gesto o una parola che smentisca quello che egli aveva predicato nel suo vangelo, specialmente nelle Beatitudini.

E tuttavia nulla in lui che somigli all'orgoglioso disprezzo del dolore dello stoico. La sua reazione alla sofferenza e alla crudeltà è umanissima: trema e suda sangue nel Getsemani, vorrebbe che il calice passasse da lui, cerca sostegno nei suoi discepoli, grida la sua desolazione sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

Un film di qualche anno fa - L'ultima tentazione di Gesù- lo mostrava sulla croce alle prese con tentazioni della carne. È stata notata giustamente l'assurdità psicologica di una tale rappresentazione. Se Gesù poteva essere tentato mentre pendeva dalla croce - la carne a brandelli e i nemici che lo insultavano -, questo non era certo dai richiami della carne, ma semmai dallo sdegno per la violenza subita, dall'ira e da sentimenti di vendetta.

Il Salterio gli offriva parole di fuoco per farlo: "Sorgi, Signore, distruggili, abbattili...", ma egli non cita nessuno di questi salmi di imprecazione. Rifiuta di chiedere al Padre “dodici legioni di angeli”, pur sapendo che il Padre gliele avrebbe subito date (cf. Mt 26, 53). "Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta", dice di lui la Prima lettera di Pietro (2, 23).

Si potrebbe passare la vita a immergersi in questa perfezione della santità di Cristo e non si toccherebbe mai il fondo. Siamo davanti all'infinito nell'ordine etico. Non c'è memoria di morti simili a questa nella storia del mondo. È sulla santità del protagonista che bisognerebbe soffermarsi nel meditare la Passione, più che sulla cattiveria e la viltà di chi gli sta intorno. Nella Novo millennio ineunte il Santo Padre ci ha esortato a contemplare “il volto dolente del Redentore”. Quel volto, da solo, è un libro, è tutta la Bibbia in una pagina.

Vorrei evidenziare un tratto di questa sovrumana grandezza di Cristo nella Passione: il suo silenzio. "Jesus autem tacebat" (Mt 26, 63). Tace davanti a Caifa, tace davanti a Pilato che si irrita del suo silenzio, tace davanti ad Erode che sperava vederlo fare un miracolo (cf. Lc 23, 8).

Gesù non tace per partito preso o per protesta. Non lascia senza risposta nessuna domanda precisa che gli viene rivolta quando è in gioco la verità, ma anche in questo caso sono parole brevi, essenziali, pronunciate senza ira. Il silenzio è in lui tutto e solo amore.

Il silenzio di Gesù nella Passione è la chiave per capire il silenzio di Dio. Quando la "rissa delle lingue" diventa troppo grande, l'unico modo di dire qualcosa è di tacere. Il silenzio di Gesù infatti inquieta, irrita, mette in luce non non-verità delle proprie parole, come quando taceva davanti agli accusatori dell'adultera.

"Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere" 9: questo slogan famoso del positivismo linguistico che (contro l'intenzione dello stesso autore) è servito per escludere la possibilità di ogni affermazione su Dio e della stessa teologia, può avere un senso vero e profondo e lo ha nel caso di Gesù. "Ho tante cose che ti voglio dire, o una sola ma grande come il mare", canta, vicina alla morte, l'eroina di un'opera lirica. Queste parole potrebbero essere poste in bocca a Gesù. Egli aveva una cosa sola da dire, ma così grande che gli uomini non erano pronti ad accoglierla. Aveva cercato di dirla pronunciando, davanti a Pilato, la parola "Verità!", ma sappiamo con che risultato.

Questa prima meditazione, sulla dimensione storica, la “lettera”, della Pasqua, non è il luogo per le applicazioni morali che verranno in seguito. Ognuno deve semmai riflettere per conto proprio su che cosa questo tratto di Cristo nella sua Passione dice a lui o alla Chiesa. Quello invece che è in linea con le considerazioni storiche che abbiamo svolte è aprire il nostro spirito a una sconfinata ammirazione, entusiasmo e ringraziamento a Cristo. Commuoverci davanti alla grandezza del suo amore e alla maestà della sua sofferenza, dicendo dal profondo del cuore: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”: Ti adoriamo e ti benediciamo, o Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.


[1] Cf. John Meacham, Who killed Jesus?, in "Newsweek, February 16, 2004, pp. 49-57.

[2] Cf. i risultati della ricerca su "I primi cristiani, la politica e lo stato" nel fascicolo di "Vita e Pensiero" (anno 54, n.6, Novembre-Dicembre 1972), in particolare: Gesù e la rivoluzione, pp. 5-18 e Dieci anni di studi sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, pp. 108-136.

[3] Nostra aetate, 4.

[4] Cf. J. Blinzler, Il Processo di Gesù, Brescia 1966, pp.32 ss.

[5] Cf. J. Jeremias, Die Gleichnisse Jesu, Gottinga 1962.

[6] L. Cerfaux, Jésus aux origines de la tradition, Lovanio 1968, trad. italiana, Roma 1970, p. 15.