venerdì 18 luglio 2014

Il chiodo fisso




Nel cinquantesimo anniversario della «Ecclesiam suam» di Paolo VI. 
Il 6 agosto 1964, Paolo VI promulgava la sua prima enciclica, la Ecclesiam suam, nella quale esprimeva tutto il suo amore per la Chiesa, il suo «chiodo fisso», come scrive monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, nel volume «Paolo VI. La Chiesa il mio chiodo fisso» (edizioni Viverein, pagine 176, euro 18,00), pubblicato proprio nel cinquantesimo anniversario dell’enciclica. Oltre a un’antologia degli interventi di Papa Montini sul tema, il libro presenta un commento all’enciclica pubblicato sull’Osservatore Romano del 13 settembre 1964, di cui pubblichiamo ampi stralci.
Per conoscere meglio un grande Pontefice

(Daniel Rops) È ancora fresco di stampa Andreotti e Paolo VI — il volume numero 13 della collana su Papa Montini, curata da monsignor Sapienza, per le edizioni Viverein — e già si annunciano Paolo VI: una vita trasfigurata, in uscita la settimana prossima, e Il genio della carità, pronto per essere pubblicato. 
Il senso dell’impegno profuso nel raccogliere e nel riproporre gli insegnamenti di questo «grande innamorato della Chiesa» è sottolineato dal curatore stesso di questa preziosa raccolta nella presentazione del volume sul rapporto tra Montini e Andreotti, quando scrive che «Paolo VI non fu pienamente compreso. Ma fu un grande Papa, e il suo un luminoso pontificato». E monsignor Sapienza intende renderlo noto a tutti riproponendolo passo dopo passo, parola dopo parola.
 ufficiale sia qualificato «pagina di storia» appena vede la luce. Meno accade che la storia confermi poi nelle sue pagine i testi nati dalle circostanze presto resi caduchi dalla fine della congiuntura che li suscitò. Il documento, sotto tutti gli aspetti capitale che Sua Santità Paolo VI ha dato alla Chiesa nella festa dell’Assunzione, è uno di quelli che meritano questo titolo di documento che supera l’effimero. Sin da ora è già scritto nella storia del Cristianesimo dell’attuale secolo: vi occupa un posto che gli storici dell’avvenire dovranno riconoscergli.
Pagina di storia è Ecclesiam suam in due modi. Prima come una testimonianza, come la presa di coscienza pubblica, dall’uomo investito della più alta responsabilità, delle esigenze della sua missione e dei problemi che a lui si pongono. Parlando su un tono di cui il ritegno, si direbbe, quasi la modestia, commuovono, il Papa dà l’impressione d’interrogarsi, di meditare dinanzi al lettore, di far partecipare ciascuno alla «démarche» stessa che lo conduce a formulare gli insegnamenti che poi dispiega. Vi è in ciò qualche cosa di commovente nel vedere Colui che, solo sul fastigio del mondo, beneficando della certezza di essere illuminato dallo Spirito, può mettere l’intera umanità nella confidenza di ciò che pensa, di ciò che giudica, di ciò che spera. Se poi possedessimo, di tutti i grandi Papi che diressero la Chiesa nelle svolte del suo destino, dei documenti analoghi che ci permettessero di confrontare i risultati con le intenzioni, non diremmo forse che si tratta di pagine di storia?
Sua Santità Paolo VI ci parla nel momento stesso in cui nella terza sua Sessione il Concilio Vaticano II dovrà assumere gravi opzioni sull’avvenire, con altrettanto rispetto del pensiero dei Padri che di onestà nell’esporre il proprio pensiero. Se ciò non costituisce una pagina di storia, a quale altro documento si dovrebbe riservare quel titolo?
Ma, Ecclesiam suam è pagina di storia in un altro senso, più profondo. Non si è forse sottolineato abbastanza che nell’allocuzione pronunziata dal balcone del palazzo pontificale, per annunziare ai fedeli radunati nella piazza San Pietro la pubblicazione della sua lettera, Sua Santità Paolo VI disse: «La Nostra Enciclica tratta della Chiesa sotto l’aspetto storico». E a più riprese, nel corso della seconda parte, tornò su quella idea e sulle sue armonie. Uno storico del cristianesimo ha bene il diritto, senza dubbio, di mettere in evidenza la sua gioia quando si accorge che il Dottore Supremo adotta un punto di vista che conferma quello dal quale egli considera la Chiesa dal suo modesto posto. Certamente esiste — e il Papa lo ricorda riferendosi alla dottrina — una teologia della Chiesa che è immutabile nei suoi principi; ma resta evidente che la Chiesa, in quanto istituzione umana, è impegnata nella storia, essa necessariamente segue il flusso dei secoli, ed è vano di considerarla facendo astrazione delle contingenze che il tempo le impose.
Sua Santità Paolo VI proclama la necessità di questa presa di coscienza storica. Quando dice, per esempio: «La Chiesa ha bisogno di riflettere su se stessa: ha bisogno di sentirsi vivere», non vuole significare altro. Lunghi paragrafi del magistrale documento sono per l’appunto consacrati a mostrare che la Chiesa deve situarsi lucidamente, coraggiosamente in un’epoca di sconvolgimenti planetari, dove, secondo le parole d’un noto inno rivoluzionario «le monde va changer de base», la tradizionale scala dei valori sembra messa in questione. È ad uno sforzo per comprendere il mondo così come esso va, che il Padre Comune chiama i suoi figli: è ad un giudizio storico che egli li invita.
È stato talvolta sottolineato che la Chiesa del Cristo, ben prima che Hegel facesse della celebre sequenza della tesi, dell’antitesi e della sintesi, il fondamento d’ogni moto del pensiero, ha obbedito sempre ad una legge dialettica. Questo attiene alle due nature che si uniscono in essa. Essa è una società soprannaturale, che non ha altro scopo che di condurre i propri membri alla Salvezza; ma è anche una comunità umana, che non può ignorare i bisogni terreni, e non i soprannaturali soli, di quelli che la compongono, le contingenze materiali dei mortali che sono i suoi figli. È perciò che incessantemente è portata a compiere un costante sforzo per conservare intatto il sacro deposito di cui è depositaria, per ben cogliere le condizioni nelle quali vivono, in un dato tempo e luogo, gli uomini, al fine di seguire il cammino storico del mondo senza lasciarsi trasformare in un fossile o in un custode di museo.
Tale è il senso profondo enucleato anche dal Padre Congar, di quella parola così spesso mal compresa, «la Tradizione».
Ecclesiam suam mostra perfettamente articolata quella legge dialettica. Da un capitolo all’altro, e sino nelle precise referenze ai canoni del Concilio di Trento agli insegnamenti dei suoi Predecessori, vi si sente Sua Santità Paolo VI eminentemente preoccupato di appoggiarsi incessantemente su quella Parola che non potrà passare. Ma nello stesso tempo, lo si vede manifestare un acuto senso delle esigenze che l’epoca impone alla Chiesa, col ripetere ai suoi figli che non si tratta di servire un cristianesimo disincarnato, che non sarebbe che una mummia, ma la Chiesa di oggi, così com’essa è costituita dagli uomini di carne e di sangue, dei quali deve conoscere le angosce come le aspirazioni, per aiutarli a soddisfare le une e a sormontare le altre. Altrettanto che le grandi Encicliche del Predecessore immediato, questa di Sua Santità Paolo VI si attiene, secondo una parola che usano volentieri i marxisti ma che i cristiani hanno più titoli storici per farla propria, ad una praxis, a una «dottrina per l’azione».
Ecclesiam suam segna una direzione, indica formalmente un cammino. Quella direzione, quel cammino li conosciamo: sono stati proposti meno d’un secolo fa da un grandissimo Papa alla cui memoria — si vede con giubilo essere reso omaggio dall’attuale Vicario del Cristo —, Leone XIII. Dalla fine del XVI secolo, la Chiesa s’era trovata messa dinanzi ad una realtà che le appariva inquietante e che a dire il vero non sapeva come affrontare: il mondo moderno, con i fondamenti razionalistici e la dinamica del progresso.
Durante quasi tre secoli essa si attenne nei confronti del mondo in atteggiamento da molti considerato come fatto solo di diffidenza e di ostilità. Il grande richiamo di Pio IX, il Sillabus, così spesso mal compreso, sembrò una dichiarazione di guerra all’intero mondo moderno, mentre di fatto poneva solamente alcuni limiti che lo spirito cristiano non avrebbe dovuto oltrepassare. Il genio di Leone XIII, la sua «sapienza» di cui parla il suo Successore di oggi, fu di mostrare agli uomini, e in particolare ai cattolici, che bisognava discernere nel mondo moderno le realtà dovute ad un progresso legittimo e le altre che derivavano da tesi inaccettabili. E, una volta compiuta tale distinzione, di dire ad essi che il Cristianesimo era anche decisamente favorevole alle prime quanto ostile alle seconde.
In quel momento, la Chiesa prese chiaramente, formalmente una orientazione che noi stiamo esperimentando.
Si ricordano tuttora le mirabili dichiarazioni che, quand’era ancora Cardinale Arcivescovo di Milano, il futuro Paolo VI fece a parecchie riprese sul tema: «Bisogna amare il nostro tempo...». È quell’amore, fondato su una lucida conoscenza che bagna visibilmente tutta l’Enciclica. La Chiesa del Cristo è chiamata ad agire hic et nunc, in un tempo, in date condizioni. La prima condizione per essere efficace è di mostrarsi aperta e irradiante. E anche di scartare da sé le scorie degli anni, le false apparenze, la «routine», che fanno schermo tra essa e gli uomini che la considerano: donde quell’immagine di una Chiesa povera, umile, infinitamente caritatevole, che Sua Santità Paolo VI propone in termini così commoventi.
Poi questa messa a punto sull’«aggiornamento» e l’andare nel rispetto della verità incontro agli uomini con le mani tese, il cuore fraterno, senza farsi certamente illusioni sulle possibilità di stabilire immediatamente tutti i contatti, ma rimanendo sempre pronto a tutti i dialoghi.
L'Osservatore Romano