Incontro con i Vescovi degli U.S.A. nella Cattedrale di S. Matteo Apostolo a Washington. Discorso del Santo Padre
Sala stampa della Santa Sede
Alle ore 11.30 di questa mattina, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Vescovi degli Stati Uniti nella Cattedrale di S. Matteo Apostolo a Washington. L’incontro si è svolto sotto forma di Preghiera dell’Ora Media. Dopo gli indirizzi di saluto dell’Arcivescovo di Washington, Card. Donald W. Wuerl, e del Presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti (USCCB) S.E. Mons. Joseph Edward Kurtz, Arcivescovo di Louisville, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Carissimi fratelli nell’Episcopato, (prima di tutto vorrei inviare un saluto alla comunità ebrea che oggi celebra la festa dello Yom Kippur. Il Signore li benedica e li faccia procedere sulla via della santità, secondo la parola che oggi abbiamo udito: "Siate santi perchè io sono santo")
sono lieto di incontrarvi in questo momento della missione apostolica che mi ha condotto nel vostro Paese. Ringrazio vivamente il Cardinale Wuerl e l’Arcivescovo Kurtz per le gentili parole che mi hanno rivolto anche a nome di tutti voi. Ricevete per favore la mia gratitudine per l’accoglienza e per la generosa disponibilità con la quale il mio soggiorno è stato programmato e organizzato.
Nell’abbracciare con lo sguardo e con il cuore i vostri volti di Pastori, vorrei abbracciare anche le Chiese che amorosamente portate sulle spalle; e vi prego di assicurare che la mia vicinanza umana e spirituale raggiunge, per mezzo di voi, l’intero Popolo di Dio disseminato su questa vasta terra.
Il cuore del Papa si dilata per includere tutti. Allargare il cuore per testimoniare che Dio è grande nel suo amore è la sostanza della missione del Successore di Pietro, Vicario di Colui che sulla croce ha abbracciato l’intera umanità. Che nessun membro del Corpo di Cristo e della nazione americana si senta escluso dall’abbraccio del Papa. Ovunque affiori sulle labbra il nome di Gesù, lì risuoni pure la voce del Papa per assicurare: “E’ il Salvatore!”. Dalle vostre grandi metropoli della costa orientale alle pianure del midwest, dal profondo sud allo sconfinato ovest, dovunque la vostra gente si raccoglie nell’assemblea eucaristica, il Papa non sia un mero nome abitudinariamente pronunciato, ma una tangibile compagnia volta a sostenere la voce che si eleva dal cuore della Sposa: “Vieni Signore!”.
Quando una mano si tende per compiere il bene o portare al fratello la carità di Cristo, per asciugare una lacrima o fare compagnia ad una solitudine, per indicare la strada ad uno smarrito o risollevare un cuore ormai infranto, per chinarsi su uno che è caduto o insegnare a chi è assetato di verità, per offrire il perdono o guidare ad un nuovo inizio in Dio... sappiate che il Papa vi accompagna e vi sostiene, poggia anch’Egli sulla vostra la sua mano ormai vecchia e rugosa ma, per grazia di Dio, ancora capace di sostenere e di incoraggiare.
La mia prima parola è di rendimento di grazie a Dio per il dinamismo del Vangelo che ha consentito la notevole crescita della Chiesa di Cristo in queste terre, e ha permesso il generoso contributo che essa ha offerto e continua ad offrire alla società statunitense e al mondo. Apprezzo vivamente e ringrazio commosso per la vostra generosità e solidarietà verso la Sede Apostolica e verso l’evangelizzazione in tante sofferte parti del mondo. Sono lieto per l’indomito impegno della vostra Chiesa per la causa della vita e della famiglia, motivo preminente di questa mia visita. Seguo con attenzione lo sforzo ingente di accoglienza e di integrazione degli immigrati che continuano a guardare all’America con lo sguardo dei pellegrini che qui approdarono alla ricerca delle sue promettenti risorse di libertà e prosperità. Ammiro il lavoro con cui portate avanti la missione educativa nelle vostre scuole a tutti i livelli e l’opera caritativa nelle vostre numerose istituzioni. Sono attività condotte spesso senza che si comprenda il loro valore e senza appoggio e, in ogni caso, eroicamente mantenute con l’obolo dei poveri, perché tali iniziative scaturiscono da un mandato soprannaturale al quale non è lecito disobbedire. Sono consapevole del coraggio con cui avete affrontato momenti oscuri del vostro percorso ecclesiale senza temere autocritiche né risparmiare umiliazioni e sacrifici, senza cedere alla paura di spogliarsi di quanto è secondario pur di riacquistare l’autorevolezza e la fiducia richiesta ai Ministri di Cristo, come desidera l’anima del vostro popolo. So quanto ha pesato in voi la ferita degli ultimi anni, e ho accompagnato il vostro generoso impegno per guarire le vittime, consapevole che nel guarire siamo pur sempre guariti, e per continuare a operare affinché tali crimini non si ripetano mai più.
Vi parlo come Vescovo di Roma, già nella vecchiaia chiamato da Dio da una terra anch’essa americana, per custodire l’unità della Chiesa Universale e per incoraggiare nella carità il percorso di tutte le Chiese particolari, perché progrediscano nella conoscenza, nella fede e nell’amore di Cristo. Leggendo i vostri nomi e cognomi, osservando i vostri volti, conoscendo la misura alta della vostra consapevolezza ecclesiale e sapendo della devozione che avete sempre riservato al Successore di Pietro, devo dirvi che non mi sento tra voi un forestiero. Provengo, infatti, da una terra anch’essa vasta, sconfinata e non di rado informe che, come la vostra, ha ricevuto la fede dal bagaglio dei missionari. Ben conosco la sfida di seminare il Vangelo nel cuore di uomini provenienti da mondi diversi, spesso induriti dall’aspro cammino percorso prima di approdare. Non mi è estranea la storia della fatica di impiantare la Chiesa tra pianure, montagne, città e suburbi di un territorio spesso inospitale, dove le frontiere sono sempre provvisorie, le risposte ovvie non durano e la chiave d’ingresso richiede di saper coniugare lo sforzo epico dei pionieri esploratori con la prosaica saggezza e resistenza dei sedentari che presidiano lo spazio raggiunto. Come ha cantato un vostro poeta: “ali forti ed instancabili”, ma anche la saggezza di chi “conosce le montagne”1.
Non vi parlo da solo. La mia voce si pone in continuità con quanto i miei Predecessori vi hanno donato. Infatti, sin dagli albori della “nazione americana”, quando all’indomani della rivoluzione venne eretta la prima diocesi a Baltimora, la Chiesa di Roma vi è sempre stata vicina e non vi è mai mancata la sua costante assistenza ed il suo incoraggiamento. Negli ultimi decenni, tre dei miei venerati Predecessori vi hanno fatto visita, consegnandovi un notevole patrimonio d’insegnamento tuttora attuale, di cui avete fatto tesoro per orientare i lungimiranti programmi pastorali con cui guidare quest’amata Chiesa.
Non è mia intenzione tracciare un programma o delineare una strategia. Non sono venuto per giudicarvi o per impartirvi lezioni. Confido pienamente nella voce di Colui che “insegna ogni cosa” (cfr Gv 14,26). Consentitemi soltanto, con la libertà dell’amore, di poter parlare come un fratello tra fratelli. Non mi sta a cuore dirvi cosa fare, perché sappiamo tutti quanto ci chiede il Signore. Preferisco piuttosto ritornare ancora su quella fatica - antica e sempre nuova - di domandarsi circa le strade da percorrere, sui sentimenti da conservare mentre si opera, sullo spirito con cui agire. Senza la pretesa di essere esaustivo, condivido con voi alcune riflessioni che ritengo opportune per la nostra missione.
Siamo Vescovi della Chiesa, Pastori costituiti da Dio per pascere il suo gregge. La nostra gioia più grande è essere Pastori, nient’altro che Pastori, dal cuore indiviso ed una irreversibile consegna di sé. Bisogna custodire questa gioia senza lasciare che ce la rubino. Il maligno ruggisce come leone cercando di divorarla, rovinando così quanto siamo chiamati ad essere non per noi stessi, ma per dono e al servizio del “Pastore delle nostre anime” (1 Pt 2,25).
L’essenza della nostra identità va cercata nell’assiduo pregare, nel predicare (cfr At 6,4) e nel pascere (cfr Gv 21,15-17; At 20,28-31).
Non una preghiera qualsiasi, ma l’unione famigliare con Cristo, dove incrociare quotidianamente il suo sguardo per sentire rivolta a noi la sua domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mc 3,32). E potergli serenamente rispondere: “Signore, ecco tua madre, ecco i tuoi fratelli! Te li consegno, sono quelli che Tu mi hai affidato”. Di una tale confidenza con Cristo si nutre la vita del Pastore.
Non una predicazione di complesse dottrine, ma l’annuncio gioioso di Cristo, morto e risorto per noi. Lo stile della nostra missione susciti in quanti ci ascoltano l’esperienza del “per noi” di quest’annuncio: la Parola doni senso e pienezza ad ogni frammento della loro vita, i Sacramenti li nutrano di quel cibo che non possono procurarsi, la vicinanza del Pastore risvegli in loro la nostalgia dell’abbraccio del Padre. Vegliate perché il gregge incontri sempre nel cuore del Pastore quella riserva di eternità che con affanno si cerca invano nelle cose del mondo. Trovino sempre sulle vostre labbra l’apprezzamento per la capacità di fare e costruire nella libertà e nella giustizia la prosperità di cui è prodiga questa terra. Non manchi però il sereno coraggio di confessare che bisogna procurarsi «non il cibo che perisce ma quello che dura per la vita eterna” (Gv 6,27).
Non pascere sé stessi ma saper arretrare, abbassarsi, decentrarsi, per nutrire di Cristo la famiglia di Dio. Vegliare senza sosta, ergendosi alti per raggiungere con lo sguardo di Dio il gregge che solo a Lui appartiene. Elevarsi all’altezza della Croce del suo Figlio, il solo punto di vista che apre al Pastore il cuore del suo gregge.
Non guardare verso il basso nella propria autoreferenzialità, ma sempre verso gli orizzonti di Dio, che oltrepassano quanto noi siamo capaci di prevedere o pianificare. Vegliare pure su noi stessi, per sfuggire alla tentazione del narcisismo, che acceca gli occhi del Pastore, rende la sua voce irriconoscibile e il suo gesto sterile. Nelle molteplici strade che si aprono alla vostra sollecitudine pastorale, ricordate di conservare indelebile il nucleo che unifica tutte le cose: «l’avete fatto a me» (Mt 25,31-45).
Senz’altro è utile al Vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti. Al Vescovo è necessaria la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo. Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di sé stessi (Fil 2,1-11).
Non ci è estranea l’angoscia dei primi Undici, chiusi tra i loro muri, assediati e sgomenti, abitati dallo spavento delle pecore disperse perché il Pastore era stato colpito. Ma sappiamo che ci è stato donato uno spirito di coraggio e non di timidezza. Pertanto non ci è lecito lasciarci paralizzare dalla paura.
So bene che numerose sono le vostre sfide, che è spesso ostile il campo nel quale seminate, e non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze.
E, tuttavia, siamo fautori della cultura dell’incontro. Siamo sacramenti viventi dell’abbraccio tra la ricchezza divina e la nostra povertà. Siamo testimoni dell’abbassamento e della condiscendenza di Dio che precede nell’amore anche la nostra primigenia risposta.
Il dialogo è il nostro metodo, non per astuta strategia, ma per fedeltà a Colui che non si stanca mai di passare e ripassare nelle piazze degli uomini fino all’undicesima ora per proporre il suo invito d’amore (Mt 20,1-16).
La via è pertanto il dialogo tra di voi, dialogo nei vostri Presbiteri, dialogo con i laici, dialogo con le famiglie, dialogo con la società. Non mi stancherei di incoraggiarvi a dialogare senza paura. Tanto più è ricco il patrimonio, che con parresia avete da condividere, tanto più sia eloquente l’umiltà con la quale lo dovete offrire. Non abbiate paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro né capire fino in fondo che il fratello da raggiungere e riscattare, con la forza e la prossimità dell’amore, conta più di quanto contano le posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del Pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente.
Bisogna lasciare che perennemente risuoni nel nostro cuore la parola del Signore: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28-30). Il giogo di Gesù è giogo d’amore e perciò è garanzia di ristoro. Alle volte ci pesa la solitudine delle nostre fatiche, e siamo talmente carichi del giogo che non ricordiamo più di averlo ricevuto dal Signore. Ci sembra solo nostro e quindi ci trasciniamo come buoi stanchi nel campo arido, minacciati dalla sensazione di aver lavorato invano, dimentichi della pienezza del ristoro collegata indissolubilmente a Colui che ci ha fatto la promessa.
Imparare da Gesù; meglio ancora, imparare Gesù, mite e umile; entrare nella sua mitezza e nella sua umiltà mediante la contemplazione del suo agire. Introdurre le nostre Chiese e il nostro popolo, non di rado schiacciato dalla dura ansia di prestazione, alla soavità del giogo del Signore. Ricordare che l’identità della Chiesa di Gesù è assicurata non dal “fuoco dal cielo che consuma” (Lc 9,54), ma dal segreto calore dello Spirito che “sana ciò che sanguina, piega ciò che è rigido, drizza ciò che è sviato”.
La grande missione che il Signore ci affida, noi la svolgiamo in comunione, in modo collegiale. È già tanto dilaniato e diviso il mondo! La frammentazione è ormai di casa ovunque.
Perciò, la Chiesa, “tunica inconsutile del Signore” non può lasciarsi dividere, frazionare o contendere.
La nostra missione episcopale è primariamente cementare l’unità, il cui contenuto è determinato dalla Parola di Dio e dall’unico Pane del Cielo, con cui ognuna delle Chiese a noi affidate resta Cattolica, perché aperta e in comunione con tutte le Chiese Particolari e con quella di Roma che “presiede nella carità”. È un imperativo, pertanto, vegliare per tale unità, custodirla, favorirla, testimoniarla come segno e strumento che, di là di ogni barriera, unisce nazioni, razze, classi, generazioni.
L’imminente Anno Santo della Misericordia, introducendoci nella profondità inesauribile del cuore divino, nel quale non abita alcuna divisione, sia per tutti occasione privilegiata per rafforzare la comunione, perfezionare l’unità, riconciliare le differenze, perdonarsi a vicenda e superare ogni divisione, così che risplenda la vostra luce come “la città costruita sul monte” (Mt 5,14).
Tale servizio all’unità è particolarmente importante per la vostra amata Nazione, le cui vastissime risorse materiali e spirituali, culturali e politiche, storiche e umane, scientifiche e tecnologiche impongono responsabilità morali non indifferenti in un mondo frastornato e faticosamente alla ricerca di nuovi equilibri di pace, prosperità ed integrazione. È, pertanto, parte essenziale della vostra missione offrire agli Stati Uniti d’America l’umile e potente lievito della comunione. Sappia l’umanità che l’essere abitata dal “sacramento di unità” (Lumen gentium, 1) è garanzia che il suo destino non è l’abbandono e la disgregazione.
Tale testimonianza è un faro che non può spegnersi. Infatti, nel denso buio della vita, gli uomini hanno bisogno di lasciarsi guidare dalla sua luce, per essere certi del porto che li aspetta, sicuri che le loro barche non si schianteranno sugli scogli né saranno in balia delle onde. Perciò vi incoraggio ad affrontare le sfide del nostro tempo. Nel fondo di ciascuna di esse sta sempre la vita come dono e responsabilità. Il futuro della libertà e della dignità delle nostre società dipende dal modo in cui sapremo rispondere a tali sfide.
Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa.
Questi aspetti irrinunciabili della missione della Chiesa appartengono al nucleo di quanto ci è stato trasmesso dal Signore. Abbiamo perciò il dovere di custodirli e comunicarli, anche quando la mentalità del tempo si rende impermeabile e ostile a tale messaggio (Evangelii gaudium, 34-39). Vi incoraggio ad offrire, con gli strumenti e la creatività dell’amore e con l’umiltà della verità, tale testimonianza. Essa ha bisogno non soltanto di proclami e annunci esterni, ma anche di conquistare spazio nel cuore degli uomini e nella coscienza della società.
A questo fine, è molto importante che la Chiesa negli Stati Uniti sia anche un focolare umile che attira gli uomini mediante il fascino della luce e il calore dell’amore. Come Pastori ben conosciamo il buio e il freddo che ancora c’è in questo mondo, la solitudine e l’abbandono di tanti – anche dove abbondano le risorse comunicative e le ricchezze materiali –, la paura di fronte alla vita, le disperazioni e le molteplici fughe.
Perciò, solo una Chiesa che sa radunare attorno al “fuoco” resta capace di attirare. Non certo un fuoco qualsiasi, ma quello che si è acceso al mattino di Pasqua. È il Signore risorto che continua a interpellare i Pastori della Chiesa attraverso la voce timida di tanti fratelli: “Avete qualcosa da mangiare”? Si tratta di riconoscere la sua voce, come fecero gli Apostoli sulla riva del mare di Tiberiade (cfr Gv 21,4-12). Ed è ancora più decisivo consegnarsi alla certezza che le braci della sua presenza, accese al fuoco della passione, ci precedono e non si spengono mai. Venendo meno tale certezza, si rischia di diventare cultori di cenere e non custodi e dispensatori della vera luce e di quel calore che è capace di riscaldare il cuore (cfr Lc 24, 32).
Prima di concludere queste riflessioni, consentitemi ancora di farvi due raccomandazioni che mi stanno a cuore. La prima si riferisce alla vostra paternità episcopale. Siate Pastori vicini alla gente, Pastori prossimi e servitori. Questa vicinanza si esprima in modo speciale verso i vostri sacerdoti. Accompagnateli affinché continuino a servire Cristo con cuore indiviso, perché solo la pienezza riempie i ministri di Cristo. Vi prego, pertanto, non lasciate che si accontentino delle mezze misure. Curate le loro sorgenti spirituali affinché non cadano nella tentazione di diventare notai e burocrati, ma siano espressione della maternità della Chiesa che genera e fa crescere i suoi figli. Vegliate affinché non si stanchino di alzarsi per rispondere a chi bussa nella notte, anche quando già si pensa di aver diritto al riposo (cfr Lc 11,5-8). Allenateli affinché siano pronti a fermarsi, chinarsi, versare balsamo, farsi carico e spendersi in favore di chi, “per caso”, si è trovato spogliato di quanto credeva di possedere (cfr Lc 10,29-37).
La mia seconda raccomandazione si riferisce agli immigrati. Chiedo scusa se in qualche modo parlo quasi “in causa propria”. La Chiesa statunitense conosce come poche le speranze dei cuori dei migranti. Da sempre avete imparato la loro lingua, sostenuto la loro causa, integrato i loro contributi, difeso i loro diritti, promosso la loro ricerca di prosperità, conservato accesa la fiamma della loro fede. Anche adesso nessuna istituzione americana fa di più per gli immigrati che le vostre comunità cristiane. Ora avete questa lunga ondata d’immigrazione latina che investe tante delle vostre diocesi. Non soltanto come Vescovo di Roma, ma anche come Pastore venuto dal sud, sento il bisogno di ringraziarvi e di incoraggiarvi. Forse non sarà facile per voi leggere la loro anima; forse sarete messi alla prova dalla loro diversità. Sappiate, comunque, che possiedono anche risorse da condividere. Perciò accoglieteli senza paura. Offrite loro il calore dell’amore di Cristo e decifrerete il mistero del loro cuore. Sono certo che, ancora una volta, questa gente arricchirà l’America e la sua Chiesa.
Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca!
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1 Quando ero giovane, / avevo ali forti e instancabili, / ma non conoscevo le montagne. / Quando fui vecchio, / conobbi le montagne, / ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione. / Il genio è saggezza e gioventù (Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River).
Spagnolo
Queridos Hermanos en el Episcopado:
Me alegra tener este encuentro con ustedes en este momento de la misión apostólica que me ha traído a su País. Agradezco de corazón al Cardenal Wuerl y al Arzobispo Kurtz las amables palabras que me han dirigido en nombre de todos. Muchas gracias por su acogida y por la generosa solicitud con que han programado y organizado mi estancia entre ustedes.
Viendo con los ojos y con el corazón sus rostros de Pastores, quisiera saludar también a las Iglesias que amorosamente llevan sobre sus hombros; y les ruego encarecidamente que, por medio de ustedes, mi cercanía humana y espiritual llegue a todo el Pueblo de Dios diseminado en esta vasta tierra.
El corazón del Papa se dilata para incluir a todos. Ensanchar el corazón para dar testimonio de que Dios es grande en su amor es la sustancia de la misión del Sucesor de Pedro, Vicario de Aquel que en la cruz extendió los brazos para acoger a toda la humanidad. Que ningún miembro del Cuerpo de Cristo y de la nación americana se sienta excluido del abrazo del Papa. Que, donde se pronuncie el nombre de Jesús, resuene también la voz del Papa para confirmar: «¡Es el Salvador!». Desde sus grandes metrópolis de la costa oriental hasta las llanuras del midwest, desde el profundo sur hasta el ilimitado oeste, en cualquier lugar donde su pueblo se reúna en asamblea eucarística, que el Papa no sea un nombre que se repite por fuerza de la costumbre, sino una compañía tangible destinada a sostener la voz que sale del corazón de la Esposa: «¡Ven, Señor!».
Cuando echan una mano para realizar el bien o llevar al hermano la caridad de Cristo, para enjugar una lágrima o acompañar a quien está solo, para indicar el camino a quien se siente perdido o para fortalecer a quien tiene el corazón destrozado, para socorrer a quien ha caído o enseñar a quien tiene sed de verdad, para perdonar o llevar a un nuevo encuentro con Dios… sepan que el Papa los acompaña y los ayuda, pone también él su mano –vieja y arrugada pero, gracias a Dios, capaz todavía de apoyar y animar– junto a las suyas.
Mi primera palabra es de agradecimiento a Dios por el dinamismo del Evangelio que ha hecho que la Iglesia de Cristo crezca con fuerza en estas tierras y le ha permitido ofrecer su aportación generosa, en el pasado y en la actualidad, a la sociedad estadounidense y al mundo. Aprecio vivamente y agradezco conmovido su generosidad y solidaridad con la Sede Apostólica y con la evangelización en tantas sufridas partes del mundo. Me alegro del firme compromiso de su Iglesia a favor de la vida y de la familia, motivo principal de mi visita. Sigo con atención el enorme esfuerzo que realizan para acoger e integrar a los inmigrantes que siguen llegando a Estados Unidos con la mirada de los peregrinos que se embarcan en busca de sus prometedores recursos de libertad y prosperidad. Admiro los esfuerzos que dedican a la misión educativa en sus escuelas a todos los niveles y a la caridad en sus numerosas instituciones. Son actividades llevadas a cabo muchas veces sin que se reconozca su valor y sin apoyo y, en todo caso, heroicamente sostenidas con la aportación de los pobres, porque esas iniciativas brotan de un mandato sobrenatural que no es lícito desobedecer. Conozco bien la valentía con que han afrontado momentos oscuros en su itinerario eclesial sin temer a la autocrítica ni evitar humillaciones y sacrificios, sin ceder al miedo de despojarse de cuanto es secundario con tal de recobrar la credibilidad y la confianza propia de los Ministros de Cristo, como desea el alma de su pueblo. Sé cuánto les ha hecho sufrir la herida de los últimos años, y he seguido de cerca su generoso esfuerzo por curar a las víctimas, consciente de que, cuando curamos, también somos curados, y por seguir trabajando para que esos crímenes no se repitan nunca más.
Les hablo como Obispo de Roma, llamado por Dios –siendo ya mayor– desde una tierra también americana, para custodiar la unidad de la Iglesia universal y para animar en la caridad el camino de todas las Iglesias particulares, para que progresen en el conocimiento, en la fe y en el amor a Cristo. Leyendo sus nombres y apellidos, viendo sus rostros, consciente de su alto sentido de la responsabilidad eclesial y de la devoción que han profesado siempre al Sucesor de Pedro, tengo que decirles que no me siento forastero entre ustedes. También yo vengo de una tierra vasta, inmensa y no pocas veces informe, que como la de ustedes, ha recibido la fe del bagaje de los misioneros. Conozco bien el reto de sembrar el Evangelio en el corazón de hombres procedentes de mundos diversos, a menudo endurecidos por el arduo camino recorrido antes de llegar. No me es ajeno el cansancio de establecer la Iglesia entre llanuras, montañas, ciudades y suburbios de un territorio a menudo inhóspito, en el que las fronteras siempre son provisionales, las respuestas obvias no perduran y la llave de entrada requiere conjugar el esfuerzo épico de los pioneros exploradores con la sabiduría prosaica y la resistencia de los sedentarios que controlan el territorio alcanzado. Como cantaba uno de sus poetas: «Alas fuertes e incansables», pero también la sabiduría de quien «conoce las montañas»1
No les hablo sólo yo. Mi voz está en continuidad con la de mis Predecesores. Desde los albores de la «nación americana», cuando apenas acabada la revolución fue erigida la primera diócesis en Baltimore, la Iglesia de Roma los ha acompañado y nunca les ha faltado su contante asistencia y su aliento. En los últimos decenios, tres de mis venerados Predecesores les han visitado, entregándoles un notable patrimonio de magisterio todavía actual, que ustedes han utilizado para orientar programas pastorales con visión de futuro, para guiar a esta querida Iglesia.
No es mi intención trazar un programa o delinear una estrategia. No he venido para juzgarles o para impartir lecciones. Confío plenamente en la voz de Aquel que «enseña todas las cosas» (cf. Jn 14,26). Permítanme tan sólo, con la libertad del amor, que les hable como un hermano entre hermanos. No pretendo decirles lo que hay que hacer, porque todos sabemos lo que el Señor nos pide. Prefiero más bien realizar de nuevo ese esfuerzo –antiguo y siempre nuevo– de preguntarnos por los caminos a seguir, los sentimientos que hemos de conservar mientras trabajamos, el espíritu con que tenemos que actuar. Sin ánimo de ser exhaustivo, comparto con ustedes algunas reflexiones que considero oportunas para nuestra misión.
Somos obispos de la Iglesia, pastores constituidos por Dios para apacentar su grey. Nuestra mayor alegría es ser pastores, y nada más que pastores, con un corazón indiviso y una entrega personal irreversible. Es preciso custodiar esta alegría sin dejar que nos la roben. El maligno ruge como un león tratando de devorarla, arruinando todo lo que estamos llamados a ser, no por nosotros mismos, sino por el don y al servicio del «Pastor y guardián de nuestras almas» (1 P 2,25).
La esencia de nuestra identidad se ha de buscar en la oración asidua, en la predicación (cf. Hch 6,4) y el apacentar (cf. Jn 21,15-17; Hch 20,28-31).
No una oración cualquiera, sino la unión familiar con Cristo, donde poder encontrar cotidianamente su mirada y escuchar la pregunta que nos dirige a todos: «¿Quién es mi madre y quiénes son mis hermanos?» (Mc 3,32). Y poderle responder serenamente: «Señor, aquí está tu madre, aquí están tus hermanos. Te los encomiendo, son aquellos que tú me has confiado». La vida del pastor se alimenta de esa intimidad con Cristo.
No una predicación de doctrinas complejas, sino el anuncio gozoso de Cristo, muerto y resucitado por nosotros. Que el estilo de nuestra misión suscite en cuantos nos escuchan la experiencia del «por nosotros» de este anuncio: que la Palabra dé sentido y plenitud a cada fragmento de su vida, que los sacramentos los alimenten con ese sustento que no se pueden proporcionar a sí mismos, que la cercanía del Pastor despierte en ellos la nostalgia del abrazo del Padre. Estén atentos a que la grey encuentre siempre en el corazón del Pastor esa reserva de eternidad que ansiosamente se busca en vano en las cosas del mundo. Que encuentren siempre en sus labios el reconocimiento de su capacidad de hacer y construir, en la libertad y la justicia, la prosperidad de la que esta tierra es pródiga. Pero que no falte sereno valor de confesar que es necesario buscar no «el alimento que perece, sino el que perdura para la vida eterna» (Jn 6,27).
No apacentarse a sí mismos, sino saber retroceder, abajarse, descentrarse, para alimentar con Cristo a la familia de Dios. Vigilar sin descanso, elevándose para abarcar con la mirada de Dios a la grey que sólo a él pertenece. Elevarse hasta la altura de la Cruz de su Hijo, el único punto de vista que abre al pastor el corazón de su rebaño.
No mirar hacia abajo, a la propia autoreferencialidad, sino siempre hacia el horizonte de Dios, que va más allá de lo que somos capaces de prever o planificar. Vigilar también sobre nosotros mismos, para alejar la tentación del narcisismo, que ciega los ojos del pastor, hace irreconocible su voz y su gesto estéril. En las muchas posibilidades que se abren en su solicitud pastoral, no olviden mantener indeleble el núcleo que unifica todas las cosas: «Lo hicieron conmigo» (Mt 25,31.45).
Ciertamente es útil al obispo tener la prudencia del líder y la astucia del administrador, pero nos perdemos inexorablemente cuando confundimos el poder de la fuerza con la fuerza de la impotencia, a través de la cual Dios nos ha redimido. Es necesario que el obispo perciba lúcidamente la batalla entre la luz y la oscuridad que se combate en este mundo. Pero, ay de nosotros si convertimos la cruz en bandera de luchas mundanas, olvidando que la condición de la victoria duradera es dejarse despojarse y vaciarse de sí mismo (cf. Flp 2,1-11).
No nos resulta ajena la angustia de los primeros Once, encerrados entre cuatro paredes, asediados y consternados, llenos del pavor de las ovejas dispersas porque el pastor ha sido abatido. Pero sabemos que se nos ha dado un espíritu de valentía y no de timidez. Por tanto, no es lícito dejarnos paralizar por el miedo.
Sé bien que tienen muchos desafíos, que a menudo es hostil el campo donde siembran y no son pocas las tentaciones de encerrarse en el recinto de los temores, a lamerse las propias heridas, llorando por un tiempo que no volverá y preparando respuestas duras a las resistencias ya de por sí ásperas.
Y, sin embargo, somos artífices de la cultura del encuentro. Somos sacramento viviente del abrazo entre la riqueza divina y nuestra pobreza. Somos testigos del abajamiento y la condescendencia de Dios, que precede en el amor incluso nuestra primera respuesta.
El diálogo es nuestro método, no por astuta estrategia sino por fidelidad a Aquel que nunca se cansa de pasar una y otra vez por las plazas de los hombres hasta la undécima hora para proponer su amorosa invitación (cf. Mt 20,1-16).
Por tanto, la vía es el diálogo entre ustedes, diálogo en sus Presbiterios, diálogo con los laicos, diálogo con las familias, diálogo con la sociedad. No me cansaré de animarlos a dialogar sin miedo. Cuanto más rico sea el patrimonio que tienen que compartir con parresía, tanto más elocuente ha de ser la humildad con que lo tienen que ofrecer. No tengan miedo de emprender el éxodo necesario en todo diálogo auténtico. De lo contrario no se puede entender las razones de los demás, ni comprender plenamente que el hermano al que llegar y rescatar, con la fuerza y la cercanía del amor, cuenta más que las posiciones que consideramos lejanas de nuestras certezas, aunque sean auténticas. El lenguaje duro y belicoso de la división no es propio del Pastor, no tiene derecho de ciudadanía en su corazón y, aunque parezca por un momento asegurar una hegemonía aparente, sólo el atractivo duradero de la bondad y del amor es realmente convincente.
Es preciso dejar que resuene perennemente en nuestro corazón la palabra del Señor: «Tomen mi yugo sobre ustedes y aprendan de mí, que soy manso y humilde de corazón, y encontrarán descanso para sus almas» (Mt 11,28-29). El yugo de Jesús es yugo de amor y, por tanto, garantía de descanso. A veces nos pesa la soledad de nuestras fatigas, y estamos tan cargados del yugo que ya no nos acordamos de haberlo recibido del Señor. Nos parece solamente nuestro y, por tanto, nos arrastramos como bueyes cansados en el campo árido, abrumados por la sensación de haber trabajado en vano, olvidando la plenitud del descanso vinculado indisolublemente a Aquel que hizo la promesa.
Aprender de Jesús; mejor aún, aprender a ser como Jesús, manso y humilde; entrar en su mansedumbre y su humildad mediante la contemplación de su obrar. Poner nuestras iglesias y nuestros pueblos, a menudo aplastados por la dura pretensión del rendimiento bajo el suave yugo del Señor. Recordar que la identidad de la Iglesia de Jesús no está garantizada por el «fuego del cielo que consume» (cf. Lc 9,54), sino por el secreto calor del Espíritu que «sana lo que sangra, dobla lo que es rígido, endereza lo que está torcido».
La gran misión que el Señor nos confía, la llevamos a cabo en comunión, de modo colegial. ¡Está ya tan desgarrado y dividido el mundo! La fragmentación es ya de casa en todas partes. Por eso, la Iglesia, «túnica inconsútil del Señor», no puede dejarse dividir, fragmentar o enfrentarse.
Nuestra misión episcopal consiste en primer lugar en cimentar la unidad, cuyo contenido está determinado por la Palabra de Dios y por el único Pan del Cielo, con el que cada una de las Iglesias que se nos ha confiado permanece Católica, porque está abierta y en comunión con todas las Iglesias particulares y con la de Roma, que «preside en la caridad». Es imperativo, por tanto, cuidar dicha unidad, custodiarla, favorecerla, testimoniarla como signo e instrumento que, más allá de cualquier barrera, une naciones, razas, clases, generaciones.
Que el inminente Año Santo de la Misericordia, al introducirnos en las profundidades inagotables del corazón divino, en el que no hay división alguna, sea para todos una ocasión privilegiada para reforzar la comunión, perfeccionar la unidad, reconciliar las diferencias, perdonarnos unos a otros y superar toda división, de modo que alumbre su luz como «la ciudad puesta en lo alto de un monte» (Mt 5,14).
Este servicio a la unidad es particularmente importante para su amada nación, cuyos vastísimos recursos materiales y espirituales, culturales y políticos, históricos y humanos, científicos y tecnológicos requieren responsabilidades morales no indiferentes en un mundo abrumado y que busca con afán nuevos equilibrios de paz, prosperidad e integración. Por tanto, una parte esencial de su misión es ofrecer a los Estados Unidos de América la levadura humilde y poderosa de la comunión. Que la humanidad sepa que contar con el «sacramento de unidad» (Lumen gentium, 1) es garantía de que su destino no es el abandono y la disgregación.
Este testimonio es un faro que no se puede apagar. En efecto, en la densa oscuridad de la vida, los hombres necesitan dejarse guiar por su luz, para tener la certidumbre del puerto al que acudir, seguros de que sus barcas no se estrellarán en los escollos ni quedarán a merced de las olas. Así que les animo a hacer frente a los desafíos de nuestro tiempo. En el fondo de cada uno de ellos está siempre la vida como don y responsabilidad. El futuro de la libertad y la dignidad de nuestra sociedad dependen del modo en que sepamos responder a estos desafíos.
Las víctimas inocentes del aborto, los niños que mueren de hambre o bajo las bombas, los inmigrantes se ahogan en busca de un mañana, los ancianos o los enfermos, de los que se quiere prescindir, las víctimas del terrorismo, de las guerras, de la violencia y del tráfico de drogas, el medio ambiente devastado por una relación predatoria del hombre con la naturaleza, en todo esto está siempre en juego el don de Dios, del que somos administradores nobles, pero no amos. No es lícito por tanto eludir dichas cuestiones o silenciarlas. No menos importante es el anuncio del Evangelio de la familia que, en el próximo Encuentro Mundial de las Familias en Filadelfia, tendré ocasión de proclamar con fuerza junto a ustedes y a toda la Iglesia.
Estos aspectos irrenunciables de la misión de la Iglesia pertenecen al núcleo de lo que nos ha sido transmitido por el Señor. Por eso tenemos el deber de custodiarlos y comunicarlos, aun cuando la mentalidad del tiempo se hace impermeable y hostil a este mensaje (Evangelii gaudium, 34-39). Los animo a ofrecer este testimonio con los medios y la creatividad del amor y la humildad de la verdad. Esto no sólo requiere proclamas y anuncios externos, sino también conquistar espacio en el corazón de los hombres y en la conciencia de la sociedad.
Para ello, es muy importante que la Iglesia en los Estados Unidos sea también un hogar humilde que atraiga a los hombres por el encanto de la luz y el calor del amor. Como pastores, conocemos bien la oscuridad y el frío que todavía hay en este mundo, la soledad y el abandono de muchos –también donde abundan los recursos comunicativos y la riqueza material–, el miedo a la vida, la desesperación y las múltiples fugas.
Por eso, solamente una Iglesia que sepa reunir en torno al «fuego» es capaz de atraer. Ciertamente, no un fuego cualquiera, sino aquel que se ha encendido en la mañana de Pascua. El Señor resucitado es el que sigue interpelando a los Pastores de la Iglesia a través de la voz tímida de tantos hermanos: «¿Tienen algo que comer?». Se trata de reconocer su voz, como lo hicieron los Apóstoles a orillas del mar de Tiberíades (cf. Jn 21,4-12). Y es todavía más decisivo conservar la certeza de que las brasas de su presencia, encendidas en el fuego de la pasión, nos preceden y no se apagarán nunca. Si falta esta certeza, se corre el riesgo de convertirse en guardianes de cenizas y no custodios y en dispensadores de la verdadera luz y de ese calor que es capaz de hacer arder el corazón (cf. Lc 24,32).
Antes de concluir estas reflexiones, permítanme hacerles aún dos recomendaciones que considero importantes. La primera se refiere a su paternidad episcopal. Sean Pastores cercanos a la gente, Pastores próximos y servidores. Esta cercanía ha de expresarse de modo especial con sus sacerdotes. Acompáñenles para que sirvan a Cristo con un corazón indiviso, porque sólo la plenitud llena a los ministros de Cristo. Les ruego, por tanto, que no dejen que se contenten de medias tintas. Cuiden sus fuentes espirituales para que no caigan en la tentación de convertirse en notarios y burócratas, sino que sean expresión de la maternidad de la Iglesia que engendra y hace crecer a sus hijos. Estén atentos a que no se cansen de levantarse para responder a quien llama de noche, aun cuando ya crean tener derecho al descanso (cf. Lc 11,5-8). Prepárenles para que estén dispuestos para detenerse, abajarse, rociar bálsamo, hacerse cargo y gastarse en favor de quien, «por casualidad», se vio despojado de todo lo que creía poseer (cf. Lc 10,29-37).
Mi segunda recomendación se refiere a los inmigrantes. Pido disculpas si hablo en cierto modo casi in causa propia. La iglesia en Estados Unidos conoce como nadie las esperanzas del corazón de los inmigrantes. Ustedes siempre han aprendido su idioma, apoyado su causa, integrado sus aportaciones, defendido sus derechos, promovido su búsqueda de prosperidad, mantenido encendida la llama de su fe. Incluso ahora, ninguna institución estadounidense hace más por los inmigrantes que sus comunidades cristianas. Ahora tienen esta larga ola de inmigración latina en muchas de sus diócesis. No sólo como Obispo de Roma, sino también como un Pastor venido del sur, siento la necesidad de darles las gracias y de animarles. Tal vez no sea fácil para ustedes leer su alma; quizás sean sometidos a la prueba por su diversidad. En todo caso, sepan que también tienen recursos que compartir. Por tanto, acójanlos sin miedo. Ofrézcanles el calor del amor de Cristo y descifrarán el misterio de su corazón. Estoy seguro de que, una vez más, esta gente enriquecerá a su País y a su Iglesia.
Que Dios los bendiga y la Virgen los cuide.
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1 «En la juventud, / yo tenía alas fuertes e infatigables, / pero no conocía las montañas. / Con la edad, / conocí las montañas, / pero mis alas fatigadas no podían seguir mi visión. / El genio es sabiduría y juventud» (Edgar Lee Masters, Antología de Spoon River).
Inglese
Dear Brother Bishops,
I am pleased that we can meet at this point in the apostolic mission which has brought me to your country. I thank Cardinal Wuerl and Archbishop Kurtz for their kind words in your name. I am very appreciative of your welcome and the generous efforts made to help plan and organize my stay.
As I look out with affection at you, their pastors, I would like to embrace all the local Churches over which you exercise loving responsibility. I would ask you to share my affection and spiritual closeness with the People of God throughout this vast land.
The heart of the Pope expands to include everyone. To testify to the immensity of God’s love is the heart of the mission entrusted to the Successor of Peter, the Vicar of the One who on the cross embraced the whole of mankind. May no member of Christ’s Body and the American people feel excluded from the Pope’s embrace. Wherever the name of Jesus is spoken, may the Pope’s voice also be heard to affirm that: “He is the Savior”! From your great coastal cities to the plains of the Midwest, from the deep South to the far reaches of the West, wherever your people gather in the Eucharistic assembly, may the Pope be not simply a name but a felt presence, sustaining the fervent plea of the Bride: “Come, Lord!”
Whenever a hand reaches out to do good or to show the love of Christ, to dry a tear or bring comfort to the lonely, to show the way to one who is lost or to console a broken heart, to help the fallen or to teach those thirsting for truth, to forgive or to offer a new start in God… know that the Pope is at your side and supports you. He puts his hand on your own, a hand wrinkled with age, but by God’s grace still able to support and encourage.
My first word to you is one of thanksgiving to God for the power of the Gospel which has brought about remarkable growth of Christ’s Church in these lands and enabled its generous contribution, past and present, to American society and to the world. I thank you most heartily for your generous solidarity with the Apostolic See and the support you give to the spread of the Gospel in many suffering areas of our world. I appreciate the unfailing commitment of the Church in America to the cause of life and that of the family, which is the primary reason for my present visit. I am well aware of the immense efforts you have made to welcome and integrate those immigrants who continue to look to America, like so many others before them, in the hope of enjoying its blessings of freedom and prosperity. I also appreciate the efforts which you are making to fulfill the Church’s mission of education in schools at every level and in the charitable services offered by your numerous institutions. These works are often carried out without appreciation or support, often with heroic sacrifice, out of obedience to a divine mandate which we may not disobey.
I am also conscious of the courage with which you have faced difficult moments in the recent history of the Church in this country without fear of self-criticism and at the cost of mortification and great sacrifice. Nor have you been afraid to divest whatever is unessential in order to regain the authority and trust which is demanded of ministers of Christ and rightly expected by the faithful. I realize how much the pain of recent years has weighed upon you and I have supported your generous commitment to bring healing to victims – in the knowledge that in healing we too are healed – and to work to ensure that such crimes will never be repeated.
I speak to you as the Bishop of Rome, called by God in old age, and from a land which is also American, to watch over the unity of the universal Church and to encourage in charity the journey of all the particular Churches toward ever greater knowledge, faith and love of Christ. Reading over your names, looking at your faces, knowing the extent of your churchmanship and conscious of the devotion which you have always shown for the Successor of Peter, I must tell you that I do not feel a stranger in your midst. I am a native of a land which is also vast, with great open ranges, a land which, like your own, received the faith from itinerant missionaries. I too know how hard it is to sow the Gospel among people from different worlds, with hearts often hardened by the trials of a lengthy journey. Nor am I unaware of the efforts made over the years to build up the Church amid the prairies, mountains, cities and suburbs of a frequently inhospitable land, where frontiers are always provisional and easy answers do not always work. What does work is the combination of the epic struggle of the pioneers and the homely wisdom and endurance of the settlers. As one of your poets has put it, “strong and tireless wings” combined with the wisdom of one who “knows the mountains”.1
I do not speak to you with my voice alone, but in continuity with the words of my predecessors. From the birth of this nation, when, following the American Revolution, the first diocese was erected in Baltimore, the Church of Rome has always been close to you; you have never lacked its constant assistance and encouragement. In recent decades, three Popes have visited you and left behind a remarkable legacy of teaching. Their words remain timely and have helped to inspire the long-term goals which you have set for the Church in this country.
It is not my intention to offer a plan or to devise a strategy. I have not come to judge you or to lecture you. I trust completely in the voice of the One who “teaches all things” (Jn 14:26). Allow me only, in the freedom of love, to speak to you as a brother among brothers. I have no wish to tell you what to do, because we all know what it is that the Lord asks of us. Instead, I would turn once again to the demanding task – ancient yet never new – of seeking out the paths we need to take and the spirit with which we need to work. Without claiming to be exhaustive, I would share with you some reflections which I consider helpful for our mission.
We are bishops of the Church, shepherds appointed by God to feed his flock. Our greatest joy is to be shepherds, and only shepherds, pastors with undivided hearts and selfless devotion. We need to preserve this joy and never let ourselves be robbed of it. The evil one roars like a lion, anxious to devour it, wearing us down in our resolve to be all that we are called to be, not for ourselves but in gift and service to the “Shepherd of our souls” (1 Pet 2:25).
The heart of our identity is to be sought in constant prayer, in preaching (Acts 6:4) and in shepherding the flock entrusted to our care (Jn 21:15-17; Acts 20:28-31).
Ours must not be just any kind of prayer, but familiar union with Christ, in which we daily encounter his gaze and sense that he is asking us the question: “Who is my mother? Who are my brothers?” (Mk 3:31-34). One in which we can calmly reply: “Lord, here is your mother, here are your brothers! I hand them over to you; they are the ones whom you entrusted to me”. Such trusting union with Christ is what nourishes the life of a pastor.
It is not about preaching complicated doctrines, but joyfully proclaiming Christ who died and rose for our sake. The “style” of our mission should make our hearers feel that the message we preach is meant “for us”. May the word of God grant meaning and fullness to every aspect of their lives; may the sacraments nourish them with that food which they cannot procure for themselves; may the closeness of the shepherd make them them long once again for the Father’s embrace. Be vigilant that the flock may always encounter in the heart of their pastor that “taste of eternity” which they seek in vain in the things of this world. May they always hear from you a word of appreciation for their efforts to confirm in liberty and justice the prosperity in which this land abounds. At the same time, may you never lack the serene courage to proclaim that “we must work not for the food which perishes, but for the food which endures for eternal life” (Jn 6:27).
Shepherds who do not pasture themselves but are able to step back, away from the center, to “decrease”, in order to feed God’s family with Christ. Who keep constant watch, standing on the heights to look out with God’s eyes on the flock which is his alone. Who ascend to the height of the cross of God’s Son, the sole standpoint which opens to the shepherd the heart of his flock.
Shepherds who do not lower our gaze, concerned only with our concerns, but raise it constantly toward the horizons which God opens before us and which surpass all that we ourselves can foresee or plan. Who also watch over ourselves, so as to flee the temptation of narcissism, which blinds the eyes of the shepherd, makes his voice unrecognizable and his actions fruitless. In the countless paths which lie open to your pastoral concern, remember to keep focused on the core which unifies everything: “You did it unto me” (Mt 25:31-45).
Certainly it is helpful for a bishop to have the farsightedness of a leader and the shrewdness of an administrator, but we fall into hopeless decline whenever we confuse the power of strength with the strength of that powerlessness with which God has redeemed us. Bishops need to be lucidly aware of the battle between light and darkness being fought in this world. Woe to us, however, if we make of the cross a banner of worldly struggles and fail to realize that the price of lasting victory is allowing ourselves to be wounded and consumed (Phil 2:1-11).
We all know the anguish felt by the first Eleven, huddled together, assailed and overwhelmed by the fear of sheep scattered because the shepherd had been struck. But we also know that we have been given a spirit of courage and not of timidity. So we cannot let ourselves be paralyzed by fear.
I know that you face many challenges, that the field in which you sow is unyielding and that there is always the temptation to give in to fear, to lick one’s wounds, to think back on bygone times and to devise harsh responses to fierce opposition.
And yet we are promoters of the culture of encounter. We are living sacraments of the embrace between God’s riches and our poverty. We are witnesses of the abasement and the condescension of God who anticipates in love our every response.
Dialogue is our method, not as a shrewd strategy but out of fidelity to the One who never wearies of visiting the marketplace, even at the eleventh hour, to propose his offer of love (Mt 20:1-16).
The path ahead, then, is dialogue among yourselves, dialogue in your presbyterates, dialogue with lay persons, dialogue with families, dialogue with society. I cannot ever tire of encouraging you to dialogue fearlessly. The richer the heritage which you are called to share with parrhesia, the more eloquent should be the humility with which you should offer it. Do not be afraid to set out on that “exodus” which is necessary for all authentic dialogue. Otherwise, we fail to understand the thinking of others, or to realize deep down that the brother or sister we wish to reach and redeem, with the power and the closeness of love, counts more than their positions, distant as they may be from what we hold as true and certain. Harsh and divisive language does not befit the tongue of a pastor, it has no place in his heart; although it may momentarily seem to win the day, only the enduring allure of goodness and love remains truly convincing.
We need to let the Lord’s words echo constantly in our hearts: “Take my yoke upon you, and learn from me, who am meek and humble of heart, and you will find refreshment for your souls” (Mt 11:28-30). Jesus’ yoke is a yoke of love and thus a pledge of refreshment. At times in our work we can be burdened by a sense of loneliness, and so feel the heaviness of the yoke that we forget that we have received it from the Lord. It seems to be ours alone, and so we drag it like weary oxen working a dry field, troubled by the thought that we are laboring in vain. We can forget the profound refreshment which is indissolubly linked to the One who has made us the promise.
We need to learn from Jesus, or better to learn Jesus, meek and humble; to enter into his meekness and his humility by contemplating his way of acting; to lead our Churches and our people – not infrequently burdened by the stress of everyday life – to the ease of the Lord’s yoke. And to remember that Jesus’ Church is kept whole not by “consuming fire from heaven” (Lk 9:54), but by the secret warmth of the Spirit, who “heals what is wounded, bends what is rigid, straightens what is crooked”.
The great mission which the Lord gives us is one which we carry out in communion, collegially. The world is already so torn and divided, brokenness is now everywhere. Consequently, the Church, “the seamless garment of the Lord” cannot allow herself to be rent, broken or fought over.
Our mission as bishops is first and foremost to solidify unity, a unity whose content is defined by the Word of God and the one Bread of Heaven. With these two realities each of the Churches entrusted to us remains Catholic, because open to, and in communion with, all the particular Churches and with the Church of Rome which “presides in charity”. It is imperative, therefore, to watch over that unity, to safeguard it, to promote it and to bear witness to it as a sign and instrument which, beyond every barrier, unites nations, races, classes and generations.
May the forthcoming Holy Year of Mercy, by drawing us into the fathomless depths of God’s heart in which no division dwells, be for all of you a privileged moment for strengthening communion, perfecting unity, reconciling differences, forgiving one another and healing every rift, that your light may shine forth like “a city built on a hill” (Mt 5:14).
This service to unity is particularly important for this nation, whose vast material and spiritual, cultural and political, historical and human, scientific and technological resources impose significant moral responsibilities in a world which is seeking, confusedly and laboriously, new balances of peace, prosperity and integration. It is an essential part of your mission to offer to the United States of America the humble yet powerful leaven of communion. May all mankind know that the presence in its midst of the “sacrament of unity” (Lumen Gentium, 1) is a guarantee that its fate is not decay and dispersion.
This kind of witness is a beacon whose light can reassure men and women sailing through the dark clouds of life that a sure haven awaits them, that they will not crash on the reefs or be overwhelmed by the waves. I encourage you, then, to confront the challenging issues of our time. Ever present within each of them is life as gift and responsibility. The future freedom and dignity of our societies depends on how we face these challenges.
The innocent victim of abortion, children who die of hunger or from bombings, immigrants who drown in the search for a better tomorrow, the elderly or the sick who are considered a burden, the victims of terrorism, wars, violence and drug trafficking, the environment devastated by man’s predatory relationship with nature – at stake in all of this is the gift of God, of which we are noble stewards but not masters. It is wrong, then, to look the other way or to remain silent. No less important is the Gospel of the Family, which in the World Meeting of Families in Philadelphia I will emphatically proclaim together with you and the entire Church.
These essential aspects of the Church’s mission belong to the core of what we have received from the Lord. It is our duty to preserve and communicate them, even when the tenor of the times becomes resistent and even hostile to that message (Evangelii Gaudium, 34-39). I urge you to offer this witness, with the means and creativity born of love, and with the humility of truth. It needs to be preached and proclaimed to those without, but also to find room in people’s hearts and in the conscience of society.
To this end, it is important that the Church in the United States also be a humble home, a family fire which attracts men and women through the attractive light and warmth of love. As pastors, we know well how much darkness and cold there is in this world; we know the loneliness and the neglect experienced by many people, even amid great resources of communication and material wealth. We see their fear in the face of life, their despair and the many forms of escapism to which it gives rise.
Consequently, only a Church which can gather around the family fire remains able to attract others. And not any fire, but the one which blazed forth on Easter morn. The risen Lord continues to challenge the Church’s pastors through the quiet plea of so many of our brothers and sisters: “Have you something to eat?” We need to recognize the Lord’s voice, as the apostles did on the shore of the lake of Tiberius (Jn 21:4-12). It becomes even more urgent to grow in the certainty that the embers of his presence, kindled in the fire of his passion, precede us and will never die out. Whenever this certainty weakens, we end up being caretakers of ash, and not guardians and dispensers of the true light and the warmth which causes our hearts to burn within us (Lk 24:32).
Before concluding these reflections, allow me to offer two recommendations which are close to my heart. The first refers to your fatherhood as bishops. Be pastors close to people, pastors who are neighbors and servants. Let this closeness be expressed in a special way towards your priests. Support them, so that they can continue to serve Christ with an undivided heart, for this alone can bring fulfillment to ministers of Christ. I urge you, then, not to let them be content with half-measures. Find ways to encourage their spiritual growth, lest they yield to the temptation to become notaries and bureaucrats, but instead reflect the motherhood of the Church, which gives birth to and raises her sons and daughters. Be vigilant lest they tire of getting up to answer those who knock on their door by night, just when they feel entitled to rest (Lk 11:5-8). Train them to be ready to stop, care for, soothe, lift up and assist those who, “by chance” find themselves stripped of all they thought they had (Lk 10:29-37).
My second recommendation has to do with immigrants. I ask you to excuse me if in some way I am pleading my own case. The Church in the United States knows like few others the hopes present in the hearts of these “pilgrims”. From the beginning you have learned their languages, promoted their cause, made their contributions your own, defended their rights, helped them to prosper, and kept alive the flame of their faith. Even today, no American institution does more for immigrants than your Christian communities. Now you are facing this stream of Latin immigration which affects many of your dioceses. Not only as the Bishop of Rome, but also as a pastor from the South, I feel the need to thank and encourage you. Perhaps it will not be easy for you to look into their soul; perhaps you will be challenged by their diversity. But know that they also possess resources meant to be shared. So do not be afraid to welcome them. Offer them the warmth of the love of Christ and you will unlock the mystery of their heart. I am certain that, as so often in the past, these people will enrich America and its Church.
May God bless you and Our Lady watch over you!
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1 “In youth my wings were strong and tireless, / But I did not know the mountains. / In age I know the mountains / But my weary wings could not follow my vision – / Genius is wisdom and youth.” (Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology, “Alexander Throckmorton”).
Francese
Chers frères dans l’Épiscopat, je suis heureux de vous rencontrer en ce moment de la mission apostolique qui m’a conduit dans votre pays. Je remercie vivement le Cardinal Wuerl et l’Archevêque Kurtz pour les aimables paroles qu’ils m’ont adressées au nom de vous tous. Recevez, s’il vous plaît, ma gratitude pour l’accueil et pour la généreuse disponibilité avec laquelle mon séjour a été programmé et organisé.
En embrassant, par le regard et par le coeur, vos visages de pasteurs, je voudrais étreindre les Églises que vous portez sur les épaules avec amour, et je vous prie d’assurer que ma proximité humaine et spirituelle rejoint, par vous, le Peuple de Dieu tout entier disséminé sur cette vaste terre.
Le coeur du Pape se dilate pour inclure tout un chacun. Élargir le coeur pour témoigner que Dieu est grand dans son amour constitue la substance de la mission du Successeur de Pierre, Vicaire de Celui qui, sur la Croix, a embrassé l’humanité entière. Qu’aucun membre du Corps du Christ et de la nation américaine ne se sente exclu de l’accolade du Pape. Que partout affleure sur les lèvres l’authentique nom de Jésus, que là résonne aussi la voix du Pape pour rassurer : “C’est le Sauveur ”! De vos grandes métropoles de la côte Est aux plaines di Midwest, du Sud profond à l’Ouest immense, partout où votre peuple se réunit en assemblée eucharistique, que le Pape ne soit pas un simple nom prononcé de façon routinière, mais qu’il soit une compagnie tangible visant à soutenir la voix qui s’élève du coeur de l’Épouse : “Viens, Seigneur ” !
Quand une main se tend pour accomplir le bien ou rendre proche la charité du Christ, pour essuyer une larme ou pour tenir compagnie à une solitude, pour indiquer une route à un égaré ou réconforter un coeur désormais meurtri, pour se pencher sur la personne tombée à terre ou enseigner à celle qui a soif de vérité, pour offrir le pardon ou pour conduire à un nouveau départ en Dieu… sachez que le Pape vous accompagne et vous soutient, qu’il pose lui aussi sur votre main, la sienne maintenant vieille et rugueuse mais, par la grâce de Dieu, encore capable de soutenir et d’encourager.
Ma première parole est d’action de grâce à Dieu pour le dynamisme de l’Évangile qui a permis la croissance remarquable de l’Église du Christ sur ces terres, ainsi que la contribution généreuse, qu’elle a offerte et continue d’offrir, à la société des États-Unis et au monde. J’apprécie vivement votre générosité et votre solidarité envers le Siège apostolique tout comme pour l’évangélisation dans beaucoup de parties tourmentées du monde, et je vous en remercie avec émotion. Je me réjouis de l’engagement indéfectible de votre Église pour la cause de la vie et de la famille, motif principal de ma présente visite. Je suis avec attention l’effort considérable d’accueil et d’intégration des émigrés qui continuent de regarder l’Amérique de la même manière que les pèlerins qui y ont abordé à la recherche de ses ressources prometteuses de liberté et de prospérité. J’admire l’effort au prix duquel vous poursuivez la mission éducative dans vos écoles à tous les niveaux et l’oeuvre de charité de vos nombreuses institutions. Ce sont des activités souvent conduites sans aucune compréhension ni appui et, dans chaque cas, héroïquement maintenues grâce à l’offrande des pauvres, parce que de telles initiatives jaillissent d’une mission surnaturelle à laquelle il n’est pas permis de désobéir. Je suis conscient du courage avec lequel vous avez affronté des moments obscurs dans votre parcours ecclésial sans craindre des autocritiques, ni épargner humiliations et sacrifices, sans céder à la peur de se vider de tout ce qui est secondaire en vue de retrouver l’autorité et la confiance demandée aux ministres du Christ, comme l’attend l’âme de ce peuple unique. Je sais combien est gravée en vous la blessure des dernières années et je vous ai accompagnés dans votre généreux engagement pour guérir les victimes - conscients qu’en guérissant les autres, nous sommes aussi toujours guéris - et pour continuer à oeuvrer afin que de tels crimes ne se répètent plus jamais.
Je vous parle comme Évêque de Rome, appelé par Dieu, déjà âgé, d’une terre américaine elle aussi, pour préserver l’unité de l’Église universelle et pour encourager dans la charité le parcours de toutes les Églises particulières, afin qu’elles progressent dans la connaissance, dans la foi et dans l’amour du Christ. Lisant vos prénoms et vos noms, observant vos traits, connaissant le niveau élevé de votre conscience ecclésiale et sachant la dévotion que vous avez toujours réservée au Successeur de Pierre, je dois vous dire que je ne me sens pas parmi vous comme un étranger. Je suis, en effet, originaire d’une terre vaste elle aussi, immense et souvent informe qui, comme la vôtre, a reçu la foi du bagage des missionnaires. Je connais bien le défi de semer l’Évangile dans le coeur d’hommes provenant de mondes différents, et qui souvent se sont endurcis au long de l’âpre chemin parcouru avant d’arriver. Elle ne m’est pas étrangère, l’histoire de l’effort pour implanter l’Église entre plaines, montagnes, villes et banlieues d’un territoire souvent inhospitalier, où les frontières sont toujours provisoires, où les réponses évidentes ne durent pas, et où la clé d’entrée demande de savoir conjuguer l’effort héroïque des pionniers explorateurs avec la sagesse prosaïque et la résistance des sédentaires qui sont déjà installés dans l’espace où l’on arrive. Comme a chanté l’un de vos poètes : “ailes fortes et infatigables”, mais aussi la sagesse de celui qui “connaît les montagnes ”1.
Je ne vous parle pas tout seul. Ma voix est en continuité avec tout ce que mes Prédécesseurs vous ont donné. En effet, depuis l’aube de la “nation américaine”, quand, au lendemain de la révolution a été créé le premier diocèse à Baltimore, l’Église de Rome vous a toujours été proche et son assistance constante, tout comme son encouragement, ne vous a jamais fait défaut. Au cours des dernières décennies, trois de mes vénérés Prédécesseurs vous ont rendu visite, vous remettant un important patrimoine d’enseignement toujours actuel, que vous avez mis à profit pour orienter les programmes pastoraux clairvoyants, afin de guider cette Église bien-aimée.
Je n’entends pas tracer un programme, ni définir une stratégie. Je ne suis pas venu pour vous juger, ni pour donner des leçons. J’ai pleinement confiance dans la voix de Celui qui “enseigne tout ” (Jn 14, 26). Permettez-moi seulement, avec la liberté de l’amour, de pouvoir parler comme un frère parmi des frères. Je n’ai pas à coeur de vous dire ce qu’il faut faire, parce que nous savons tous ce que nous demande le Seigneur. Je préfère plutôt revenir sur cet effort – ancien et toujours nouveau – qui consiste à s’interroger sur les chemins à parcourir, sur les sentiments à nourrir lorsqu’on travaille, sur l’esprit dans lequel agir. Sans la prétention d’être exhaustif, je partage avec vous quelques réflexions que j’estime opportunes pour notre mission.
Nous sommes Évêques de l’Église, constitués pasteurs par Dieu pour paître son troupeau. Notre joie la plus grande est d’être pasteurs, rien d’autre que pasteurs, d’un coeur sans partage et dans un don de soi irréversible. Il faut garder cette joie sans permettre qu’on nous la vole. Le malin rugit comme un lion cherchant à la dévorer, abîmant ainsi ce que nous sommes appelés à être non pour nous-mêmes, mais par don et au service du “Gardien de nos âmes” (1 P 2, 25).
L’essence de notre identité doit se chercher dans la prière assidue, dans la prédication (Ac 1, 4) et dans le fait de paître (Jn 21, 15-17 ; Ac 20, 28-31).
Non pas une prière quelconque, mais l’union familière avec le Christ, où l’on croise chaque jour son regard pour entendre la question qui nous est adressée : “Qui est ma Mère ? qui sont mes frères ?” (Mc 3, 31-34). Et pouvoir lui répondre sereinement : “Seigneur, voici ta Mère, voici tes frères ! Je te les remets, ce sont ceux que tu m’a confiés”. La vie d’un pasteur se nourrit d’une telle familiarité avec le Christ.
Non pas une prédication de doctrines complexes, mais l’annonce joyeuse du Christ, mort et ressuscité pour nous. Que le style de notre mission suscite en tous ceux qui nous écoutent l’expérience du “pour nous” de cette annonce : que la Parole donne sens et plénitude à toute partie de leurs vies, que les Sacrements les nourrissent de cet aliment qu’ils ne peuvent se procurer, que la proximité du pasteur réveille en eux la nostalgie de l’étreinte du Père. Veillez à ce que le troupeau rencontre toujours dans le coeur du pasteur cette réserve d’éternité qu’avec anxiété l’on cherche en vain dans les choses du monde. Qu’ils trouvent toujours sur vos lèvres l’appréciation pour leur capacité d’agir et de construire, dans la liberté et dans la justice, la prospérité dont est prodigue cette terre. Mais que ne fasse pas défaut le courage serein de confesser qu’“il faut travailler non pas pour la nourriture qui se perd, mais pour la nourriture qui demeure jusque dans la vie éternelle” (Jn 6, 27).
Non pas se paître soi-même mais savoir se mettre en retrait, s’abaisser, se décentrer pour nourrir du Christ la famille de Dieu. Veiller sans relâche, se hisser haut pour rejoindre, par le regard de Dieu, le troupeau qui appartient seulement à Lui. S’élever à la hauteur de la croix de son Fils, le seul point de vue qui ouvre au pasteur le coeur de son troupeau.
Non pas regarder vers le bas, enfermés dans l’autoréférentialité, mais toujours vers les horizons de Dieu qui dépassent tout ce que nous sommes capables de prévoir ou de planifier. Veiller aussi à fuir la tentation du narcissisme, qui rend aveugles les yeux du Pasteur, qui rend sa voix méconnaissable et ses gestes stériles. Sur les chemins multiples qui s’ouvrent à votre sollicitude pastorale, rappelez-vous de conserver intact le noyau qui unifie toutes les choses : “c’est à moi que vous l’avez fait ” (Mt 25, 31-45).
Il est certainement utile à l’Évêque de posséder la clairvoyance du leader et l’habileté de l’administrateur, mais survient inexorablement la déchéance lorsque nous échangeons le pouvoir de la force contre la force de l’impuissance, à travers laquelle Dieu nous a sauvés. Il faut à l’Evêque la perception lucide du combat entre la lumière et les ténèbres qui se livre dans ce monde. Malheur à nous, cependant, si nous faisons de la croix un étendard de luttes mondaines, en ignorant que la condition de la victoire durable est de se laisser transpercer et vider de soi-même (Ph 2, 1-11).
Elle ne nous est pas étrangère, l’angoisse des premiers onze, enfermés dans leurs murs, agressés et effarés, habités par la peur des brebis dispersées parce que le Pasteur a été frappé. Mais nous savons que nous a été donné un esprit de courage et non de timidité. Par conséquent, il n’est pas permis de nous laisser paralyser par la peur.
Je sais que les défis auxquels vous êtes confrontés sont nombreux, que le champ dans lequel vous semez est souvent hostile, et que les tentations sont nombreuses de s’enfermer dans les murs de la peur à se lécher les blessures, se rappelant une époque qui ne reviendra pas et planifiant des réponses dures aux résistances qui sont d’ores et déjà âpres.
Et cependant, nous sommes des partisans de la culture de la rencontre. Nous sommes des sacrements vivants de l’étreinte entre la richesse divine et notre pauvreté. Nous sommes des témoins de l’abaissement et de la condescendance de Dieu qui, dans l’amour, précède aussi notre première réponse.
Le dialogue est notre méthode, non par stratégie habile, mais par fidélité à celui qui ne se fatigue jamais de passer et de repasser sur les places des hommes jusqu’à la onzième heure pour proposer son invitation d’amour (Mt 20, 1-16).
Le chemin, c’est donc le dialogue entre vous, dialogue dans vos presbytères, dialogue avec les laïcs, dialogue avec les familles, dialogue avec la société. Je ne me lasserai pas de vous encourager à dialoguer sans peur. Plus riche est le patrimoine, que vous avez à partager dans la vérité, que plus éloquente soit l’humilité avec laquelle vous l’offrez. N’ayez pas peur d’accomplir l’exode nécessaire à tout dialogue authentique. Autrement, il n’est pas possible de comprendre les raisons de l’autre, ni de comprendre en profondeur que le frère à rejoindre et à racheter - par la force et la proximité de l’amour - compte davantage que toutes les positions que nous jugeons éloignées des nôtres, même si celles-ci sont d’authentiques certitudes. Le langage aigre et belliqueux de la division ne convient pas aux lèvres d’un pasteur, il n’a pas droit de cité dans son coeur et, même s’il semble pour un moment assurer une apparente hégémonie, seul l’attrait durable de la bonté et de l’amour reste vraiment convainquant.
Il faut laisser pour toujours résonner dans notre coeur la parole du Seigneur : « Prenez sur vous mon joug, devenez mes disciples, car je suis doux et humble de coeur, et vous trouverez le repos pour votre âme » (Mt 11, 28-30). Le joug de Jésus est un joug d’amour et donc promesse de repos. Parfois la solitude de nos peines nous pèse, et nous prenons tellement sur nous le joug que nous ne nous souvenons plus de l’avoir reçu du Seigneur. Il semble seulement nôtre, et donc nous nous trainons comme des boeufs fatigués dans le champ aride, menacés par la sensation d’avoir travaillé en vain, oubliant la plénitude du repos indissociablement lié à celui qui nous en a fait la promesse.
Apprendre de Jésus, mieux encore, apprendre Jésus, doux et humble ; entrer dans sa douceur et dans son humilité par la contemplation de son agir. Introduire nos Églises et notre peuple, souvent écrasé par la dure anxiété de la performance, dans la suavité du joug du Seigneur. Se rappeler que l’identité de l’Église de Jésus est assurée non par le feu du ciel qui détruit (cf. Lc 9, 54), mais par la secrète chaleur de l’Esprit qui guérit ce qui est blessé, assouplit ce qui est raide, rend droit ce qui est faussé.
La grande mission que le Seigneur nous confie, nous l’exerçons en communion, de manière collégiale. Le monde est déjà tellement déchiré et divisé, le morcellement a désormais élu domicile partout. Par conséquent, l’Église, ‘‘la tunique sans couture du Seigneur’’, ne peut se laisser déchirer, être mise en morceaux, ou devenir objet de querelles.
Notre mission épiscopale est en premier de cimenter l’unité, dont le contenu est déterminé par la Parole de Dieu et par l’unique Pain du Ciel, par lesquels chacune des Églises qui nous sont confiées reste catholique, parce qu’ouverte et en communion avec toutes les Églises particulières et avec celle de Rome qui ‘‘préside à la charité’’. Il est impératif, par conséquent, de veiller à cette unité, de la garder, de la favoriser, d’en témoigner comme signe et instrument qui, au-delà de toute barrière, unit nations, races, classes, générations.
Que l’Année Sainte de la Miséricorde toute proche, en nous introduisant dans la profondeur inépuisable du coeur divin, dans lequel il n’y a aucune division, soit pour tous une occasion privilégiée pour renforcer la communion, perfectionner l’unité, réconcilier les différences, se pardonner mutuellement et surmonter toute division, de sorte que resplendisse votre lumière comme ‘‘la ville située sur la montagne’’ (Mt 5, 14).
Un tel service à l’unité est particulièrement important pour votre Nation aimée, dont les vastes ressources matérielles et spirituelles, culturelles et politiques, historiques et humaines, scientifiques et technologiques imposent des responsabilités morales non négligeables dans un monde assourdi et qui peine à la recherche de nouveaux équilibres de paix, de prospérité et d’intégration. Offrir aux États-Unis d’Amérique l’humble et puissant levain de la communion est donc une part essentielle de votre mission. Que l’humanité le sache, le fait qu’elle est habitée par le ‘‘sacrement d’unité’’ (LG 1) est la garantie qu’elle n’est pas destinée à l’abandon ni à la désagrégation.
Un tel témoignage est un phare qui ne peut s’éteindre. En effet, dans l’obscurité dense de la vie, les hommes ont besoin de se laisser guider par sa lumière, pour être certains du port qui les attend, sûrs que leurs barques ne se briseront pas sur les rochers et ne seront pas à la merci des flots. Par conséquent je vous encourage à affronter les questions de notre temps, qui constituent des défis. Au fond de chacune d’elles, il y a toujours la vie comme don et responsabilité. L’avenir de la liberté et de la dignité de nos sociétés dépend de la manière dont nous saurons répondre à de tels défis.
La victime innocente de l’avortement, les enfants qui meurent de faim ou sous les bombes, les immigrés qui se noient à la recherche d’un lendemain, les personnes âgées ou les malades dont on voudrait se débarrasser, les victimes du terrorisme, des guerres, de la violence et du narcotrafic, l’environnement dévasté par une relation déprédatrice de l’homme avec la nature, en tout cela, est toujours en jeu le don de Dieu dont nous sommes les nobles administrateurs, mais non les maîtres. Il n’est donc pas permis de s’évader ni de se taire. L’annonce de l’Évangile de la famille que j’aurai, lors de l’imminente Journée Mondiale des Familles à Philadelphie, l’occasion de faire retentir avec vous et avec toute l’Église n’est pas moins importante.
Ces aspects de la mission de l’Église, auxquels on ne peut renoncer, appartiennent au noyau de ce qui a été transmis par le Seigneur. Nous avons donc le devoir de les garder et de les communiquer, même lorsque l’esprit du temps rend imperméable et hostile à un tel message
(Evangelii gaudium, n. 34-39). Je vous encourage à offrir, avec les moyens et la créativité de l’amour comme avec l’humilité de la vérité, un tel témoignage. Celui-ci a besoin non seulement de proclamation et d’annonces extérieures, mais aussi de conquérir un espace dans le coeur des hommes et dans la conscience de la société.
A cette fin, il est très important que l’Église aux États-Unis soit aussi un foyer humble qui attire les hommes par la splendeur de la lumière et la chaleur de l’amour. Comme pasteurs, nous connaissons bien l’obscurité et le froid qu’il y a encore dans le monde, la solitude et l’abandon de beaucoup – même là où abondent les moyens de communication et les richesses matérielles – la peur face à la vie, les désespoirs et les multiples évasions qui y sont liées.
Par conséquent, seule une Église qui sait se rassembler autour du foyer demeure capable d’attirer. Certes, pas n’importe quel feu, mais celui qui s’est allumé le matin de Pâques. C’est le Seigneur ressuscité qui continue à interpeller les pasteurs de l’Église à travers la voix timide de tant de frères : ‘‘Avez-vous quelque chose à manger’’ ? Il est nécessaire de reconnaître sa voix comme l’ont fait les Apôtres sur la rive de la mer de Tibériade (Cf. Jn 21, 4-12). Il est encore plus important de s’en remettre à la certitude que les braises de sa présence, allumées au feu de la passion, nous précèdent et ne s’éteignent jamais. Lorsque cette certitude fait défaut, on risque de devenir des amateurs de cendre et non des gardiens et des dispensateurs de la vraie lumière ainsi que de cette chaleur capable de réchauffer le coeur (Lc 24, 32)
Avant de conclure ces réflexions, permettez-moi de vous faire encore deux recommandations qui me tiennent à coeur. La première se réfère à votre paternité épiscopale. Soyez des pasteurs proches de vos gens, des pasteurs proches et des serviteurs. Que cette proximité s’exprime de façon particulière envers vos prêtres. Accompagnez-les afin qu’ils continuent à servir le Christ d’un coeur sans partage, puisque seule la plénitude comble les ministres du Christ. Je vous en prie, donc, ne les laissez pas se contenter de demi-mesures. Prenez soin de leurs sources spirituelles afin qu’ils ne tombent pas dans la tentation des notaires et des bureaucrates, mais qu’ils soient l’expression de la maternité de l’Église qui engendre et fait grandir ses enfants. Veillez à ce qu’ils ne se fatiguent pas de se lever pour répondre à celui qui frappe à la porte, durant la nuit, même quand on pense avoir déjà droit au repos (Lc 11, 5-8). Entraînez-les pour qu’ils soient prêts à s’arrêter, à se pencher, à verser du baume, à prendre en charge et à se dévouer en faveur de celui qui, “par hasard”, s’est trouvé dépouillé de tout ce qu’il croyait posséder (Lc 10, 29-37).
Ma seconde recommandation se réfère aux immigrés. Je présente des excuses si de quelque façon, je défends presque ma propre cause. L’Église des États-Unis connaît comme peu d’autres les espérances des coeurs des pèlerins. Depuis toujours, vous avez appris leur langue, soutenu leur cause, intégré leurs contributions, défendu leurs droits, promu leur recherche de prospérité, conservé allumée la flamme de leur foi. Encore à présent, aucune institution américaine ne fait davantage pour les immigrés que vos communautés chrétiennes. Maintenant, vous avez cette longue vague d’immigration latine qui investit beaucoup de vos diocèses.
Non seulement comme Évêque de Rome, mais aussi comme pasteur venu du Sud, je sens le besoin de vous remercier et de vous encourager. Il ne sera peut-être pas facile pour vous de lire leur âme, peut-être serez-vous mis au défi par leur diversité. Sachez, toutefois, qu’ils possèdent aussi des ressources à partager. Accueillez-les donc sans peur. Offrez-leur la chaleur de l’amour du Christ et déchiffrez le mystère de leur coeur. Je suis certain que, encore une fois, ces gens enrichiront l’Amérique et son Église.
Que Dieu vous bénisse et que la Vierge Marie vous garde !
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1 Quand j’étais jeune, / j’avais des ailes fortes et infatigables, / mais je ne connaissais pas les montagnes. / Quand je devins vieux, / je connus les montagnes, / mais les ailes fatiguées ne furent plus en mesure de soutenir la vision. / Le génie est sagesse et jeunesse (Edgard Lee Masters, Anthologie de Spoon River).
Discorso del Santo Padre
Carissimi fratelli nell’Episcopato, (prima di tutto vorrei inviare un saluto alla comunità ebrea che oggi celebra la festa dello Yom Kippur. Il Signore li benedica e li faccia procedere sulla via della santità, secondo la parola che oggi abbiamo udito: "Siate santi perchè io sono santo")
sono lieto di incontrarvi in questo momento della missione apostolica che mi ha condotto nel vostro Paese. Ringrazio vivamente il Cardinale Wuerl e l’Arcivescovo Kurtz per le gentili parole che mi hanno rivolto anche a nome di tutti voi. Ricevete per favore la mia gratitudine per l’accoglienza e per la generosa disponibilità con la quale il mio soggiorno è stato programmato e organizzato.
Nell’abbracciare con lo sguardo e con il cuore i vostri volti di Pastori, vorrei abbracciare anche le Chiese che amorosamente portate sulle spalle; e vi prego di assicurare che la mia vicinanza umana e spirituale raggiunge, per mezzo di voi, l’intero Popolo di Dio disseminato su questa vasta terra.
Il cuore del Papa si dilata per includere tutti. Allargare il cuore per testimoniare che Dio è grande nel suo amore è la sostanza della missione del Successore di Pietro, Vicario di Colui che sulla croce ha abbracciato l’intera umanità. Che nessun membro del Corpo di Cristo e della nazione americana si senta escluso dall’abbraccio del Papa. Ovunque affiori sulle labbra il nome di Gesù, lì risuoni pure la voce del Papa per assicurare: “E’ il Salvatore!”. Dalle vostre grandi metropoli della costa orientale alle pianure del midwest, dal profondo sud allo sconfinato ovest, dovunque la vostra gente si raccoglie nell’assemblea eucaristica, il Papa non sia un mero nome abitudinariamente pronunciato, ma una tangibile compagnia volta a sostenere la voce che si eleva dal cuore della Sposa: “Vieni Signore!”.
Quando una mano si tende per compiere il bene o portare al fratello la carità di Cristo, per asciugare una lacrima o fare compagnia ad una solitudine, per indicare la strada ad uno smarrito o risollevare un cuore ormai infranto, per chinarsi su uno che è caduto o insegnare a chi è assetato di verità, per offrire il perdono o guidare ad un nuovo inizio in Dio... sappiate che il Papa vi accompagna e vi sostiene, poggia anch’Egli sulla vostra la sua mano ormai vecchia e rugosa ma, per grazia di Dio, ancora capace di sostenere e di incoraggiare.
La mia prima parola è di rendimento di grazie a Dio per il dinamismo del Vangelo che ha consentito la notevole crescita della Chiesa di Cristo in queste terre, e ha permesso il generoso contributo che essa ha offerto e continua ad offrire alla società statunitense e al mondo. Apprezzo vivamente e ringrazio commosso per la vostra generosità e solidarietà verso la Sede Apostolica e verso l’evangelizzazione in tante sofferte parti del mondo. Sono lieto per l’indomito impegno della vostra Chiesa per la causa della vita e della famiglia, motivo preminente di questa mia visita. Seguo con attenzione lo sforzo ingente di accoglienza e di integrazione degli immigrati che continuano a guardare all’America con lo sguardo dei pellegrini che qui approdarono alla ricerca delle sue promettenti risorse di libertà e prosperità. Ammiro il lavoro con cui portate avanti la missione educativa nelle vostre scuole a tutti i livelli e l’opera caritativa nelle vostre numerose istituzioni. Sono attività condotte spesso senza che si comprenda il loro valore e senza appoggio e, in ogni caso, eroicamente mantenute con l’obolo dei poveri, perché tali iniziative scaturiscono da un mandato soprannaturale al quale non è lecito disobbedire. Sono consapevole del coraggio con cui avete affrontato momenti oscuri del vostro percorso ecclesiale senza temere autocritiche né risparmiare umiliazioni e sacrifici, senza cedere alla paura di spogliarsi di quanto è secondario pur di riacquistare l’autorevolezza e la fiducia richiesta ai Ministri di Cristo, come desidera l’anima del vostro popolo. So quanto ha pesato in voi la ferita degli ultimi anni, e ho accompagnato il vostro generoso impegno per guarire le vittime, consapevole che nel guarire siamo pur sempre guariti, e per continuare a operare affinché tali crimini non si ripetano mai più.
Vi parlo come Vescovo di Roma, già nella vecchiaia chiamato da Dio da una terra anch’essa americana, per custodire l’unità della Chiesa Universale e per incoraggiare nella carità il percorso di tutte le Chiese particolari, perché progrediscano nella conoscenza, nella fede e nell’amore di Cristo. Leggendo i vostri nomi e cognomi, osservando i vostri volti, conoscendo la misura alta della vostra consapevolezza ecclesiale e sapendo della devozione che avete sempre riservato al Successore di Pietro, devo dirvi che non mi sento tra voi un forestiero. Provengo, infatti, da una terra anch’essa vasta, sconfinata e non di rado informe che, come la vostra, ha ricevuto la fede dal bagaglio dei missionari. Ben conosco la sfida di seminare il Vangelo nel cuore di uomini provenienti da mondi diversi, spesso induriti dall’aspro cammino percorso prima di approdare. Non mi è estranea la storia della fatica di impiantare la Chiesa tra pianure, montagne, città e suburbi di un territorio spesso inospitale, dove le frontiere sono sempre provvisorie, le risposte ovvie non durano e la chiave d’ingresso richiede di saper coniugare lo sforzo epico dei pionieri esploratori con la prosaica saggezza e resistenza dei sedentari che presidiano lo spazio raggiunto. Come ha cantato un vostro poeta: “ali forti ed instancabili”, ma anche la saggezza di chi “conosce le montagne”1.
Non vi parlo da solo. La mia voce si pone in continuità con quanto i miei Predecessori vi hanno donato. Infatti, sin dagli albori della “nazione americana”, quando all’indomani della rivoluzione venne eretta la prima diocesi a Baltimora, la Chiesa di Roma vi è sempre stata vicina e non vi è mai mancata la sua costante assistenza ed il suo incoraggiamento. Negli ultimi decenni, tre dei miei venerati Predecessori vi hanno fatto visita, consegnandovi un notevole patrimonio d’insegnamento tuttora attuale, di cui avete fatto tesoro per orientare i lungimiranti programmi pastorali con cui guidare quest’amata Chiesa.
Non è mia intenzione tracciare un programma o delineare una strategia. Non sono venuto per giudicarvi o per impartirvi lezioni. Confido pienamente nella voce di Colui che “insegna ogni cosa” (cfr Gv 14,26). Consentitemi soltanto, con la libertà dell’amore, di poter parlare come un fratello tra fratelli. Non mi sta a cuore dirvi cosa fare, perché sappiamo tutti quanto ci chiede il Signore. Preferisco piuttosto ritornare ancora su quella fatica - antica e sempre nuova - di domandarsi circa le strade da percorrere, sui sentimenti da conservare mentre si opera, sullo spirito con cui agire. Senza la pretesa di essere esaustivo, condivido con voi alcune riflessioni che ritengo opportune per la nostra missione.
Siamo Vescovi della Chiesa, Pastori costituiti da Dio per pascere il suo gregge. La nostra gioia più grande è essere Pastori, nient’altro che Pastori, dal cuore indiviso ed una irreversibile consegna di sé. Bisogna custodire questa gioia senza lasciare che ce la rubino. Il maligno ruggisce come leone cercando di divorarla, rovinando così quanto siamo chiamati ad essere non per noi stessi, ma per dono e al servizio del “Pastore delle nostre anime” (1 Pt 2,25).
L’essenza della nostra identità va cercata nell’assiduo pregare, nel predicare (cfr At 6,4) e nel pascere (cfr Gv 21,15-17; At 20,28-31).
Non una preghiera qualsiasi, ma l’unione famigliare con Cristo, dove incrociare quotidianamente il suo sguardo per sentire rivolta a noi la sua domanda: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mc 3,32). E potergli serenamente rispondere: “Signore, ecco tua madre, ecco i tuoi fratelli! Te li consegno, sono quelli che Tu mi hai affidato”. Di una tale confidenza con Cristo si nutre la vita del Pastore.
Non una predicazione di complesse dottrine, ma l’annuncio gioioso di Cristo, morto e risorto per noi. Lo stile della nostra missione susciti in quanti ci ascoltano l’esperienza del “per noi” di quest’annuncio: la Parola doni senso e pienezza ad ogni frammento della loro vita, i Sacramenti li nutrano di quel cibo che non possono procurarsi, la vicinanza del Pastore risvegli in loro la nostalgia dell’abbraccio del Padre. Vegliate perché il gregge incontri sempre nel cuore del Pastore quella riserva di eternità che con affanno si cerca invano nelle cose del mondo. Trovino sempre sulle vostre labbra l’apprezzamento per la capacità di fare e costruire nella libertà e nella giustizia la prosperità di cui è prodiga questa terra. Non manchi però il sereno coraggio di confessare che bisogna procurarsi «non il cibo che perisce ma quello che dura per la vita eterna” (Gv 6,27).
Non pascere sé stessi ma saper arretrare, abbassarsi, decentrarsi, per nutrire di Cristo la famiglia di Dio. Vegliare senza sosta, ergendosi alti per raggiungere con lo sguardo di Dio il gregge che solo a Lui appartiene. Elevarsi all’altezza della Croce del suo Figlio, il solo punto di vista che apre al Pastore il cuore del suo gregge.
Non guardare verso il basso nella propria autoreferenzialità, ma sempre verso gli orizzonti di Dio, che oltrepassano quanto noi siamo capaci di prevedere o pianificare. Vegliare pure su noi stessi, per sfuggire alla tentazione del narcisismo, che acceca gli occhi del Pastore, rende la sua voce irriconoscibile e il suo gesto sterile. Nelle molteplici strade che si aprono alla vostra sollecitudine pastorale, ricordate di conservare indelebile il nucleo che unifica tutte le cose: «l’avete fatto a me» (Mt 25,31-45).
Senz’altro è utile al Vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti. Al Vescovo è necessaria la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo. Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di sé stessi (Fil 2,1-11).
Non ci è estranea l’angoscia dei primi Undici, chiusi tra i loro muri, assediati e sgomenti, abitati dallo spavento delle pecore disperse perché il Pastore era stato colpito. Ma sappiamo che ci è stato donato uno spirito di coraggio e non di timidezza. Pertanto non ci è lecito lasciarci paralizzare dalla paura.
So bene che numerose sono le vostre sfide, che è spesso ostile il campo nel quale seminate, e non poche sono le tentazioni di chiudersi nel recinto delle paure, a leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna e preparando risposte dure alle già aspre resistenze.
E, tuttavia, siamo fautori della cultura dell’incontro. Siamo sacramenti viventi dell’abbraccio tra la ricchezza divina e la nostra povertà. Siamo testimoni dell’abbassamento e della condiscendenza di Dio che precede nell’amore anche la nostra primigenia risposta.
Il dialogo è il nostro metodo, non per astuta strategia, ma per fedeltà a Colui che non si stanca mai di passare e ripassare nelle piazze degli uomini fino all’undicesima ora per proporre il suo invito d’amore (Mt 20,1-16).
La via è pertanto il dialogo tra di voi, dialogo nei vostri Presbiteri, dialogo con i laici, dialogo con le famiglie, dialogo con la società. Non mi stancherei di incoraggiarvi a dialogare senza paura. Tanto più è ricco il patrimonio, che con parresia avete da condividere, tanto più sia eloquente l’umiltà con la quale lo dovete offrire. Non abbiate paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro né capire fino in fondo che il fratello da raggiungere e riscattare, con la forza e la prossimità dell’amore, conta più di quanto contano le posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del Pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente.
Bisogna lasciare che perennemente risuoni nel nostro cuore la parola del Signore: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28-30). Il giogo di Gesù è giogo d’amore e perciò è garanzia di ristoro. Alle volte ci pesa la solitudine delle nostre fatiche, e siamo talmente carichi del giogo che non ricordiamo più di averlo ricevuto dal Signore. Ci sembra solo nostro e quindi ci trasciniamo come buoi stanchi nel campo arido, minacciati dalla sensazione di aver lavorato invano, dimentichi della pienezza del ristoro collegata indissolubilmente a Colui che ci ha fatto la promessa.
Imparare da Gesù; meglio ancora, imparare Gesù, mite e umile; entrare nella sua mitezza e nella sua umiltà mediante la contemplazione del suo agire. Introdurre le nostre Chiese e il nostro popolo, non di rado schiacciato dalla dura ansia di prestazione, alla soavità del giogo del Signore. Ricordare che l’identità della Chiesa di Gesù è assicurata non dal “fuoco dal cielo che consuma” (Lc 9,54), ma dal segreto calore dello Spirito che “sana ciò che sanguina, piega ciò che è rigido, drizza ciò che è sviato”.
La grande missione che il Signore ci affida, noi la svolgiamo in comunione, in modo collegiale. È già tanto dilaniato e diviso il mondo! La frammentazione è ormai di casa ovunque.
Perciò, la Chiesa, “tunica inconsutile del Signore” non può lasciarsi dividere, frazionare o contendere.
La nostra missione episcopale è primariamente cementare l’unità, il cui contenuto è determinato dalla Parola di Dio e dall’unico Pane del Cielo, con cui ognuna delle Chiese a noi affidate resta Cattolica, perché aperta e in comunione con tutte le Chiese Particolari e con quella di Roma che “presiede nella carità”. È un imperativo, pertanto, vegliare per tale unità, custodirla, favorirla, testimoniarla come segno e strumento che, di là di ogni barriera, unisce nazioni, razze, classi, generazioni.
L’imminente Anno Santo della Misericordia, introducendoci nella profondità inesauribile del cuore divino, nel quale non abita alcuna divisione, sia per tutti occasione privilegiata per rafforzare la comunione, perfezionare l’unità, riconciliare le differenze, perdonarsi a vicenda e superare ogni divisione, così che risplenda la vostra luce come “la città costruita sul monte” (Mt 5,14).
Tale servizio all’unità è particolarmente importante per la vostra amata Nazione, le cui vastissime risorse materiali e spirituali, culturali e politiche, storiche e umane, scientifiche e tecnologiche impongono responsabilità morali non indifferenti in un mondo frastornato e faticosamente alla ricerca di nuovi equilibri di pace, prosperità ed integrazione. È, pertanto, parte essenziale della vostra missione offrire agli Stati Uniti d’America l’umile e potente lievito della comunione. Sappia l’umanità che l’essere abitata dal “sacramento di unità” (Lumen gentium, 1) è garanzia che il suo destino non è l’abbandono e la disgregazione.
Tale testimonianza è un faro che non può spegnersi. Infatti, nel denso buio della vita, gli uomini hanno bisogno di lasciarsi guidare dalla sua luce, per essere certi del porto che li aspetta, sicuri che le loro barche non si schianteranno sugli scogli né saranno in balia delle onde. Perciò vi incoraggio ad affrontare le sfide del nostro tempo. Nel fondo di ciascuna di esse sta sempre la vita come dono e responsabilità. Il futuro della libertà e della dignità delle nostre società dipende dal modo in cui sapremo rispondere a tali sfide.
Le vittime innocenti dell’aborto, i bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, gli immigrati che annegano alla ricerca di un domani, gli anziani o i malati dei quali si vorrebbe far a meno, le vittime del terrorismo, delle guerre, della violenza e del narcotraffico, l’ambiente devastato da una predatoria relazione dell’uomo con la natura, in tutto ciò è sempre in gioco il dono di Dio, del quale siamo amministratori nobili, ma non padroni. Non è lecito pertanto evadere da tali questioni o metterle a tacere. Di non minore importanza è l’annuncio del Vangelo della famiglia che, nell’imminente Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia, avrò modo di proclamare con forza insieme a voi e a tutta la Chiesa.
Questi aspetti irrinunciabili della missione della Chiesa appartengono al nucleo di quanto ci è stato trasmesso dal Signore. Abbiamo perciò il dovere di custodirli e comunicarli, anche quando la mentalità del tempo si rende impermeabile e ostile a tale messaggio (Evangelii gaudium, 34-39). Vi incoraggio ad offrire, con gli strumenti e la creatività dell’amore e con l’umiltà della verità, tale testimonianza. Essa ha bisogno non soltanto di proclami e annunci esterni, ma anche di conquistare spazio nel cuore degli uomini e nella coscienza della società.
A questo fine, è molto importante che la Chiesa negli Stati Uniti sia anche un focolare umile che attira gli uomini mediante il fascino della luce e il calore dell’amore. Come Pastori ben conosciamo il buio e il freddo che ancora c’è in questo mondo, la solitudine e l’abbandono di tanti – anche dove abbondano le risorse comunicative e le ricchezze materiali –, la paura di fronte alla vita, le disperazioni e le molteplici fughe.
Perciò, solo una Chiesa che sa radunare attorno al “fuoco” resta capace di attirare. Non certo un fuoco qualsiasi, ma quello che si è acceso al mattino di Pasqua. È il Signore risorto che continua a interpellare i Pastori della Chiesa attraverso la voce timida di tanti fratelli: “Avete qualcosa da mangiare”? Si tratta di riconoscere la sua voce, come fecero gli Apostoli sulla riva del mare di Tiberiade (cfr Gv 21,4-12). Ed è ancora più decisivo consegnarsi alla certezza che le braci della sua presenza, accese al fuoco della passione, ci precedono e non si spengono mai. Venendo meno tale certezza, si rischia di diventare cultori di cenere e non custodi e dispensatori della vera luce e di quel calore che è capace di riscaldare il cuore (cfr Lc 24, 32).
Prima di concludere queste riflessioni, consentitemi ancora di farvi due raccomandazioni che mi stanno a cuore. La prima si riferisce alla vostra paternità episcopale. Siate Pastori vicini alla gente, Pastori prossimi e servitori. Questa vicinanza si esprima in modo speciale verso i vostri sacerdoti. Accompagnateli affinché continuino a servire Cristo con cuore indiviso, perché solo la pienezza riempie i ministri di Cristo. Vi prego, pertanto, non lasciate che si accontentino delle mezze misure. Curate le loro sorgenti spirituali affinché non cadano nella tentazione di diventare notai e burocrati, ma siano espressione della maternità della Chiesa che genera e fa crescere i suoi figli. Vegliate affinché non si stanchino di alzarsi per rispondere a chi bussa nella notte, anche quando già si pensa di aver diritto al riposo (cfr Lc 11,5-8). Allenateli affinché siano pronti a fermarsi, chinarsi, versare balsamo, farsi carico e spendersi in favore di chi, “per caso”, si è trovato spogliato di quanto credeva di possedere (cfr Lc 10,29-37).
La mia seconda raccomandazione si riferisce agli immigrati. Chiedo scusa se in qualche modo parlo quasi “in causa propria”. La Chiesa statunitense conosce come poche le speranze dei cuori dei migranti. Da sempre avete imparato la loro lingua, sostenuto la loro causa, integrato i loro contributi, difeso i loro diritti, promosso la loro ricerca di prosperità, conservato accesa la fiamma della loro fede. Anche adesso nessuna istituzione americana fa di più per gli immigrati che le vostre comunità cristiane. Ora avete questa lunga ondata d’immigrazione latina che investe tante delle vostre diocesi. Non soltanto come Vescovo di Roma, ma anche come Pastore venuto dal sud, sento il bisogno di ringraziarvi e di incoraggiarvi. Forse non sarà facile per voi leggere la loro anima; forse sarete messi alla prova dalla loro diversità. Sappiate, comunque, che possiedono anche risorse da condividere. Perciò accoglieteli senza paura. Offrite loro il calore dell’amore di Cristo e decifrerete il mistero del loro cuore. Sono certo che, ancora una volta, questa gente arricchirà l’America e la sua Chiesa.
Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca!
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1 Quando ero giovane, / avevo ali forti e instancabili, / ma non conoscevo le montagne. / Quando fui vecchio, / conobbi le montagne, / ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione. / Il genio è saggezza e gioventù (Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River).
Spagnolo
Queridos Hermanos en el Episcopado:
Me alegra tener este encuentro con ustedes en este momento de la misión apostólica que me ha traído a su País. Agradezco de corazón al Cardenal Wuerl y al Arzobispo Kurtz las amables palabras que me han dirigido en nombre de todos. Muchas gracias por su acogida y por la generosa solicitud con que han programado y organizado mi estancia entre ustedes.
Viendo con los ojos y con el corazón sus rostros de Pastores, quisiera saludar también a las Iglesias que amorosamente llevan sobre sus hombros; y les ruego encarecidamente que, por medio de ustedes, mi cercanía humana y espiritual llegue a todo el Pueblo de Dios diseminado en esta vasta tierra.
El corazón del Papa se dilata para incluir a todos. Ensanchar el corazón para dar testimonio de que Dios es grande en su amor es la sustancia de la misión del Sucesor de Pedro, Vicario de Aquel que en la cruz extendió los brazos para acoger a toda la humanidad. Que ningún miembro del Cuerpo de Cristo y de la nación americana se sienta excluido del abrazo del Papa. Que, donde se pronuncie el nombre de Jesús, resuene también la voz del Papa para confirmar: «¡Es el Salvador!». Desde sus grandes metrópolis de la costa oriental hasta las llanuras del midwest, desde el profundo sur hasta el ilimitado oeste, en cualquier lugar donde su pueblo se reúna en asamblea eucarística, que el Papa no sea un nombre que se repite por fuerza de la costumbre, sino una compañía tangible destinada a sostener la voz que sale del corazón de la Esposa: «¡Ven, Señor!».
Cuando echan una mano para realizar el bien o llevar al hermano la caridad de Cristo, para enjugar una lágrima o acompañar a quien está solo, para indicar el camino a quien se siente perdido o para fortalecer a quien tiene el corazón destrozado, para socorrer a quien ha caído o enseñar a quien tiene sed de verdad, para perdonar o llevar a un nuevo encuentro con Dios… sepan que el Papa los acompaña y los ayuda, pone también él su mano –vieja y arrugada pero, gracias a Dios, capaz todavía de apoyar y animar– junto a las suyas.
Mi primera palabra es de agradecimiento a Dios por el dinamismo del Evangelio que ha hecho que la Iglesia de Cristo crezca con fuerza en estas tierras y le ha permitido ofrecer su aportación generosa, en el pasado y en la actualidad, a la sociedad estadounidense y al mundo. Aprecio vivamente y agradezco conmovido su generosidad y solidaridad con la Sede Apostólica y con la evangelización en tantas sufridas partes del mundo. Me alegro del firme compromiso de su Iglesia a favor de la vida y de la familia, motivo principal de mi visita. Sigo con atención el enorme esfuerzo que realizan para acoger e integrar a los inmigrantes que siguen llegando a Estados Unidos con la mirada de los peregrinos que se embarcan en busca de sus prometedores recursos de libertad y prosperidad. Admiro los esfuerzos que dedican a la misión educativa en sus escuelas a todos los niveles y a la caridad en sus numerosas instituciones. Son actividades llevadas a cabo muchas veces sin que se reconozca su valor y sin apoyo y, en todo caso, heroicamente sostenidas con la aportación de los pobres, porque esas iniciativas brotan de un mandato sobrenatural que no es lícito desobedecer. Conozco bien la valentía con que han afrontado momentos oscuros en su itinerario eclesial sin temer a la autocrítica ni evitar humillaciones y sacrificios, sin ceder al miedo de despojarse de cuanto es secundario con tal de recobrar la credibilidad y la confianza propia de los Ministros de Cristo, como desea el alma de su pueblo. Sé cuánto les ha hecho sufrir la herida de los últimos años, y he seguido de cerca su generoso esfuerzo por curar a las víctimas, consciente de que, cuando curamos, también somos curados, y por seguir trabajando para que esos crímenes no se repitan nunca más.
Les hablo como Obispo de Roma, llamado por Dios –siendo ya mayor– desde una tierra también americana, para custodiar la unidad de la Iglesia universal y para animar en la caridad el camino de todas las Iglesias particulares, para que progresen en el conocimiento, en la fe y en el amor a Cristo. Leyendo sus nombres y apellidos, viendo sus rostros, consciente de su alto sentido de la responsabilidad eclesial y de la devoción que han profesado siempre al Sucesor de Pedro, tengo que decirles que no me siento forastero entre ustedes. También yo vengo de una tierra vasta, inmensa y no pocas veces informe, que como la de ustedes, ha recibido la fe del bagaje de los misioneros. Conozco bien el reto de sembrar el Evangelio en el corazón de hombres procedentes de mundos diversos, a menudo endurecidos por el arduo camino recorrido antes de llegar. No me es ajeno el cansancio de establecer la Iglesia entre llanuras, montañas, ciudades y suburbios de un territorio a menudo inhóspito, en el que las fronteras siempre son provisionales, las respuestas obvias no perduran y la llave de entrada requiere conjugar el esfuerzo épico de los pioneros exploradores con la sabiduría prosaica y la resistencia de los sedentarios que controlan el territorio alcanzado. Como cantaba uno de sus poetas: «Alas fuertes e incansables», pero también la sabiduría de quien «conoce las montañas»1
No les hablo sólo yo. Mi voz está en continuidad con la de mis Predecesores. Desde los albores de la «nación americana», cuando apenas acabada la revolución fue erigida la primera diócesis en Baltimore, la Iglesia de Roma los ha acompañado y nunca les ha faltado su contante asistencia y su aliento. En los últimos decenios, tres de mis venerados Predecesores les han visitado, entregándoles un notable patrimonio de magisterio todavía actual, que ustedes han utilizado para orientar programas pastorales con visión de futuro, para guiar a esta querida Iglesia.
No es mi intención trazar un programa o delinear una estrategia. No he venido para juzgarles o para impartir lecciones. Confío plenamente en la voz de Aquel que «enseña todas las cosas» (cf. Jn 14,26). Permítanme tan sólo, con la libertad del amor, que les hable como un hermano entre hermanos. No pretendo decirles lo que hay que hacer, porque todos sabemos lo que el Señor nos pide. Prefiero más bien realizar de nuevo ese esfuerzo –antiguo y siempre nuevo– de preguntarnos por los caminos a seguir, los sentimientos que hemos de conservar mientras trabajamos, el espíritu con que tenemos que actuar. Sin ánimo de ser exhaustivo, comparto con ustedes algunas reflexiones que considero oportunas para nuestra misión.
Somos obispos de la Iglesia, pastores constituidos por Dios para apacentar su grey. Nuestra mayor alegría es ser pastores, y nada más que pastores, con un corazón indiviso y una entrega personal irreversible. Es preciso custodiar esta alegría sin dejar que nos la roben. El maligno ruge como un león tratando de devorarla, arruinando todo lo que estamos llamados a ser, no por nosotros mismos, sino por el don y al servicio del «Pastor y guardián de nuestras almas» (1 P 2,25).
La esencia de nuestra identidad se ha de buscar en la oración asidua, en la predicación (cf. Hch 6,4) y el apacentar (cf. Jn 21,15-17; Hch 20,28-31).
No una oración cualquiera, sino la unión familiar con Cristo, donde poder encontrar cotidianamente su mirada y escuchar la pregunta que nos dirige a todos: «¿Quién es mi madre y quiénes son mis hermanos?» (Mc 3,32). Y poderle responder serenamente: «Señor, aquí está tu madre, aquí están tus hermanos. Te los encomiendo, son aquellos que tú me has confiado». La vida del pastor se alimenta de esa intimidad con Cristo.
No una predicación de doctrinas complejas, sino el anuncio gozoso de Cristo, muerto y resucitado por nosotros. Que el estilo de nuestra misión suscite en cuantos nos escuchan la experiencia del «por nosotros» de este anuncio: que la Palabra dé sentido y plenitud a cada fragmento de su vida, que los sacramentos los alimenten con ese sustento que no se pueden proporcionar a sí mismos, que la cercanía del Pastor despierte en ellos la nostalgia del abrazo del Padre. Estén atentos a que la grey encuentre siempre en el corazón del Pastor esa reserva de eternidad que ansiosamente se busca en vano en las cosas del mundo. Que encuentren siempre en sus labios el reconocimiento de su capacidad de hacer y construir, en la libertad y la justicia, la prosperidad de la que esta tierra es pródiga. Pero que no falte sereno valor de confesar que es necesario buscar no «el alimento que perece, sino el que perdura para la vida eterna» (Jn 6,27).
No apacentarse a sí mismos, sino saber retroceder, abajarse, descentrarse, para alimentar con Cristo a la familia de Dios. Vigilar sin descanso, elevándose para abarcar con la mirada de Dios a la grey que sólo a él pertenece. Elevarse hasta la altura de la Cruz de su Hijo, el único punto de vista que abre al pastor el corazón de su rebaño.
No mirar hacia abajo, a la propia autoreferencialidad, sino siempre hacia el horizonte de Dios, que va más allá de lo que somos capaces de prever o planificar. Vigilar también sobre nosotros mismos, para alejar la tentación del narcisismo, que ciega los ojos del pastor, hace irreconocible su voz y su gesto estéril. En las muchas posibilidades que se abren en su solicitud pastoral, no olviden mantener indeleble el núcleo que unifica todas las cosas: «Lo hicieron conmigo» (Mt 25,31.45).
Ciertamente es útil al obispo tener la prudencia del líder y la astucia del administrador, pero nos perdemos inexorablemente cuando confundimos el poder de la fuerza con la fuerza de la impotencia, a través de la cual Dios nos ha redimido. Es necesario que el obispo perciba lúcidamente la batalla entre la luz y la oscuridad que se combate en este mundo. Pero, ay de nosotros si convertimos la cruz en bandera de luchas mundanas, olvidando que la condición de la victoria duradera es dejarse despojarse y vaciarse de sí mismo (cf. Flp 2,1-11).
No nos resulta ajena la angustia de los primeros Once, encerrados entre cuatro paredes, asediados y consternados, llenos del pavor de las ovejas dispersas porque el pastor ha sido abatido. Pero sabemos que se nos ha dado un espíritu de valentía y no de timidez. Por tanto, no es lícito dejarnos paralizar por el miedo.
Sé bien que tienen muchos desafíos, que a menudo es hostil el campo donde siembran y no son pocas las tentaciones de encerrarse en el recinto de los temores, a lamerse las propias heridas, llorando por un tiempo que no volverá y preparando respuestas duras a las resistencias ya de por sí ásperas.
Y, sin embargo, somos artífices de la cultura del encuentro. Somos sacramento viviente del abrazo entre la riqueza divina y nuestra pobreza. Somos testigos del abajamiento y la condescendencia de Dios, que precede en el amor incluso nuestra primera respuesta.
El diálogo es nuestro método, no por astuta estrategia sino por fidelidad a Aquel que nunca se cansa de pasar una y otra vez por las plazas de los hombres hasta la undécima hora para proponer su amorosa invitación (cf. Mt 20,1-16).
Por tanto, la vía es el diálogo entre ustedes, diálogo en sus Presbiterios, diálogo con los laicos, diálogo con las familias, diálogo con la sociedad. No me cansaré de animarlos a dialogar sin miedo. Cuanto más rico sea el patrimonio que tienen que compartir con parresía, tanto más elocuente ha de ser la humildad con que lo tienen que ofrecer. No tengan miedo de emprender el éxodo necesario en todo diálogo auténtico. De lo contrario no se puede entender las razones de los demás, ni comprender plenamente que el hermano al que llegar y rescatar, con la fuerza y la cercanía del amor, cuenta más que las posiciones que consideramos lejanas de nuestras certezas, aunque sean auténticas. El lenguaje duro y belicoso de la división no es propio del Pastor, no tiene derecho de ciudadanía en su corazón y, aunque parezca por un momento asegurar una hegemonía aparente, sólo el atractivo duradero de la bondad y del amor es realmente convincente.
Es preciso dejar que resuene perennemente en nuestro corazón la palabra del Señor: «Tomen mi yugo sobre ustedes y aprendan de mí, que soy manso y humilde de corazón, y encontrarán descanso para sus almas» (Mt 11,28-29). El yugo de Jesús es yugo de amor y, por tanto, garantía de descanso. A veces nos pesa la soledad de nuestras fatigas, y estamos tan cargados del yugo que ya no nos acordamos de haberlo recibido del Señor. Nos parece solamente nuestro y, por tanto, nos arrastramos como bueyes cansados en el campo árido, abrumados por la sensación de haber trabajado en vano, olvidando la plenitud del descanso vinculado indisolublemente a Aquel que hizo la promesa.
Aprender de Jesús; mejor aún, aprender a ser como Jesús, manso y humilde; entrar en su mansedumbre y su humildad mediante la contemplación de su obrar. Poner nuestras iglesias y nuestros pueblos, a menudo aplastados por la dura pretensión del rendimiento bajo el suave yugo del Señor. Recordar que la identidad de la Iglesia de Jesús no está garantizada por el «fuego del cielo que consume» (cf. Lc 9,54), sino por el secreto calor del Espíritu que «sana lo que sangra, dobla lo que es rígido, endereza lo que está torcido».
La gran misión que el Señor nos confía, la llevamos a cabo en comunión, de modo colegial. ¡Está ya tan desgarrado y dividido el mundo! La fragmentación es ya de casa en todas partes. Por eso, la Iglesia, «túnica inconsútil del Señor», no puede dejarse dividir, fragmentar o enfrentarse.
Nuestra misión episcopal consiste en primer lugar en cimentar la unidad, cuyo contenido está determinado por la Palabra de Dios y por el único Pan del Cielo, con el que cada una de las Iglesias que se nos ha confiado permanece Católica, porque está abierta y en comunión con todas las Iglesias particulares y con la de Roma, que «preside en la caridad». Es imperativo, por tanto, cuidar dicha unidad, custodiarla, favorecerla, testimoniarla como signo e instrumento que, más allá de cualquier barrera, une naciones, razas, clases, generaciones.
Que el inminente Año Santo de la Misericordia, al introducirnos en las profundidades inagotables del corazón divino, en el que no hay división alguna, sea para todos una ocasión privilegiada para reforzar la comunión, perfeccionar la unidad, reconciliar las diferencias, perdonarnos unos a otros y superar toda división, de modo que alumbre su luz como «la ciudad puesta en lo alto de un monte» (Mt 5,14).
Este servicio a la unidad es particularmente importante para su amada nación, cuyos vastísimos recursos materiales y espirituales, culturales y políticos, históricos y humanos, científicos y tecnológicos requieren responsabilidades morales no indiferentes en un mundo abrumado y que busca con afán nuevos equilibrios de paz, prosperidad e integración. Por tanto, una parte esencial de su misión es ofrecer a los Estados Unidos de América la levadura humilde y poderosa de la comunión. Que la humanidad sepa que contar con el «sacramento de unidad» (Lumen gentium, 1) es garantía de que su destino no es el abandono y la disgregación.
Este testimonio es un faro que no se puede apagar. En efecto, en la densa oscuridad de la vida, los hombres necesitan dejarse guiar por su luz, para tener la certidumbre del puerto al que acudir, seguros de que sus barcas no se estrellarán en los escollos ni quedarán a merced de las olas. Así que les animo a hacer frente a los desafíos de nuestro tiempo. En el fondo de cada uno de ellos está siempre la vida como don y responsabilidad. El futuro de la libertad y la dignidad de nuestra sociedad dependen del modo en que sepamos responder a estos desafíos.
Las víctimas inocentes del aborto, los niños que mueren de hambre o bajo las bombas, los inmigrantes se ahogan en busca de un mañana, los ancianos o los enfermos, de los que se quiere prescindir, las víctimas del terrorismo, de las guerras, de la violencia y del tráfico de drogas, el medio ambiente devastado por una relación predatoria del hombre con la naturaleza, en todo esto está siempre en juego el don de Dios, del que somos administradores nobles, pero no amos. No es lícito por tanto eludir dichas cuestiones o silenciarlas. No menos importante es el anuncio del Evangelio de la familia que, en el próximo Encuentro Mundial de las Familias en Filadelfia, tendré ocasión de proclamar con fuerza junto a ustedes y a toda la Iglesia.
Estos aspectos irrenunciables de la misión de la Iglesia pertenecen al núcleo de lo que nos ha sido transmitido por el Señor. Por eso tenemos el deber de custodiarlos y comunicarlos, aun cuando la mentalidad del tiempo se hace impermeable y hostil a este mensaje (Evangelii gaudium, 34-39). Los animo a ofrecer este testimonio con los medios y la creatividad del amor y la humildad de la verdad. Esto no sólo requiere proclamas y anuncios externos, sino también conquistar espacio en el corazón de los hombres y en la conciencia de la sociedad.
Para ello, es muy importante que la Iglesia en los Estados Unidos sea también un hogar humilde que atraiga a los hombres por el encanto de la luz y el calor del amor. Como pastores, conocemos bien la oscuridad y el frío que todavía hay en este mundo, la soledad y el abandono de muchos –también donde abundan los recursos comunicativos y la riqueza material–, el miedo a la vida, la desesperación y las múltiples fugas.
Por eso, solamente una Iglesia que sepa reunir en torno al «fuego» es capaz de atraer. Ciertamente, no un fuego cualquiera, sino aquel que se ha encendido en la mañana de Pascua. El Señor resucitado es el que sigue interpelando a los Pastores de la Iglesia a través de la voz tímida de tantos hermanos: «¿Tienen algo que comer?». Se trata de reconocer su voz, como lo hicieron los Apóstoles a orillas del mar de Tiberíades (cf. Jn 21,4-12). Y es todavía más decisivo conservar la certeza de que las brasas de su presencia, encendidas en el fuego de la pasión, nos preceden y no se apagarán nunca. Si falta esta certeza, se corre el riesgo de convertirse en guardianes de cenizas y no custodios y en dispensadores de la verdadera luz y de ese calor que es capaz de hacer arder el corazón (cf. Lc 24,32).
Antes de concluir estas reflexiones, permítanme hacerles aún dos recomendaciones que considero importantes. La primera se refiere a su paternidad episcopal. Sean Pastores cercanos a la gente, Pastores próximos y servidores. Esta cercanía ha de expresarse de modo especial con sus sacerdotes. Acompáñenles para que sirvan a Cristo con un corazón indiviso, porque sólo la plenitud llena a los ministros de Cristo. Les ruego, por tanto, que no dejen que se contenten de medias tintas. Cuiden sus fuentes espirituales para que no caigan en la tentación de convertirse en notarios y burócratas, sino que sean expresión de la maternidad de la Iglesia que engendra y hace crecer a sus hijos. Estén atentos a que no se cansen de levantarse para responder a quien llama de noche, aun cuando ya crean tener derecho al descanso (cf. Lc 11,5-8). Prepárenles para que estén dispuestos para detenerse, abajarse, rociar bálsamo, hacerse cargo y gastarse en favor de quien, «por casualidad», se vio despojado de todo lo que creía poseer (cf. Lc 10,29-37).
Mi segunda recomendación se refiere a los inmigrantes. Pido disculpas si hablo en cierto modo casi in causa propia. La iglesia en Estados Unidos conoce como nadie las esperanzas del corazón de los inmigrantes. Ustedes siempre han aprendido su idioma, apoyado su causa, integrado sus aportaciones, defendido sus derechos, promovido su búsqueda de prosperidad, mantenido encendida la llama de su fe. Incluso ahora, ninguna institución estadounidense hace más por los inmigrantes que sus comunidades cristianas. Ahora tienen esta larga ola de inmigración latina en muchas de sus diócesis. No sólo como Obispo de Roma, sino también como un Pastor venido del sur, siento la necesidad de darles las gracias y de animarles. Tal vez no sea fácil para ustedes leer su alma; quizás sean sometidos a la prueba por su diversidad. En todo caso, sepan que también tienen recursos que compartir. Por tanto, acójanlos sin miedo. Ofrézcanles el calor del amor de Cristo y descifrarán el misterio de su corazón. Estoy seguro de que, una vez más, esta gente enriquecerá a su País y a su Iglesia.
Que Dios los bendiga y la Virgen los cuide.
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1 «En la juventud, / yo tenía alas fuertes e infatigables, / pero no conocía las montañas. / Con la edad, / conocí las montañas, / pero mis alas fatigadas no podían seguir mi visión. / El genio es sabiduría y juventud» (Edgar Lee Masters, Antología de Spoon River).
Inglese
Dear Brother Bishops,
I am pleased that we can meet at this point in the apostolic mission which has brought me to your country. I thank Cardinal Wuerl and Archbishop Kurtz for their kind words in your name. I am very appreciative of your welcome and the generous efforts made to help plan and organize my stay.
As I look out with affection at you, their pastors, I would like to embrace all the local Churches over which you exercise loving responsibility. I would ask you to share my affection and spiritual closeness with the People of God throughout this vast land.
The heart of the Pope expands to include everyone. To testify to the immensity of God’s love is the heart of the mission entrusted to the Successor of Peter, the Vicar of the One who on the cross embraced the whole of mankind. May no member of Christ’s Body and the American people feel excluded from the Pope’s embrace. Wherever the name of Jesus is spoken, may the Pope’s voice also be heard to affirm that: “He is the Savior”! From your great coastal cities to the plains of the Midwest, from the deep South to the far reaches of the West, wherever your people gather in the Eucharistic assembly, may the Pope be not simply a name but a felt presence, sustaining the fervent plea of the Bride: “Come, Lord!”
Whenever a hand reaches out to do good or to show the love of Christ, to dry a tear or bring comfort to the lonely, to show the way to one who is lost or to console a broken heart, to help the fallen or to teach those thirsting for truth, to forgive or to offer a new start in God… know that the Pope is at your side and supports you. He puts his hand on your own, a hand wrinkled with age, but by God’s grace still able to support and encourage.
My first word to you is one of thanksgiving to God for the power of the Gospel which has brought about remarkable growth of Christ’s Church in these lands and enabled its generous contribution, past and present, to American society and to the world. I thank you most heartily for your generous solidarity with the Apostolic See and the support you give to the spread of the Gospel in many suffering areas of our world. I appreciate the unfailing commitment of the Church in America to the cause of life and that of the family, which is the primary reason for my present visit. I am well aware of the immense efforts you have made to welcome and integrate those immigrants who continue to look to America, like so many others before them, in the hope of enjoying its blessings of freedom and prosperity. I also appreciate the efforts which you are making to fulfill the Church’s mission of education in schools at every level and in the charitable services offered by your numerous institutions. These works are often carried out without appreciation or support, often with heroic sacrifice, out of obedience to a divine mandate which we may not disobey.
I am also conscious of the courage with which you have faced difficult moments in the recent history of the Church in this country without fear of self-criticism and at the cost of mortification and great sacrifice. Nor have you been afraid to divest whatever is unessential in order to regain the authority and trust which is demanded of ministers of Christ and rightly expected by the faithful. I realize how much the pain of recent years has weighed upon you and I have supported your generous commitment to bring healing to victims – in the knowledge that in healing we too are healed – and to work to ensure that such crimes will never be repeated.
I speak to you as the Bishop of Rome, called by God in old age, and from a land which is also American, to watch over the unity of the universal Church and to encourage in charity the journey of all the particular Churches toward ever greater knowledge, faith and love of Christ. Reading over your names, looking at your faces, knowing the extent of your churchmanship and conscious of the devotion which you have always shown for the Successor of Peter, I must tell you that I do not feel a stranger in your midst. I am a native of a land which is also vast, with great open ranges, a land which, like your own, received the faith from itinerant missionaries. I too know how hard it is to sow the Gospel among people from different worlds, with hearts often hardened by the trials of a lengthy journey. Nor am I unaware of the efforts made over the years to build up the Church amid the prairies, mountains, cities and suburbs of a frequently inhospitable land, where frontiers are always provisional and easy answers do not always work. What does work is the combination of the epic struggle of the pioneers and the homely wisdom and endurance of the settlers. As one of your poets has put it, “strong and tireless wings” combined with the wisdom of one who “knows the mountains”.1
I do not speak to you with my voice alone, but in continuity with the words of my predecessors. From the birth of this nation, when, following the American Revolution, the first diocese was erected in Baltimore, the Church of Rome has always been close to you; you have never lacked its constant assistance and encouragement. In recent decades, three Popes have visited you and left behind a remarkable legacy of teaching. Their words remain timely and have helped to inspire the long-term goals which you have set for the Church in this country.
It is not my intention to offer a plan or to devise a strategy. I have not come to judge you or to lecture you. I trust completely in the voice of the One who “teaches all things” (Jn 14:26). Allow me only, in the freedom of love, to speak to you as a brother among brothers. I have no wish to tell you what to do, because we all know what it is that the Lord asks of us. Instead, I would turn once again to the demanding task – ancient yet never new – of seeking out the paths we need to take and the spirit with which we need to work. Without claiming to be exhaustive, I would share with you some reflections which I consider helpful for our mission.
We are bishops of the Church, shepherds appointed by God to feed his flock. Our greatest joy is to be shepherds, and only shepherds, pastors with undivided hearts and selfless devotion. We need to preserve this joy and never let ourselves be robbed of it. The evil one roars like a lion, anxious to devour it, wearing us down in our resolve to be all that we are called to be, not for ourselves but in gift and service to the “Shepherd of our souls” (1 Pet 2:25).
The heart of our identity is to be sought in constant prayer, in preaching (Acts 6:4) and in shepherding the flock entrusted to our care (Jn 21:15-17; Acts 20:28-31).
Ours must not be just any kind of prayer, but familiar union with Christ, in which we daily encounter his gaze and sense that he is asking us the question: “Who is my mother? Who are my brothers?” (Mk 3:31-34). One in which we can calmly reply: “Lord, here is your mother, here are your brothers! I hand them over to you; they are the ones whom you entrusted to me”. Such trusting union with Christ is what nourishes the life of a pastor.
It is not about preaching complicated doctrines, but joyfully proclaiming Christ who died and rose for our sake. The “style” of our mission should make our hearers feel that the message we preach is meant “for us”. May the word of God grant meaning and fullness to every aspect of their lives; may the sacraments nourish them with that food which they cannot procure for themselves; may the closeness of the shepherd make them them long once again for the Father’s embrace. Be vigilant that the flock may always encounter in the heart of their pastor that “taste of eternity” which they seek in vain in the things of this world. May they always hear from you a word of appreciation for their efforts to confirm in liberty and justice the prosperity in which this land abounds. At the same time, may you never lack the serene courage to proclaim that “we must work not for the food which perishes, but for the food which endures for eternal life” (Jn 6:27).
Shepherds who do not pasture themselves but are able to step back, away from the center, to “decrease”, in order to feed God’s family with Christ. Who keep constant watch, standing on the heights to look out with God’s eyes on the flock which is his alone. Who ascend to the height of the cross of God’s Son, the sole standpoint which opens to the shepherd the heart of his flock.
Shepherds who do not lower our gaze, concerned only with our concerns, but raise it constantly toward the horizons which God opens before us and which surpass all that we ourselves can foresee or plan. Who also watch over ourselves, so as to flee the temptation of narcissism, which blinds the eyes of the shepherd, makes his voice unrecognizable and his actions fruitless. In the countless paths which lie open to your pastoral concern, remember to keep focused on the core which unifies everything: “You did it unto me” (Mt 25:31-45).
Certainly it is helpful for a bishop to have the farsightedness of a leader and the shrewdness of an administrator, but we fall into hopeless decline whenever we confuse the power of strength with the strength of that powerlessness with which God has redeemed us. Bishops need to be lucidly aware of the battle between light and darkness being fought in this world. Woe to us, however, if we make of the cross a banner of worldly struggles and fail to realize that the price of lasting victory is allowing ourselves to be wounded and consumed (Phil 2:1-11).
We all know the anguish felt by the first Eleven, huddled together, assailed and overwhelmed by the fear of sheep scattered because the shepherd had been struck. But we also know that we have been given a spirit of courage and not of timidity. So we cannot let ourselves be paralyzed by fear.
I know that you face many challenges, that the field in which you sow is unyielding and that there is always the temptation to give in to fear, to lick one’s wounds, to think back on bygone times and to devise harsh responses to fierce opposition.
And yet we are promoters of the culture of encounter. We are living sacraments of the embrace between God’s riches and our poverty. We are witnesses of the abasement and the condescension of God who anticipates in love our every response.
Dialogue is our method, not as a shrewd strategy but out of fidelity to the One who never wearies of visiting the marketplace, even at the eleventh hour, to propose his offer of love (Mt 20:1-16).
The path ahead, then, is dialogue among yourselves, dialogue in your presbyterates, dialogue with lay persons, dialogue with families, dialogue with society. I cannot ever tire of encouraging you to dialogue fearlessly. The richer the heritage which you are called to share with parrhesia, the more eloquent should be the humility with which you should offer it. Do not be afraid to set out on that “exodus” which is necessary for all authentic dialogue. Otherwise, we fail to understand the thinking of others, or to realize deep down that the brother or sister we wish to reach and redeem, with the power and the closeness of love, counts more than their positions, distant as they may be from what we hold as true and certain. Harsh and divisive language does not befit the tongue of a pastor, it has no place in his heart; although it may momentarily seem to win the day, only the enduring allure of goodness and love remains truly convincing.
We need to let the Lord’s words echo constantly in our hearts: “Take my yoke upon you, and learn from me, who am meek and humble of heart, and you will find refreshment for your souls” (Mt 11:28-30). Jesus’ yoke is a yoke of love and thus a pledge of refreshment. At times in our work we can be burdened by a sense of loneliness, and so feel the heaviness of the yoke that we forget that we have received it from the Lord. It seems to be ours alone, and so we drag it like weary oxen working a dry field, troubled by the thought that we are laboring in vain. We can forget the profound refreshment which is indissolubly linked to the One who has made us the promise.
We need to learn from Jesus, or better to learn Jesus, meek and humble; to enter into his meekness and his humility by contemplating his way of acting; to lead our Churches and our people – not infrequently burdened by the stress of everyday life – to the ease of the Lord’s yoke. And to remember that Jesus’ Church is kept whole not by “consuming fire from heaven” (Lk 9:54), but by the secret warmth of the Spirit, who “heals what is wounded, bends what is rigid, straightens what is crooked”.
The great mission which the Lord gives us is one which we carry out in communion, collegially. The world is already so torn and divided, brokenness is now everywhere. Consequently, the Church, “the seamless garment of the Lord” cannot allow herself to be rent, broken or fought over.
Our mission as bishops is first and foremost to solidify unity, a unity whose content is defined by the Word of God and the one Bread of Heaven. With these two realities each of the Churches entrusted to us remains Catholic, because open to, and in communion with, all the particular Churches and with the Church of Rome which “presides in charity”. It is imperative, therefore, to watch over that unity, to safeguard it, to promote it and to bear witness to it as a sign and instrument which, beyond every barrier, unites nations, races, classes and generations.
May the forthcoming Holy Year of Mercy, by drawing us into the fathomless depths of God’s heart in which no division dwells, be for all of you a privileged moment for strengthening communion, perfecting unity, reconciling differences, forgiving one another and healing every rift, that your light may shine forth like “a city built on a hill” (Mt 5:14).
This service to unity is particularly important for this nation, whose vast material and spiritual, cultural and political, historical and human, scientific and technological resources impose significant moral responsibilities in a world which is seeking, confusedly and laboriously, new balances of peace, prosperity and integration. It is an essential part of your mission to offer to the United States of America the humble yet powerful leaven of communion. May all mankind know that the presence in its midst of the “sacrament of unity” (Lumen Gentium, 1) is a guarantee that its fate is not decay and dispersion.
This kind of witness is a beacon whose light can reassure men and women sailing through the dark clouds of life that a sure haven awaits them, that they will not crash on the reefs or be overwhelmed by the waves. I encourage you, then, to confront the challenging issues of our time. Ever present within each of them is life as gift and responsibility. The future freedom and dignity of our societies depends on how we face these challenges.
The innocent victim of abortion, children who die of hunger or from bombings, immigrants who drown in the search for a better tomorrow, the elderly or the sick who are considered a burden, the victims of terrorism, wars, violence and drug trafficking, the environment devastated by man’s predatory relationship with nature – at stake in all of this is the gift of God, of which we are noble stewards but not masters. It is wrong, then, to look the other way or to remain silent. No less important is the Gospel of the Family, which in the World Meeting of Families in Philadelphia I will emphatically proclaim together with you and the entire Church.
These essential aspects of the Church’s mission belong to the core of what we have received from the Lord. It is our duty to preserve and communicate them, even when the tenor of the times becomes resistent and even hostile to that message (Evangelii Gaudium, 34-39). I urge you to offer this witness, with the means and creativity born of love, and with the humility of truth. It needs to be preached and proclaimed to those without, but also to find room in people’s hearts and in the conscience of society.
To this end, it is important that the Church in the United States also be a humble home, a family fire which attracts men and women through the attractive light and warmth of love. As pastors, we know well how much darkness and cold there is in this world; we know the loneliness and the neglect experienced by many people, even amid great resources of communication and material wealth. We see their fear in the face of life, their despair and the many forms of escapism to which it gives rise.
Consequently, only a Church which can gather around the family fire remains able to attract others. And not any fire, but the one which blazed forth on Easter morn. The risen Lord continues to challenge the Church’s pastors through the quiet plea of so many of our brothers and sisters: “Have you something to eat?” We need to recognize the Lord’s voice, as the apostles did on the shore of the lake of Tiberius (Jn 21:4-12). It becomes even more urgent to grow in the certainty that the embers of his presence, kindled in the fire of his passion, precede us and will never die out. Whenever this certainty weakens, we end up being caretakers of ash, and not guardians and dispensers of the true light and the warmth which causes our hearts to burn within us (Lk 24:32).
Before concluding these reflections, allow me to offer two recommendations which are close to my heart. The first refers to your fatherhood as bishops. Be pastors close to people, pastors who are neighbors and servants. Let this closeness be expressed in a special way towards your priests. Support them, so that they can continue to serve Christ with an undivided heart, for this alone can bring fulfillment to ministers of Christ. I urge you, then, not to let them be content with half-measures. Find ways to encourage their spiritual growth, lest they yield to the temptation to become notaries and bureaucrats, but instead reflect the motherhood of the Church, which gives birth to and raises her sons and daughters. Be vigilant lest they tire of getting up to answer those who knock on their door by night, just when they feel entitled to rest (Lk 11:5-8). Train them to be ready to stop, care for, soothe, lift up and assist those who, “by chance” find themselves stripped of all they thought they had (Lk 10:29-37).
My second recommendation has to do with immigrants. I ask you to excuse me if in some way I am pleading my own case. The Church in the United States knows like few others the hopes present in the hearts of these “pilgrims”. From the beginning you have learned their languages, promoted their cause, made their contributions your own, defended their rights, helped them to prosper, and kept alive the flame of their faith. Even today, no American institution does more for immigrants than your Christian communities. Now you are facing this stream of Latin immigration which affects many of your dioceses. Not only as the Bishop of Rome, but also as a pastor from the South, I feel the need to thank and encourage you. Perhaps it will not be easy for you to look into their soul; perhaps you will be challenged by their diversity. But know that they also possess resources meant to be shared. So do not be afraid to welcome them. Offer them the warmth of the love of Christ and you will unlock the mystery of their heart. I am certain that, as so often in the past, these people will enrich America and its Church.
May God bless you and Our Lady watch over you!
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1 “In youth my wings were strong and tireless, / But I did not know the mountains. / In age I know the mountains / But my weary wings could not follow my vision – / Genius is wisdom and youth.” (Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology, “Alexander Throckmorton”).
Francese
Chers frères dans l’Épiscopat, je suis heureux de vous rencontrer en ce moment de la mission apostolique qui m’a conduit dans votre pays. Je remercie vivement le Cardinal Wuerl et l’Archevêque Kurtz pour les aimables paroles qu’ils m’ont adressées au nom de vous tous. Recevez, s’il vous plaît, ma gratitude pour l’accueil et pour la généreuse disponibilité avec laquelle mon séjour a été programmé et organisé.
En embrassant, par le regard et par le coeur, vos visages de pasteurs, je voudrais étreindre les Églises que vous portez sur les épaules avec amour, et je vous prie d’assurer que ma proximité humaine et spirituelle rejoint, par vous, le Peuple de Dieu tout entier disséminé sur cette vaste terre.
Le coeur du Pape se dilate pour inclure tout un chacun. Élargir le coeur pour témoigner que Dieu est grand dans son amour constitue la substance de la mission du Successeur de Pierre, Vicaire de Celui qui, sur la Croix, a embrassé l’humanité entière. Qu’aucun membre du Corps du Christ et de la nation américaine ne se sente exclu de l’accolade du Pape. Que partout affleure sur les lèvres l’authentique nom de Jésus, que là résonne aussi la voix du Pape pour rassurer : “C’est le Sauveur ”! De vos grandes métropoles de la côte Est aux plaines di Midwest, du Sud profond à l’Ouest immense, partout où votre peuple se réunit en assemblée eucharistique, que le Pape ne soit pas un simple nom prononcé de façon routinière, mais qu’il soit une compagnie tangible visant à soutenir la voix qui s’élève du coeur de l’Épouse : “Viens, Seigneur ” !
Quand une main se tend pour accomplir le bien ou rendre proche la charité du Christ, pour essuyer une larme ou pour tenir compagnie à une solitude, pour indiquer une route à un égaré ou réconforter un coeur désormais meurtri, pour se pencher sur la personne tombée à terre ou enseigner à celle qui a soif de vérité, pour offrir le pardon ou pour conduire à un nouveau départ en Dieu… sachez que le Pape vous accompagne et vous soutient, qu’il pose lui aussi sur votre main, la sienne maintenant vieille et rugueuse mais, par la grâce de Dieu, encore capable de soutenir et d’encourager.
Ma première parole est d’action de grâce à Dieu pour le dynamisme de l’Évangile qui a permis la croissance remarquable de l’Église du Christ sur ces terres, ainsi que la contribution généreuse, qu’elle a offerte et continue d’offrir, à la société des États-Unis et au monde. J’apprécie vivement votre générosité et votre solidarité envers le Siège apostolique tout comme pour l’évangélisation dans beaucoup de parties tourmentées du monde, et je vous en remercie avec émotion. Je me réjouis de l’engagement indéfectible de votre Église pour la cause de la vie et de la famille, motif principal de ma présente visite. Je suis avec attention l’effort considérable d’accueil et d’intégration des émigrés qui continuent de regarder l’Amérique de la même manière que les pèlerins qui y ont abordé à la recherche de ses ressources prometteuses de liberté et de prospérité. J’admire l’effort au prix duquel vous poursuivez la mission éducative dans vos écoles à tous les niveaux et l’oeuvre de charité de vos nombreuses institutions. Ce sont des activités souvent conduites sans aucune compréhension ni appui et, dans chaque cas, héroïquement maintenues grâce à l’offrande des pauvres, parce que de telles initiatives jaillissent d’une mission surnaturelle à laquelle il n’est pas permis de désobéir. Je suis conscient du courage avec lequel vous avez affronté des moments obscurs dans votre parcours ecclésial sans craindre des autocritiques, ni épargner humiliations et sacrifices, sans céder à la peur de se vider de tout ce qui est secondaire en vue de retrouver l’autorité et la confiance demandée aux ministres du Christ, comme l’attend l’âme de ce peuple unique. Je sais combien est gravée en vous la blessure des dernières années et je vous ai accompagnés dans votre généreux engagement pour guérir les victimes - conscients qu’en guérissant les autres, nous sommes aussi toujours guéris - et pour continuer à oeuvrer afin que de tels crimes ne se répètent plus jamais.
Je vous parle comme Évêque de Rome, appelé par Dieu, déjà âgé, d’une terre américaine elle aussi, pour préserver l’unité de l’Église universelle et pour encourager dans la charité le parcours de toutes les Églises particulières, afin qu’elles progressent dans la connaissance, dans la foi et dans l’amour du Christ. Lisant vos prénoms et vos noms, observant vos traits, connaissant le niveau élevé de votre conscience ecclésiale et sachant la dévotion que vous avez toujours réservée au Successeur de Pierre, je dois vous dire que je ne me sens pas parmi vous comme un étranger. Je suis, en effet, originaire d’une terre vaste elle aussi, immense et souvent informe qui, comme la vôtre, a reçu la foi du bagage des missionnaires. Je connais bien le défi de semer l’Évangile dans le coeur d’hommes provenant de mondes différents, et qui souvent se sont endurcis au long de l’âpre chemin parcouru avant d’arriver. Elle ne m’est pas étrangère, l’histoire de l’effort pour implanter l’Église entre plaines, montagnes, villes et banlieues d’un territoire souvent inhospitalier, où les frontières sont toujours provisoires, où les réponses évidentes ne durent pas, et où la clé d’entrée demande de savoir conjuguer l’effort héroïque des pionniers explorateurs avec la sagesse prosaïque et la résistance des sédentaires qui sont déjà installés dans l’espace où l’on arrive. Comme a chanté l’un de vos poètes : “ailes fortes et infatigables”, mais aussi la sagesse de celui qui “connaît les montagnes ”1.
Je ne vous parle pas tout seul. Ma voix est en continuité avec tout ce que mes Prédécesseurs vous ont donné. En effet, depuis l’aube de la “nation américaine”, quand, au lendemain de la révolution a été créé le premier diocèse à Baltimore, l’Église de Rome vous a toujours été proche et son assistance constante, tout comme son encouragement, ne vous a jamais fait défaut. Au cours des dernières décennies, trois de mes vénérés Prédécesseurs vous ont rendu visite, vous remettant un important patrimoine d’enseignement toujours actuel, que vous avez mis à profit pour orienter les programmes pastoraux clairvoyants, afin de guider cette Église bien-aimée.
Je n’entends pas tracer un programme, ni définir une stratégie. Je ne suis pas venu pour vous juger, ni pour donner des leçons. J’ai pleinement confiance dans la voix de Celui qui “enseigne tout ” (Jn 14, 26). Permettez-moi seulement, avec la liberté de l’amour, de pouvoir parler comme un frère parmi des frères. Je n’ai pas à coeur de vous dire ce qu’il faut faire, parce que nous savons tous ce que nous demande le Seigneur. Je préfère plutôt revenir sur cet effort – ancien et toujours nouveau – qui consiste à s’interroger sur les chemins à parcourir, sur les sentiments à nourrir lorsqu’on travaille, sur l’esprit dans lequel agir. Sans la prétention d’être exhaustif, je partage avec vous quelques réflexions que j’estime opportunes pour notre mission.
Nous sommes Évêques de l’Église, constitués pasteurs par Dieu pour paître son troupeau. Notre joie la plus grande est d’être pasteurs, rien d’autre que pasteurs, d’un coeur sans partage et dans un don de soi irréversible. Il faut garder cette joie sans permettre qu’on nous la vole. Le malin rugit comme un lion cherchant à la dévorer, abîmant ainsi ce que nous sommes appelés à être non pour nous-mêmes, mais par don et au service du “Gardien de nos âmes” (1 P 2, 25).
L’essence de notre identité doit se chercher dans la prière assidue, dans la prédication (Ac 1, 4) et dans le fait de paître (Jn 21, 15-17 ; Ac 20, 28-31).
Non pas une prière quelconque, mais l’union familière avec le Christ, où l’on croise chaque jour son regard pour entendre la question qui nous est adressée : “Qui est ma Mère ? qui sont mes frères ?” (Mc 3, 31-34). Et pouvoir lui répondre sereinement : “Seigneur, voici ta Mère, voici tes frères ! Je te les remets, ce sont ceux que tu m’a confiés”. La vie d’un pasteur se nourrit d’une telle familiarité avec le Christ.
Non pas une prédication de doctrines complexes, mais l’annonce joyeuse du Christ, mort et ressuscité pour nous. Que le style de notre mission suscite en tous ceux qui nous écoutent l’expérience du “pour nous” de cette annonce : que la Parole donne sens et plénitude à toute partie de leurs vies, que les Sacrements les nourrissent de cet aliment qu’ils ne peuvent se procurer, que la proximité du pasteur réveille en eux la nostalgie de l’étreinte du Père. Veillez à ce que le troupeau rencontre toujours dans le coeur du pasteur cette réserve d’éternité qu’avec anxiété l’on cherche en vain dans les choses du monde. Qu’ils trouvent toujours sur vos lèvres l’appréciation pour leur capacité d’agir et de construire, dans la liberté et dans la justice, la prospérité dont est prodigue cette terre. Mais que ne fasse pas défaut le courage serein de confesser qu’“il faut travailler non pas pour la nourriture qui se perd, mais pour la nourriture qui demeure jusque dans la vie éternelle” (Jn 6, 27).
Non pas se paître soi-même mais savoir se mettre en retrait, s’abaisser, se décentrer pour nourrir du Christ la famille de Dieu. Veiller sans relâche, se hisser haut pour rejoindre, par le regard de Dieu, le troupeau qui appartient seulement à Lui. S’élever à la hauteur de la croix de son Fils, le seul point de vue qui ouvre au pasteur le coeur de son troupeau.
Non pas regarder vers le bas, enfermés dans l’autoréférentialité, mais toujours vers les horizons de Dieu qui dépassent tout ce que nous sommes capables de prévoir ou de planifier. Veiller aussi à fuir la tentation du narcissisme, qui rend aveugles les yeux du Pasteur, qui rend sa voix méconnaissable et ses gestes stériles. Sur les chemins multiples qui s’ouvrent à votre sollicitude pastorale, rappelez-vous de conserver intact le noyau qui unifie toutes les choses : “c’est à moi que vous l’avez fait ” (Mt 25, 31-45).
Il est certainement utile à l’Évêque de posséder la clairvoyance du leader et l’habileté de l’administrateur, mais survient inexorablement la déchéance lorsque nous échangeons le pouvoir de la force contre la force de l’impuissance, à travers laquelle Dieu nous a sauvés. Il faut à l’Evêque la perception lucide du combat entre la lumière et les ténèbres qui se livre dans ce monde. Malheur à nous, cependant, si nous faisons de la croix un étendard de luttes mondaines, en ignorant que la condition de la victoire durable est de se laisser transpercer et vider de soi-même (Ph 2, 1-11).
Elle ne nous est pas étrangère, l’angoisse des premiers onze, enfermés dans leurs murs, agressés et effarés, habités par la peur des brebis dispersées parce que le Pasteur a été frappé. Mais nous savons que nous a été donné un esprit de courage et non de timidité. Par conséquent, il n’est pas permis de nous laisser paralyser par la peur.
Je sais que les défis auxquels vous êtes confrontés sont nombreux, que le champ dans lequel vous semez est souvent hostile, et que les tentations sont nombreuses de s’enfermer dans les murs de la peur à se lécher les blessures, se rappelant une époque qui ne reviendra pas et planifiant des réponses dures aux résistances qui sont d’ores et déjà âpres.
Et cependant, nous sommes des partisans de la culture de la rencontre. Nous sommes des sacrements vivants de l’étreinte entre la richesse divine et notre pauvreté. Nous sommes des témoins de l’abaissement et de la condescendance de Dieu qui, dans l’amour, précède aussi notre première réponse.
Le dialogue est notre méthode, non par stratégie habile, mais par fidélité à celui qui ne se fatigue jamais de passer et de repasser sur les places des hommes jusqu’à la onzième heure pour proposer son invitation d’amour (Mt 20, 1-16).
Le chemin, c’est donc le dialogue entre vous, dialogue dans vos presbytères, dialogue avec les laïcs, dialogue avec les familles, dialogue avec la société. Je ne me lasserai pas de vous encourager à dialoguer sans peur. Plus riche est le patrimoine, que vous avez à partager dans la vérité, que plus éloquente soit l’humilité avec laquelle vous l’offrez. N’ayez pas peur d’accomplir l’exode nécessaire à tout dialogue authentique. Autrement, il n’est pas possible de comprendre les raisons de l’autre, ni de comprendre en profondeur que le frère à rejoindre et à racheter - par la force et la proximité de l’amour - compte davantage que toutes les positions que nous jugeons éloignées des nôtres, même si celles-ci sont d’authentiques certitudes. Le langage aigre et belliqueux de la division ne convient pas aux lèvres d’un pasteur, il n’a pas droit de cité dans son coeur et, même s’il semble pour un moment assurer une apparente hégémonie, seul l’attrait durable de la bonté et de l’amour reste vraiment convainquant.
Il faut laisser pour toujours résonner dans notre coeur la parole du Seigneur : « Prenez sur vous mon joug, devenez mes disciples, car je suis doux et humble de coeur, et vous trouverez le repos pour votre âme » (Mt 11, 28-30). Le joug de Jésus est un joug d’amour et donc promesse de repos. Parfois la solitude de nos peines nous pèse, et nous prenons tellement sur nous le joug que nous ne nous souvenons plus de l’avoir reçu du Seigneur. Il semble seulement nôtre, et donc nous nous trainons comme des boeufs fatigués dans le champ aride, menacés par la sensation d’avoir travaillé en vain, oubliant la plénitude du repos indissociablement lié à celui qui nous en a fait la promesse.
Apprendre de Jésus, mieux encore, apprendre Jésus, doux et humble ; entrer dans sa douceur et dans son humilité par la contemplation de son agir. Introduire nos Églises et notre peuple, souvent écrasé par la dure anxiété de la performance, dans la suavité du joug du Seigneur. Se rappeler que l’identité de l’Église de Jésus est assurée non par le feu du ciel qui détruit (cf. Lc 9, 54), mais par la secrète chaleur de l’Esprit qui guérit ce qui est blessé, assouplit ce qui est raide, rend droit ce qui est faussé.
La grande mission que le Seigneur nous confie, nous l’exerçons en communion, de manière collégiale. Le monde est déjà tellement déchiré et divisé, le morcellement a désormais élu domicile partout. Par conséquent, l’Église, ‘‘la tunique sans couture du Seigneur’’, ne peut se laisser déchirer, être mise en morceaux, ou devenir objet de querelles.
Notre mission épiscopale est en premier de cimenter l’unité, dont le contenu est déterminé par la Parole de Dieu et par l’unique Pain du Ciel, par lesquels chacune des Églises qui nous sont confiées reste catholique, parce qu’ouverte et en communion avec toutes les Églises particulières et avec celle de Rome qui ‘‘préside à la charité’’. Il est impératif, par conséquent, de veiller à cette unité, de la garder, de la favoriser, d’en témoigner comme signe et instrument qui, au-delà de toute barrière, unit nations, races, classes, générations.
Que l’Année Sainte de la Miséricorde toute proche, en nous introduisant dans la profondeur inépuisable du coeur divin, dans lequel il n’y a aucune division, soit pour tous une occasion privilégiée pour renforcer la communion, perfectionner l’unité, réconcilier les différences, se pardonner mutuellement et surmonter toute division, de sorte que resplendisse votre lumière comme ‘‘la ville située sur la montagne’’ (Mt 5, 14).
Un tel service à l’unité est particulièrement important pour votre Nation aimée, dont les vastes ressources matérielles et spirituelles, culturelles et politiques, historiques et humaines, scientifiques et technologiques imposent des responsabilités morales non négligeables dans un monde assourdi et qui peine à la recherche de nouveaux équilibres de paix, de prospérité et d’intégration. Offrir aux États-Unis d’Amérique l’humble et puissant levain de la communion est donc une part essentielle de votre mission. Que l’humanité le sache, le fait qu’elle est habitée par le ‘‘sacrement d’unité’’ (LG 1) est la garantie qu’elle n’est pas destinée à l’abandon ni à la désagrégation.
Un tel témoignage est un phare qui ne peut s’éteindre. En effet, dans l’obscurité dense de la vie, les hommes ont besoin de se laisser guider par sa lumière, pour être certains du port qui les attend, sûrs que leurs barques ne se briseront pas sur les rochers et ne seront pas à la merci des flots. Par conséquent je vous encourage à affronter les questions de notre temps, qui constituent des défis. Au fond de chacune d’elles, il y a toujours la vie comme don et responsabilité. L’avenir de la liberté et de la dignité de nos sociétés dépend de la manière dont nous saurons répondre à de tels défis.
La victime innocente de l’avortement, les enfants qui meurent de faim ou sous les bombes, les immigrés qui se noient à la recherche d’un lendemain, les personnes âgées ou les malades dont on voudrait se débarrasser, les victimes du terrorisme, des guerres, de la violence et du narcotrafic, l’environnement dévasté par une relation déprédatrice de l’homme avec la nature, en tout cela, est toujours en jeu le don de Dieu dont nous sommes les nobles administrateurs, mais non les maîtres. Il n’est donc pas permis de s’évader ni de se taire. L’annonce de l’Évangile de la famille que j’aurai, lors de l’imminente Journée Mondiale des Familles à Philadelphie, l’occasion de faire retentir avec vous et avec toute l’Église n’est pas moins importante.
Ces aspects de la mission de l’Église, auxquels on ne peut renoncer, appartiennent au noyau de ce qui a été transmis par le Seigneur. Nous avons donc le devoir de les garder et de les communiquer, même lorsque l’esprit du temps rend imperméable et hostile à un tel message
(Evangelii gaudium, n. 34-39). Je vous encourage à offrir, avec les moyens et la créativité de l’amour comme avec l’humilité de la vérité, un tel témoignage. Celui-ci a besoin non seulement de proclamation et d’annonces extérieures, mais aussi de conquérir un espace dans le coeur des hommes et dans la conscience de la société.
A cette fin, il est très important que l’Église aux États-Unis soit aussi un foyer humble qui attire les hommes par la splendeur de la lumière et la chaleur de l’amour. Comme pasteurs, nous connaissons bien l’obscurité et le froid qu’il y a encore dans le monde, la solitude et l’abandon de beaucoup – même là où abondent les moyens de communication et les richesses matérielles – la peur face à la vie, les désespoirs et les multiples évasions qui y sont liées.
Par conséquent, seule une Église qui sait se rassembler autour du foyer demeure capable d’attirer. Certes, pas n’importe quel feu, mais celui qui s’est allumé le matin de Pâques. C’est le Seigneur ressuscité qui continue à interpeller les pasteurs de l’Église à travers la voix timide de tant de frères : ‘‘Avez-vous quelque chose à manger’’ ? Il est nécessaire de reconnaître sa voix comme l’ont fait les Apôtres sur la rive de la mer de Tibériade (Cf. Jn 21, 4-12). Il est encore plus important de s’en remettre à la certitude que les braises de sa présence, allumées au feu de la passion, nous précèdent et ne s’éteignent jamais. Lorsque cette certitude fait défaut, on risque de devenir des amateurs de cendre et non des gardiens et des dispensateurs de la vraie lumière ainsi que de cette chaleur capable de réchauffer le coeur (Lc 24, 32)
Avant de conclure ces réflexions, permettez-moi de vous faire encore deux recommandations qui me tiennent à coeur. La première se réfère à votre paternité épiscopale. Soyez des pasteurs proches de vos gens, des pasteurs proches et des serviteurs. Que cette proximité s’exprime de façon particulière envers vos prêtres. Accompagnez-les afin qu’ils continuent à servir le Christ d’un coeur sans partage, puisque seule la plénitude comble les ministres du Christ. Je vous en prie, donc, ne les laissez pas se contenter de demi-mesures. Prenez soin de leurs sources spirituelles afin qu’ils ne tombent pas dans la tentation des notaires et des bureaucrates, mais qu’ils soient l’expression de la maternité de l’Église qui engendre et fait grandir ses enfants. Veillez à ce qu’ils ne se fatiguent pas de se lever pour répondre à celui qui frappe à la porte, durant la nuit, même quand on pense avoir déjà droit au repos (Lc 11, 5-8). Entraînez-les pour qu’ils soient prêts à s’arrêter, à se pencher, à verser du baume, à prendre en charge et à se dévouer en faveur de celui qui, “par hasard”, s’est trouvé dépouillé de tout ce qu’il croyait posséder (Lc 10, 29-37).
Ma seconde recommandation se réfère aux immigrés. Je présente des excuses si de quelque façon, je défends presque ma propre cause. L’Église des États-Unis connaît comme peu d’autres les espérances des coeurs des pèlerins. Depuis toujours, vous avez appris leur langue, soutenu leur cause, intégré leurs contributions, défendu leurs droits, promu leur recherche de prospérité, conservé allumée la flamme de leur foi. Encore à présent, aucune institution américaine ne fait davantage pour les immigrés que vos communautés chrétiennes. Maintenant, vous avez cette longue vague d’immigration latine qui investit beaucoup de vos diocèses.
Non seulement comme Évêque de Rome, mais aussi comme pasteur venu du Sud, je sens le besoin de vous remercier et de vous encourager. Il ne sera peut-être pas facile pour vous de lire leur âme, peut-être serez-vous mis au défi par leur diversité. Sachez, toutefois, qu’ils possèdent aussi des ressources à partager. Accueillez-les donc sans peur. Offrez-leur la chaleur de l’amour du Christ et déchiffrez le mystère de leur coeur. Je suis certain que, encore une fois, ces gens enrichiront l’Amérique et son Église.
Que Dieu vous bénisse et que la Vierge Marie vous garde !
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1 Quand j’étais jeune, / j’avais des ailes fortes et infatigables, / mais je ne connaissais pas les montagnes. / Quand je devins vieux, / je connus les montagnes, / mais les ailes fatiguées ne furent plus en mesure de soutenir la vision. / Le génie est sagesse et jeunesse (Edgard Lee Masters, Anthologie de Spoon River).