La Stampa, 23 Settembre 2015di ENZO BIANCHI
“Avere il gusto dell’altro”. Così Michel de Certeau, definiva il primo, il fondamentale passo di un cammino di umanizzazione, dove “l’altro è colui senza il quale vivere non è più vivere”. L’umanizzazione si gioca infatti nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, anche se troppo spesso ricorriamo sbrigativamente alle categorie di “noi” e “gli altri” per contrapporle, sperando così di essere agevolati nell’affrontare problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. Eppure sappiamo bene quanto sia arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste e trova la propria dimensione pienamente umana in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.
Ma allora come intraprendere e percorrere cammini di dialogo e di comunicazione con l’altro, capaci di condurre gli interlocutori a un’autentica umanizzazione? Credo che innanzitutto occorra riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi una tendenza a ripudiare tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono gli unici ad aver diritto di esistenza. C’è un relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora…
A partire da questo atteggiamento preliminare, diventa possibile mettersi in ascolto: atteggiamento arduo ma essenziale quello di ascoltare una presenza che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto non è un momento passivo della comunicazione, ma è atto creativo che instaura una con-fidenza quale con-fiducia tra i partner del dialogo. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale: nell’ascolto le rispettive differenze perdono la loro assolutezza e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.
Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Si tratta allora di modificare le immagini stereotipate di noi stessi e dell’altro e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti. E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con “sym-pátheia”, ossia con un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire fino in fondo l’altro e tuttavia tenti di “sentire-con” lui. La simpatia decide poi anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterci al posto suo, di comprenderlo dal suo interno; empatia che è manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, umanità condivisa.
Il dialogo diviene così esperienza di comprensione reciproca: ci consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri ma per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.
Questo cammino sfocia nell’assumere su di sé la responsabilità dell’altro: incontrare in verità l’altro significa porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che l’altro può fare nei miei confronti riguarda lui, ma la responsabilità verso di lui impegna radicalmente la mia persona. Ecco la vera via dell’umanizzazione, quella “responsabilità” per l’altro che, come ci ha insegnato Lévinas, è “la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività”.
È così che la vicenda dell’incontro con l’altro si fa via di umanizzazione, cammino verso un orizzonte comune, una speranza condivisa, una terra più abitabile.
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