sabato 26 settembre 2015

XXVI Domenica nel Tempo Ordinario (Anno B)

Gesù e gli Apostoli - RV

Il Vangelo della 26.ma Domenica del tempo ordinario presenta il brano del Vangelo di Marco nel quiale Gesù, parlando con Giovanni, afferma con fermezza di non indulgere a qualsiasi atteggiamento che possa causare scandalo, quando dice tra l'altro:
"Chi non è contro di noi è per noi.
Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala".
“Non abbiamo il monopolio dello Spirito Santo”, ci dice oggi il Vangelo e ci invita a riconoscere che i demoni si scacciano solo con il “dito di Dio”. Lo Spirito soffia dove e su chi vuole. Poi Gesù ci dà una parola radicale, che tutti dobbiamo prendere sul serio. Nel linguaggio biblico, “essere di scandalo” significa essere di ostacolo, mettere inciampo a qualcuno. E “scandalizzare uno di questi piccoli” significa essergli occasione di peccato. Quando lo scandalo si istituzionalizza, non solo perché è lo stato a proporlo, ma addirittura si usa lo strumento educativo della scuola – e della stessa infanzia – come occasione di “educazione” anche al peccato, come nella ideologia del gender che si sta imponendo nella scuola in tutta Europa ed in Italia, questo scandalo diventa ancora più grave.
E la parola del Signore, di una crudezza inaudita, non lascia di essere vera solo perché lo scandalo è sponsorizzato da lobbies e da organizzazioni internazionali: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare”. Gesù ci dice inequivocabilmente che per chi è causa di caduta, per chi dà scandalo – se non si dà conversione vera – non resta che la Geenna, l’inferno. Il Catechismo lo conferma con chiarezza: “La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità”, dove la pena principale “consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira” (CCC 1035). (Pasotti)

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Una comunità abbracciata da Cristo

Commento al Vangelo della XXVI Domenica nel Tempo Ordinario (Anno B) -- 27 settembre 2015



Gesù aveva appena preso un bambino e, abbracciandolo, aveva insegnato l'unico modo con cui si accoglie Lui e Colui che lo ha mandato. Ma niente, i suoi discepoli continuavano a non capire. Erano con Lui da tempo, gli camminavano dietro, ma non lo avevano ancora accolto. Nel loro stare con Gesù cercavano la propria identità come al tempo di Babele, quando gli uomini smisero di camminare nella precarietà e si stabilirono in una città per difendersi e così darsi un "nome".
La città di Babele è immagine del principio di ogni corruzione, la stessa che segnava ancora il cuore di Giovanni e degli altri discepoli intenti a discutere su chi fosse il più grande, su chi avesse un "nome" più prestigioso da garantire il primo posto.
Per questo il "nome di Gesù" appariva loro come la torre che gli uomini tentarono di costruire proprio per darsi un nome, che significa un'identità, un senso nel mondo. Gesù, che, secondo la mentalità orientale era presente nel suo "nome", era per loro il "brand" che distingueva il gruppo, nella perfetta mentalità del mondo.
Del resto i discepoli, invece di pregare e ascoltare, discutevano e litigavano proprio per scalare la "società", come si fa in qualunque impresa, per poi competere con le altre. E così, proprio loro che si indignavano per "uno che scacciava i demoni nel nome di Gesù", non riuscivano a scacciarli. “Le loro ricchezze”, infatti, erano “marce, i vestiti mangiati dalle tarme”.
Quel "nome", pronunciato da loro, non aveva "potere" perché attraverso di esso cercavano la propria gloria; non era "dynamis", il potere di muovere e far muovere, perché si erano installati ed erano entrati in competizione tra loro e con gli altri raggiunti dalla Grazia.
Avevano rotto la comunione in nome della carne, e così avevano finito per sbarrare le porte della Chiesa, che dovrebbero restare aperte giorno e notte per accogliere tutti. E' ciò che accade a chi, come spesso anche noi, usa della Chiesa e della comunità per se stesso, per colmare i propri buchi affettivi.
Si può essere accanto a Cristo e ai fratelli ma seguire la volontà del demonio. L'amore e la comunione definiscono l'appartenenza a Dio e ai fratelli nella Chiesa, ma il demonio, principio di divisione, semina nei cuori l'invidia e la superbia che spinge a "vedere" l'altro come un nemico.
Esattamente come i discepoli hanno "visto" quello che scacciava i demoni in nome di Gesù. E così, proprio loro che non ci riuscivano, "impedivano" a chi "non era dei nostri" di lottare con il male e vincerlo in Cristo. 
Ecco il punto. Quell'uomo non seguiva loro! Per questo era da tagliare, escludere, disprezzare, scandalizzare: anche loro, avevano “condannato e ucciso il giusto” nel loro cuore, “ed egli non vi ha opposto resistenza”. Come? Facendo della comunità una cosa loro, mondana, nella quale vigevano le regole e gli usi di ogni gruppo umano, trasformandola così in un luogo di schiavitù.
Come accade nelle diocesi e nelle parrocchie che si chiudono ai carismi dello Spirito Santo, illudendosi che esso discenda solo sui settanta anziani. E invece no, lo Spirito Santo ispira la profezia anche dove spesso i pastori come Giosuè non si aspettano. Guai alla loro “gelosia” che impedisce al carisma di offrire una parola profetica scandalizzando i piccoli che credono in Cristo…
Ma ciò accade spesso anche nelle nostre famiglie, nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra fidanzati e amici, al punto da assomigliare più al “board” di una multinazionale che a una comunione di fratelli: bisogna produrre i risultati prefissati, raggiungere determinati target, incrementare sempre i guadagni; solo così ci sono i dividendi e la comunità è salva, visto che ha ragione di esistere solo in funzione di questi.
Essere "dei nostri" significa essere ammessi nel proprio cerchio magico, tutto carne e passioni. Implica seguirsi a vicenda, e per questo litigare e giudicarsi, invidiarsi ed essere gelosi. Perché chi segue un uomo va dietro ai suoi limiti, e che fallimento diventa allora la vita...
Che stoltezza quando un prete vuole farsi seguire e lega a sé le persone, rubandole a Cristo di cui dovrebbe essere l'amico che gioisce nel diminuire perché chi possiede la sposa è lo Sposo. O quando un padre e una madre spingono i figli ad essere come loro, a ricalcarne le orme frustrando le loro personalità e disprezzando le debolezze; non si accorgono che li scandalizzano allontanandoli da Cristo, che li ama e li ha scelti peccatori e liberi, unici e irripetibili. O un fidanzato quando cerca di assorbire la fidanzata nel proprio tempo, nei gusti e nei desideri, obbligandola a servire le proprie concupiscenze, dando inizio così alla rovina certa del matrimonio.
La corruzione non può che generare corruzione. E disprezzo per i piccoli; chi si illude di dover essere seguito, chi scrive leggi ispirate dagli slogan, chi partorisce ideologie non si accorgerà dei piccoli che muovono i primi passi. Sarà geloso del proprio posto e guarderà tutti come a dei potenziali usurpatori.
Nella Chiesa, invece, è preservata la libertà di ciascuno, anche di sbagliare, perché tutti seguono Cristo che sale alla Croce, per entrare con Lui nel Cielo, in un'appartenenza nuova che trascende la carne. Nella Chiesa non si è "dei nostri", ma tutti sono suoi, riscattati dal sangue di Cristo. Non c'è omologazione ma comunione nella diversità.
Per questo Gesù aveva preso un bambino e lo aveva abbracciato: per mostrare profeticamente che la Chiesa è una comunità abbracciata da Cristo, dove ciascuno è amato così come è, nella sua piccolezza, nelle sue miserie.
Per questo ci dice oggi con forza di stare bene attenti “a non scandalizzare uno di questi piccoli che credono in me”. Non scandalizzare innanzitutto te stesso, non metterti da solo inciampi sul tuo cammino. E non metterli agli altri con i tuoi atteggiamenti superbi e mondani travestiti da pietà e zelo per il Vangelo.
Fratelli, questa domenica il Signore ci annuncia senza dolcificanti che proprio per essere stati chiamati a seguirlo, ci attende ogni giorno un combattimento molto serio. Non possiamo scappare, perché è in gioco la nostra salvezza e quella dei “piccoli” nella fede, i lontani dalla Chiesa, coloro che vivono in situazioni terribili di peccato e che, nell’annuncio del Vangelo, hanno iniziato a vedere una luce, una speranza a cui appoggiarsi.
Siamo stati “piccoli” anche noi, o no? Anzi, lo siamo ancora, perché il posto dei cristiani è sempre l’ultimo della fila, il più insignificante, disprezzato e rifiutato. Quello di chi, come i bambini al tempo di Gesù, era considerato nulla.
Ma proprio per essere gli ultimi, i cristiani possono far breccia nel cuore dei superbi, destando in loro un frammento di compassione. Siamo mendicanti di un bicchiere d’acqua, portiamo ovunque nel nostro corpo la sete di Cristo crocifisso, per offrire a tutti la “loro ricompensa”.
Coloro che non conoscono Gesù hanno il diritto di incontrarlo nei suoi fratelli. La sete dei discepoli è l'occasione, la possibilità donata ad ogni uomo di partecipare dei beni che essi incarnano nel loro desiderio. Un cristiano è nel mondo per ricevere l’aceto dei peccati di ogni uomo; è Cristo che in lui ha sete del male per trasformarlo in bene.
“Piccoli” dunque, per salvare i “piccoli” della terra, non c’è altro modo con cui Dio ha scelto di salvare l’umanità che ha perduto la propria dignità. Per questo occorre “tagliare” senza pietà quello che il demonio cerca di far diventare grande in noi: mani, piedi e occhi dell’uomo vecchio che ci portano nel fuoco della Geenna, la valle accanto a Gerusalemme dove si bruciava la spazzatura.
Siamo chiamati ad essere la spazzatura, a scendere nella Geenna delle nostre città per offrire speranza e salvezza a chi ha ridotto la propria vita un rifiuto da bruciare, non ad esservi gettati anche noi per aver perduto il sapore del sale della primogenitura, lasciando così che il mondo muoia nei suoi peccati.
Sì fratelli, “è meglio” per noi che “venga messa una macina da mulino al collo” del nostro uomo vecchio e corrotto che cerca cibo nella carne per saziare anche nella Chiesa le sue concupiscenze, e che “sia gettato nel mare”, nelle acque del battesimo, cioè dei sacramenti.
Come Israele, infatti, anche il discepolo di Cristo è un eletto, contrassegnato per una missione: per questo sarà schiacciato, ferito. Per questo, quasi come un'eco delle parole di Gesù sulla violenza da fare alle proprie membra occasione di scandalo, Giacobbe sarà oggetto della violenza dell'angelo di Dio.
E ne uscirà zoppo, per entrare nella terra promessa insieme a quanti nel mondo gli sono affidati, cominciando dai più vicini. Meglio zoppo che con due piedi, meglio potersi appoggiare a Dio ed assolvere alla propria missione, che perdere la propria vita. Zoppo, cieco, monco, ma forte con Dio, ecco il mistero della nostra debolezza offerta e affidata a Cristo perché ne faccia l’altare dove possa offrire a tutti il suo amore. Il mistero dei fallimenti, delle malattie e delle persecuzioni che soffrono i cristiani, della Croce sulla quale Cristo abbraccia nelle loro membra deboli e povere i piccoli del mondo.

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Regole di vita

Lectio divina per la XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 27 settembre 2015


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 27 settembre 2015.
Come di consueto l’autore offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Rito Romano
Nm 11,25-29; Sal 18; Giac 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48
Rito Ambrosiano
Dt 6,1-9; Sal 118; Rm 13,8-14a; Lc 10,25-37
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.
1) In cammino con la Vita che dà la vita e regole di vita.
Il brano del Vangelo di Marco che è proposto in questa 26ª Domenica del tempo ordinario, ci narra due episodi.
Nel primo, Giovanni fa notare a Cristo che c’è qualcuno che scaccia i demoni in Suo nome senza essere del gruppo dei Suoi discepoli. Gesù giustamente fa osservare che ogni opera di bene, da qualsiasi parte venga, è sempre ben accetta, perché la sorgente della bontà e dell’amore è Dio stesso. Chi opera il bene è comunque e sempre dalla parte di Cristo e di Dio. La risposta di Gesù a Giovanni riguardo all'esorcista estraneo al gruppo dei discepoli si ispira a grande tolleranza ed è identico all'atteggiamento assunto da Mosè nei confronti di Eldad e Medad durante l’esodo (Nm 11,24-30 – Prima lettura della messa di oggi).
Nel secondo episodio Gesù esorta i discepoli a non scandalizzare i “piccoli” cioè i fratelli immaturi nella fede allontanandoli dal Vangelo con una condotta scorretta e un comportamento non conforme al Vangelo. Per fare questa ammonizione, il Messia usa espressioni dure: “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9, 45.47-48). Con queste parole Gesù invita i discepoli a un atteggiamento ispirato all’umiltà, alla comprensione e al sacrificio per evitare lo scandalo, che oscura la luce del Vangelo.
Potremmo formulare l’invito di Cristo con le parole che, nell’“L’annuncio a Maria” di Paul Claudel, la protagonista ormai cieca, Violaine, fa a quanti godono del dono della vista: “Ma voi che ci vedete, cosa ne avete fatto della luce?”
Se sapremo convertire anche e prima di tutto il nostro cuore, allora chi vive accanto a noi, anche se non è credente, capirà che Gesù non è un'incomprensibile e inaccettabile formula teologica nella nostra mente, ma la vita di Dio nel nostro cuore e luce ai nostri passi. E anche se non cambierà la sua religione, cambierà il suo cuore, diventando più aperto, tollerante, libero.
Gesù chiede ai discepoli, e quindi a noi, di avere il suo pensiero che non respinge nessuno e lo stesso suo sguardo che riconosce anche i più piccoli segni della fede, come il dono di un semplice bicchiere d’acqua che, se dato a un “piccolo”, “condizionerà” il giudizio finale quando il Figlio dell'uomo giudicherà tutti i popoli della terra.
L’apertura totale, senza alcuna transenna di spazio e di tempo, è mostrata proprio da Gesù con la sua incarnazione e morte in croce, accomunato a tutta l’umanità. In ogni uomo e donna della terra è possibile una relazione misteriosa e profonda con Gesù Cristo. Anche la comunità cristiana è chiamata ad allargare i propri confini fino a considerare tutti in qualche modo come suoi figli, anche quelli che non hanno una conoscenza-esperienza piena di Gesù.
Se la "piccolezza" è la fisionomia profonda della vita del credente, anche una mano, un piede e un occhio, possono farle del male e ostacolare - nel senso di fare scandalo, inciampo - la presenza del Signore in noi. Piccolo è un bicchiere d’acqua e i piccoli sanno apprezzarlo, non mancando di ringraziare, soprattutto quando è ricevuto in nome di Gesù.
2) Il nome di Gesù.
Questo nome: “Gesù” ricorre ben tre volte in soli quattro versetti del vangelo di oggi. Il fatto è che chi opera nel suo nome può fare cose grandi, a iniziare dagli apostoli che sono di Gesù Cristo. Ma chi è di Cristo? I discepoli che lo seguono, ma non in senso esclusivo. Quando i cristiani hanno creduto di avere il monopolio di Gesù, hanno corso il rischio di essere intolleranti. Il bene, sotto ogni forma, è diritto e dovere di ogni uomo. Gesù e lo Spirito sono presenti ovunque si fa il bene. Nella pagina precedente, i discepoli si dividevano tra loro in nome del proprio io. Qui si dividono dagli altri nel nome del proprio noi. Solo il “Nome” di Gesù è radice di unità tra tutti. Lo scandalo è tutto ciò che impedisce a qualcuno di seguire Dio per giungere alla salvezza. Piuttosto che far perdere la fede anche a uno solo, sarebbe meglio morire.
Il che non significa certo mettere in secondo piano o addirittura vanificare l’impegno dell’annuncio e della chiamata a convertirsi al Vangelo, come qualcuno potrebbe pensare. Non va dimenticato che la testimonianza e l’annuncio sono parte integrante dell’autentica fede cristiana, che non può tacere l’immensa gioia di aver incontrato il Signore; e, se io non nascondo il fatto di essere cristiano convinto e praticante, ogni gesto di amicizia, di aiuto, di scambio che compio è annuncio, così come ogni parola e gesto di Gesù lo era, prima ancora che Egli dichiarasse: “Io sono il Figlio di Dio”. Dal Nuovo Testamento emerge chiaramente il “dovere” dell’annuncio: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc16,15); “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16); “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi ... con dolcezza e rispetto e con una retta coscienza” (1 Pt 3,15-16).
Il primo appello di Gesù è alla “conversione del cuore” e chiede ai Suoi discepoli di non mettere l’altro in schemi preconcetti, ma di accoglierlo e di ascoltarlo. Ascoltare la sinfonia del gemito di un bambino, di un povero, di un malato per portare loro la tenerezza di Dio. Ascoltare le parole del mondo e ridargli la Parola, perché tutto ciò che riguarda l’umana avventura riguarda ciascuno di noi: “Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo” (Terenzio).
La risposta di Gesù, l’uomo senza barriere, è di quelle che possono segnare una svolta della storia: gli uomini sono tutti dei nostri, come noi siamo di tutti. Prima di tutto l’uomo. “Quando un uomo muore, non domandarti per chi suona la campana: essa suona sempre un poco anche per te” (John Donne). Tutti sono dei nostri. Tutti siamo ‘uno’ in Cristo Gesù.
Ma l’annuncio di Gesù è ancora più coraggioso: ci porta a non sentirci estranei. Ci chiede di amare il prossimo e a vivere la vita come condivisione: ci porta a vivere molte vite, storie d’altri come fossero le nostre. Ci dà cento fratelli e sorelle, cento cuori su cui riposare, cento labbra da dissetare, cento bocche che non sanno a Chi gridare, di cui siamo la voce.
E’ vero, come ho detto poco sopra, che il Vangelo di oggi termina con parole dure: “Se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali, buttali via”. Vangelo delle ferite, scandalose e luminose come le stigmate di Gesù. In effetti, le parole di Cristo non sono l’invito a un’inutile auto­mutilazione, sono invece un linguaggio figurato, incisivo, per trasmettere la serietà con cui si deve pensare alle cose essenziali. Anche perdere ciò che ci è prezioso, come la mano e l’occhio, non è paragonabile al danno che deriva dall’aver sbagliato la vita. Il Signore ci invita a temere di più una vita fallita che non le ferite dolorose della vita.
Un modo speciale di accogliere Cristo e le ferite del suo amore per noi è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Essere vergine significa mantenere il carattere sponsale del proprio corpo intatto per il Signore. Una vergine non si spreca, non cerca vita negli altri esseri umani, nella carne e sangue, la cerca in Dio. Serve molta maturità ed anche molta fede per tagliare le affettività malate verso le persone, per aspettare con fedeltà e perseveranza il Signore che viene. Occorre avere un’esperienza concreta dello stare con il Signore, non basta una conoscenza teoretica. Se uno ha la fede debole, smette di pregare, vive la solitudine per se stesso, non vuole assumere le responsabilità della vita adulta, rischia seriamente. Può conservare la verginità fisica, però perdendo il senso diventerà un egoista o narcisista, cinico o amareggiato, acido o vampiro affettivo. Sant’Agostino dice che una verginità senza l’umiltà non serve.
Essere vergine nell’anima, nello spirito vuol dire essere liberi dagli idoli, non idolatrare se stessi o gli altri, ma essere solo per Dio.
La verginità consacrata non è un mezzo di preservazione di se stessi, un seppellire il proprio talento sotterra per restituirlo un giorno, integro ma senza interessi; è anzi un mezzo di donazione di se stesso, che accetta certe rinunce solo per poter dare tutto a Dio e di più al prossimo.
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LETTURA PATRISTICA
Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 9, 38-43
"Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel’abbiamo permesso perché non è dei nostri»" (Mc 9,38).
Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò era degno di essere riamato, riteneva dovesse essere privato del beneficio chi non ricopriva un ufficio. Ma viene ammaestrato che nessuno dev’essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma che piuttosto dev’essere invitato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:
"Ma Gesù gli disse: «Non gliel’impedite. Non c’è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»" (Mc 9,39-40).
Lo stesso concetto ripete il dotto Apostolo: "Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!" (Ph 1,18). Ma anche se egli s’allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero e, poiché fanno di conseguenza talvolta miracoli per la salvezza degli altri, consiglia che non ne vengano impediti, tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?", essi riceveranno questa risposta: "Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l’iniquità" (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi e non contro di noi, ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono in unità con noi il Signore.
«Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d’acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).
Leggiamo nel profeta David (Ps 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, così che, mentre volontariamente peccano, s’illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta il cuore e i reni, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me" (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d’acqua, magari fredda, come dice Matteo (Mt 10,42). Dice un bicchiere d’acqua fredda, non calda, affinché non si cerchi in questo caso una scusa adducendo la miseria e la mancanza di legna per scaldarla.