domenica 20 settembre 2015

L’abbraccio dopo l’esilio



In cammino verso il Padre misericordioso. 

Pubblichiamo uno stralcio della lettera pastorale dell’arcivescovo di Chieti-Vasto intitolata «La misericordia, cuore del Vangelo, anima della Chiesa» e ispirata alla parabola evangelica del padre misericordioso.
(Bruno Forte) Davanti a questo padre stanno i due figli. Si presenta per prima la figura del figlio più giovane, quello che ha voluto gestire la propria vita per conto suo. In che cosa è consistito il suo peccato? «Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise fra loro le sostanze». Ciò significa che il figlio prodigo è colui che non vuol saperne del padre nella gestione della propria esistenza. Chiunque abbia conosciuto un’esperienza di peccato e di conversione sa che cosa significa voler gestire la vita per conto proprio come se Dio non esistesse, perfino dimenticandosi di Lui.
La prima tappa, l’inizio della conversione, consiste nel percepire l’esilio esteriore, nell’avvertire che si sta male. Questa condizione dice che normalmente la conversione inizia da una molla egoistica: si sta male e si vorrebbe star meglio. «Allora rientrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, io invece ...» (Luca, 15, 17). La percezione dell’esilio esteriore si congiunge al ricordo della patria, di una casa dove c’è pane in abbondanza perfino per i salariati. Questo ci fa capire perché è sempre importante evangelizzare la misericordia, affinché a nessuno manchi la possibilità del ricordo dolce e salutare della patria lontana.
Tra la propria miseria e il ricordo di un’abbondanza perduta viene profilandosi così il terzo momento dell’itinerario della conversione: la percezione dell’esilio interiore. È necessario accorgersi che la radice profonda del male è la separazione da Dio: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Alle origini del peccato c’è l’aver voluto gestire la propria vita diventando ricchi di sé, ma poveri di Dio e, alla fine, poveri di se stessi. Nascono così il no al passato e il sì al futuro di Dio per noi: dopo aver avvertito il dolore dell’esilio interiore bisogna avere speranza e credere che è possibile una vita nuova. Ricordando la patria dell’amore occorre dire un sì al futuro, nella certezza che il Padre possa farci ricominciare da capo, in modo nuovo e impensato per noi. Allora, diventa necessario andare effettivamente dal Padre. È la decisione senza la quale la conversione resterebbe un pio desiderio, senza tradursi nella vita nuova che cambia il destino di una persona. È un mettersi oramai completamente a disposizione del Padre — «Trattami come uno dei tuoi salariati» — un non voler gestire più la propria vita, perché a gestirla sia Lui, il Padre misericordioso. È il passo che conduce all’incontro della riconciliazione: il sacramento del perdono è appunto questo incontro della nostra povertà, riconosciuta e confessata, con l’amore infinito del Dio che perdona e rende liberi attraverso il ministero della Chiesa.
C’è infine l’altro figlio, in cui alcuni riconoscono il popolo dell’elezione, Israele, amato da sempre come primogenito e chiamato non meno degli altri a tornare al cuore divino ricco di misericordia, accomunato ai fratelli più giovani dalle braccia accoglienti del Padre. Il figlio maggiore è rimasto sempre in una situazione di vicinanza fisica al padre: eppure, la reazione che ha fa capire che la sua vicinanza esteriore non è stata vicinanza del cuore. Si può vivere tutta la vita nella casa di Dio e non amare Dio. Quel che conta veramente è l’essere interiormente innamorati di Dio, in sintonia piena con Lui. Che cosa accade, dunque, al figlio maggiore? Nel ritorno a casa dal lavoro sente le musiche, s’informa, si adira, decide di non entrare in casa: insomma, non perdona al padre di aver perdonato al fratello. Il figlio maggiore vuole gestirsi la vita, farsi arbitro e giudice del bene e del male né più né meno di come ha fatto il prodigo. Anche in questo caso il padre mette da parte la propria dignità. Esce da casa per convincerlo, va da lui quasi a chiedere perdono del suo amore. Il figlio dice cose giuste (cfr. Luca, 15, 29-30). E tuttavia, davanti al suo atteggiamento di giudizio il Padre lo invita a uscire dalla logica del merito e del profitto per entrare nella logica dell’amore: «Questo tuo fratello era morto, ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato: perciò bisognava far festa». Il figlio maggiore si è messo al posto di Dio. Il padre lo invita, invece, a non giudicare secondo i pesi della ragione e del torto, a far pendere tutto dalla parte dell’amore più grande.
E noi? Resta a questo punto da sapere che cosa avverrà, perché la parabola non dice come vanno a finire le cose: come continuerà la vita del figlio più giovane, una volta tornato, e che cosa accadrà nella vita del figlio maggiore? Qui si può avanzare un’ipotesi. Probabilmente la parabola termina qui, perché deve continuare nella vita di ognuno di noi. Dobbiamo essere noi la viventesequentia sancti Evangelii, il seguito del santo Vangelo della misericordia. Che cosa sarà la vita di un uomo dopo che si è convertito dalle ricchezze alla povertà e ha accettato di dare il primato incondizionato a Dio nella propria vita? Quale sarà il futuro di chi passasse attraverso una tale conversione? E quale se invece non facesse passi in tal senso? È quanto ciascuno dovrebbe cercare di comprendere, chiedendosi con umiltà e fiducia: in quale dei due figli mi riconosco di più? in quale delle tappe del loro cammino? in quale dei loro atteggiamenti? 
A tutti è chiesto di convertirsi alla misericordia e di esercitare con l’aiuto del Signore le opere di misericordia (quelle fisiche: dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini e vestire gli ignudi, visitare gli infermi e i carcerati, seppellire i morti; e quelle spirituali: consigliare i dubbiosi e illuminare chi non sa, ammonire chi sbaglia e consolare gli afflitti, perdonare le offese e sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti). 
Alla Chiesa è chiesto di accompagnare con amore ogni cammino verso la misericordia del Signore e in particolare quello di chiunque si sia sentito o si senta escluso dall’abbraccio del Padre di misericordia e del Suo popolo (come per esempio i divorziati risposati, cui occorre annunciare sempre che Dio non ha cessato di amarli e che essi non hanno smesso di far parte della Sua famiglia).

L'Osservatore Romano