(Lucetta Scaraffia) «Non chiamatemi santa. Non voglio essere allontanata così facilmente»: con queste parole Dorothy Day, negli ultimi giorni della sua vita, liquidava chi parlava di lei in modo troppo agiografico. Invece forse santa sarà proclamata davvero: già Giovanni Paolo II le ha concesso il titolo di serva di Dio quando nel 2000 l’arcivescovo di New York ha avviato la sua causa di beatificazione e canonizzazione.
Una donna che ha abortito, convissuto e allevato da sola una figlia, che è finita in prigione diciassettenne perché chiedeva il voto per le donne, e poi per altri motivi, come anarchica e socialista prima, come pacifista poi, l’ultima volta a 75 anni. Dorothy Day, una cattolica americana vissuta fra il 1897 e il 1980, sicuramente un personaggio singolare, è stata di recente oggetto di varie biografie: una di Jim Forest, seguace del movimento da lei fondato, il Catholic Worker, incentrata soprattutto sulle vicende varie e importanti della sua vita (Dorothy Day. Una biografia, Jaca Book - Libreria Editrice Vaticana, 2011), l’altra più attenta ai suoi scritti, e quindi sulla sua spiritualità, scritta da Caterina Ciriello (Dorothy Day. Le scelte dell’amore, Lateran University Press, 2011). E, ancor più recentemente, di un libro di Roberta Fossati che si sviluppa come una sorta di biografia intellettuale, Day. Fede e radicalismo sociale (La Scuola, 2012), attraverso il quale si riscopre, grazie al pensiero della scrittrice americana, una verità spesso dimenticata, e cioè che il cristianesimo comporta un interesse profondo per le sorti del mondo.
Ma aveva cominciato la stessa Dorothy a parlare di sé, a raccontare la sua vita avventurosa e molto americana in una autobiografia (The Long Loneliness) pubblicata nel 1953 e da allora sempre ristampata e tradotta in molte lingue. Un vero successo editoriale, quindi, che racconta l’infanzia in una famiglia povera — il padre era un giornalista spesso disoccupato — che aveva perso tutto nel terremoto di San Francisco e poi una giovinezza trascorsa subito fuori casa, a cercare di farsi strada nel mondo, fremente di passione per i poveri e i diseredati.
Una passione che la porta in un primo tempo a lasciare la religione per militare nel partito comunista, dove si impegna sia nella pratica politica che come giornalista. Come inviata del giornale socialista «The Call» perlustra i bassifondi di New York, vede con i suoi occhi la miseria e il degrado in cui vivono immigrati provenienti da ogni parte di Europa. Sono anni di militanza politica, in cui oltre a scrivere organizza manifestazioni, si batte per leggi più giuste, vive storie d’amore difficili, con uomini che appartengono al gruppo di intellettuali, anch’essi militanti, del Greenwich Village.
È stata una giornalista atea, che non aveva bisogno di Dio. Infermiera durante la prima guerra mondiale, dopo l’incontro con Peter Maurin, un utopista politico cattolico, fonda un giornale di battaglia, «The Catholic Worker», che successivamente diventerà un vero e proprio movimento in difesa dei più deboli. Durante la Grande Depressione, Dorothy organizza case di accoglienza per chi rimane senza casa, e nelle sedi del Catholic Worker — alla sua morte saranno più di cento in tutti gli Stati Uniti — offre cibo, indumenti e amore a tutti. Con il tempo molti ebbero in queste case un posto dove mangiare, passare un po’ di tempo al caldo, talvolta dormire. Lei stessa vive povera fra i poveri, si veste degli abiti ricevuti in beneficenza e mangia quello che passa la mensa.
Nel 1927, a trent’anni, si converte ed entra nella Chiesa cattolica, la Chiesa dei poveri e degli immigrati. Accanto alla sua vita di militante si sviluppa parallela una intensa ricerca spirituale, tormentata ma molto ricca, che la porterà anche a cercare di influire sul concilio Vaticano II. Recatasi a Roma alla testa di un gruppo di donne, chiede — e in gran parte ottiene — una esplicita condanna della guerra da parte dei padri conciliari. La incontrano Jacques Maritain durante il suo viaggio americano e poi madre Teresa di Calcutta, che dice di considerarla parte del suo ordine ad honorem. Insieme alla sua missione per i poveri, Dorothy sente che sua missione è anche scrivere e vivere un’intensa vita intellettuale: tiene un diario e collabora al suo giornale sino all’ultimo. Senza dubbio è stata una donna del nostro tempo, da lei vissuto con inquietudine, una donna nuova, che osava dire: «Se ho fatto qualche cosa nella mia vita è perché non mi sono mai vergognata di parlare di Dio».
L'Osservatore Romano, 26 luglio 2012
Doppio anniversario per la testata del Catholic Worker. Una contadina al posto dell’operaioUna donna che ha abortito, convissuto e allevato da sola una figlia, che è finita in prigione diciassettenne perché chiedeva il voto per le donne, e poi per altri motivi, come anarchica e socialista prima, come pacifista poi, l’ultima volta a 75 anni. Dorothy Day, una cattolica americana vissuta fra il 1897 e il 1980, sicuramente un personaggio singolare, è stata di recente oggetto di varie biografie: una di Jim Forest, seguace del movimento da lei fondato, il Catholic Worker, incentrata soprattutto sulle vicende varie e importanti della sua vita (Dorothy Day. Una biografia, Jaca Book - Libreria Editrice Vaticana, 2011), l’altra più attenta ai suoi scritti, e quindi sulla sua spiritualità, scritta da Caterina Ciriello (Dorothy Day. Le scelte dell’amore, Lateran University Press, 2011). E, ancor più recentemente, di un libro di Roberta Fossati che si sviluppa come una sorta di biografia intellettuale, Day. Fede e radicalismo sociale (La Scuola, 2012), attraverso il quale si riscopre, grazie al pensiero della scrittrice americana, una verità spesso dimenticata, e cioè che il cristianesimo comporta un interesse profondo per le sorti del mondo.
Ma aveva cominciato la stessa Dorothy a parlare di sé, a raccontare la sua vita avventurosa e molto americana in una autobiografia (The Long Loneliness) pubblicata nel 1953 e da allora sempre ristampata e tradotta in molte lingue. Un vero successo editoriale, quindi, che racconta l’infanzia in una famiglia povera — il padre era un giornalista spesso disoccupato — che aveva perso tutto nel terremoto di San Francisco e poi una giovinezza trascorsa subito fuori casa, a cercare di farsi strada nel mondo, fremente di passione per i poveri e i diseredati.
Una passione che la porta in un primo tempo a lasciare la religione per militare nel partito comunista, dove si impegna sia nella pratica politica che come giornalista. Come inviata del giornale socialista «The Call» perlustra i bassifondi di New York, vede con i suoi occhi la miseria e il degrado in cui vivono immigrati provenienti da ogni parte di Europa. Sono anni di militanza politica, in cui oltre a scrivere organizza manifestazioni, si batte per leggi più giuste, vive storie d’amore difficili, con uomini che appartengono al gruppo di intellettuali, anch’essi militanti, del Greenwich Village.
È stata una giornalista atea, che non aveva bisogno di Dio. Infermiera durante la prima guerra mondiale, dopo l’incontro con Peter Maurin, un utopista politico cattolico, fonda un giornale di battaglia, «The Catholic Worker», che successivamente diventerà un vero e proprio movimento in difesa dei più deboli. Durante la Grande Depressione, Dorothy organizza case di accoglienza per chi rimane senza casa, e nelle sedi del Catholic Worker — alla sua morte saranno più di cento in tutti gli Stati Uniti — offre cibo, indumenti e amore a tutti. Con il tempo molti ebbero in queste case un posto dove mangiare, passare un po’ di tempo al caldo, talvolta dormire. Lei stessa vive povera fra i poveri, si veste degli abiti ricevuti in beneficenza e mangia quello che passa la mensa.
Nel 1927, a trent’anni, si converte ed entra nella Chiesa cattolica, la Chiesa dei poveri e degli immigrati. Accanto alla sua vita di militante si sviluppa parallela una intensa ricerca spirituale, tormentata ma molto ricca, che la porterà anche a cercare di influire sul concilio Vaticano II. Recatasi a Roma alla testa di un gruppo di donne, chiede — e in gran parte ottiene — una esplicita condanna della guerra da parte dei padri conciliari. La incontrano Jacques Maritain durante il suo viaggio americano e poi madre Teresa di Calcutta, che dice di considerarla parte del suo ordine ad honorem. Insieme alla sua missione per i poveri, Dorothy sente che sua missione è anche scrivere e vivere un’intensa vita intellettuale: tiene un diario e collabora al suo giornale sino all’ultimo. Senza dubbio è stata una donna del nostro tempo, da lei vissuto con inquietudine, una donna nuova, che osava dire: «Se ho fatto qualche cosa nella mia vita è perché non mi sono mai vergognata di parlare di Dio».
L'Osservatore Romano, 26 luglio 2012
L'Osservatore Romano