venerdì 18 settembre 2015

Di cosa parliamo quando parliamo di diritti civili



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di Costanza Miriano
“Niente muri sulle unioni gay, la questione è come riconoscerle”. Secondo il Corriere della Sera don Julian Carron ha detto queste parole, o qualcosa di fondamentalmente sovrapponibile. Ora, a parte i titoli forzati, a parte che questa come ha sottolineato Luigi Amicone su Tempi non è in nessun modo un’apertura al ddl Cirinnà (la quale effettivamente va molto oltre un “qualche riconoscimento”, equipara sostanzialmente le unioni al matrimonio e legittima la pratica dell’utero in affitto all’estero accettandone gli effetti in Italia), a parte tutto questo, dicevo, rimane il fatto del riconoscimento delle unioni. Cosa va riconosciuto, e perché, secondo un sacerdote della Chiesa Cattolica, il quale non può certo dimenticare che è la fede a dover giudicare il mondo, e non il contrario?
Giudicare, sì, non è una parolaccia ma un dovere altissimo, se si intende non giudicare gli individui ma il mondo, in questo caso una legge, alto dovere politico. Giudicare facendo bene attenzione a non farsi fagocitare da quelle che Benedetto XVI definiva “le nuove (solo pochi anni fa erano nuove, n.d.r.) potenti correnti culturali che non solo sono direttamente opposte a vari insegnamenti morali centrali della tradizione giudaico-cristiana, ma anche sempre più ostili al cristianesimo in quanto tale”. In questo senso io non ho niente contro i muri, anzi, alcuni di questi li benedico, perché mi custodiscono e mi orientano. Perché penso che il cristianesimo sia l’unica proposta di felicità possibile per l’uomo. Facciamo muro contro l’aborto, la violenza, lo smercio di organi di bambini, tanto per dire le prime cose che mi vengono in mente, e non c’è niente di brutto nell’avere certi muri: sono tendenzialmente a favore di muri e confini, a patto che abbiano le porte.
JULIAN CARRON
JULIAN CARRON
Cosa vuol dire “riconoscere le unioni omosessuali”? È evidente che la richiesta di riconoscimenti alle coppie omosessuali (e già dire gay significa essersi piegati a una sudditanza culturale) non c’entra niente con l’amore e l’affetto oppure la disistima e l’antipatia verso le persone che magari conosciamo direttamente, e che ci piacciono o meno non in base ai loro gusti sessuali o affettivi, ma per come sono, cosa pensano, come si comportano. Persone, appunto, non esseri monodimensionali, determinate dal sesso (se qualcuno mi definisce come eterosessuale io lo trovo offensivo: io non sono determinata dal fatto che mi piacciono gli uomini, ma casomai dal fatto che sono sposata, con uno).
Riconoscere a livello sociale, legislativo, giuridico una certa entità significa affermare che è qualcosa che ha una valenza sul piano pubblico. Ecco, io non credo che tutte le azioni o gli orientamenti privati vadano riconosciuti pubblicamente. Non solo non è necessario, ma io ne avrei orrore, la troverei una cosa inquietante, opprimente. L’amore per una persona non deve avere il sigillo pubblico: non è una cosa che riguarda la collettività, e sarebbe inquietante se lo fosse. Io non voglio che lo Stato entri nei miei sentimenti, mai, in nessun modo. Questa valenza pubblica ce l‘hanno solo le nostre azioni private che hanno ricadute sul bene – o sul male – comune: i nostri sentimenti li abbiamo voluti mettere nelle mani di Dio, io e mio marito, mentre allo Stato abbiamo chiesto un riconoscimento come famiglia – cioè un uomo e una donna disponibili ad accogliere la vita, se arriva – per tutelare i nostri figli (sul tipo di tutela ci sarebbe da dire…), perché è giusto che quello che va a costruire il bene comune sia tutelato. Costruisce il bene comune, per esempio, prendere in custodia nuovi cittadini, nuovi costruttori di cosa collettiva, nuovi pagatori di tasse, nuovi elettori, nuovi pagatori di contributi. Non abbiamo chiesto allo stato che benedicesse il nostro volerci bene, quella è una cosa fra noi e Dio, e nessun altro, tanto meno un giudice, un tribunale, un funzionario del comune, un sindaco. Perché allora, se il punto è l’affetto, non si dovrebbe riconoscere l’unione tra due cugini o due amici o uno zio e un nipote che decidono di vivere insieme, intestandosi la pensione di reversibilità (nel caso di due amici che si fa, si controlla se vanno anche a letto insieme, allora la pensione sì, sennò se sono solo amici no?).
Ma cerchiamo di andare sul concreto. Pino e Nino (o Pina e Nina) si vogliono bene. Vogliono avere una relazione stabile e duratura, fedele ed esclusiva. Vogliono comprare una casa insieme, intestarsela, registrarsi come conviventi, pagarla insieme e dividere le spese come si fa tra due che si amano, cioè senza stare a guardare chi mette di più, o chi fa di più per il bene di tutti e due. Se uno dei due sta male vogliono potersi andare a trovare reciprocamente in ospedale, se uno dei due dovesse finire in carcere vogliono avere il diritto di farsi visita, se uno dei due fosse collaboratore di giustizia o avesse bisogno di una speciale protezione da parte delle forze dell’ordine vogliono che anche l’altro, se necessario, venga tutelato. Pino e Nino queste cose già le possono fare, qui in Italia, oggi. Tutti questi diritti e anche molti altri lo Stato già li riconosce ai conviventi, cioè alle persone che stanno insieme in modo protratto nel tempo, indipendentemente dal sesso. Nessuno questi li mette in discussione: sono diritti individuali e non dell’unione in quanto tale. “Non fare muro sulle unioni gay”, dice Carron. Il muro lo farebbe chi cominciasse a protestare per questo tipo di diritti. Fare muro sarebbe impedire alle persone la propria libertà di amare chi e come vogliono, per il tempo che vogliono e nei modi che vogliono. Non credo che nessuno di noi, almeno parlo per me, si sognerebbe mai di fare una cosa del genere, cioè di intromettersi nel diritto privato delle persone. Nella loro affettività e sessualità.
Diverso è il discorso della Chiesa, che, maestra di umanità, invece in questi temi deve entrare, continuando a dire all’uomo che sia interessato ad ascoltarla – “chi vuol venire dietro a me”, e sottolineo “chi vuole” – qual è il suo vero bene, secondo il disegno di Dio sull’umanità. Questo la Chiesa deve continuare a dirlo, disarmata, certo, come la bellezza di cui parla Carron, ma sempre annunciando la vera bellezza all’uomo, cioè il disegno di Dio su di lui (o pensiamo che ci sia un’altra bellezza possibile?). Per inciso, invidio molto quelli che dicono di annunciare il Vangelo solo con la loro bellezza, io personalmente da quel punto di vista mi sento abbastanza brutta, certo non tanto bella da fermare le leggi col mio fulgore.
La Chiesa dunque ha il dovere e il diritto di parlare, ma solo a quelli che liberamente decidono di ascoltarla perché sono convinti che da lì passi la salvezza: ha quindi il diritto di dire la sua all’uomo sul matrimonio, sulla vita, sulla gestione dei soldi, dell’ambiente, sul rapporto con i poveri, con chi viene da paesi lontani, su qualsiasi tema sul quale l’uomo è chiamato a fare delle scelte. Lo Stato invece non deve assolutamente mettere bocca sull’affettività e sulla sessualità degli individui, cioè di persone adulte e libere. Credo che questa sia la vera laicità.
Io non vorrei mai che lo Stato dicesse la sua sui miei sentimenti, sulle mie passioni, su ciò che è solo mio, di mio marito, dei nostri figli. In sintesi, il matrimonio è riconosciuto solo per tutelare la eventuale discendenza, e siccome due persone dello stesso sesso una discendenza non ce l’hanno, una volta riconosciuti i diritti sacrosanti che hanno come individui, il discorso è chiuso.
Ma cosa vogliono davvero quelli che dicono di volere così tanto il matrimonio? In Francia dopo la Taubira le mariage pour tous è stato un flop, pochissimi i matrimoni registrati. Diciamo la verità, quello che qui è in gioco non sono i diritti, che già ci sono, ma il riconoscimento, lo sdoganamento, l’approvazione collettiva (e su questo molti omosessuali non concordano, anzi rivendicano orgogliosi il loro diritto alla privatissima libertà dal bisogno di “normalizzazione”). La battaglia che passa attraverso quella legislativa, è solo culturale, e sarebbe bello essere onesti, non usare strumentalmente piagnistei su diritti negati e discriminazioni. Questo è il senso dell’appropriarsi della simbologia, dell’archetipo del matrimonio come è stato inteso per migliaia e migliaia di anni: far scattare un meccanismo culturale che in ultima analisi, demolendo il senso del matrimonio come tutela della prole (dono alla madre l’etimo), porti alla assoluta autodeterminazione dell’uomo e della donna. Io non ricevo un’identità donata, dice l’uomo, ma mi faccio da solo. Io non ho un Padre, ma sono il mio signore. Al termine del processo si intravede l’esito: scardinare il concetto di persona che la cultura cristiana ha introdotto nel mondo (non c’era né in quella greca né in quella giudaica, non ci sarà neanche in quella musulmana). La persona è un essere in relazione (relazione sussistente in San Tommaso). Nella relazione è l’immagine di Dio, uno in tre persone, e la relazione fondamentale dell’uomo è quella tra maschile e femminile. Cioè Genesi 1, cioè robetta da niente, in gioco qui: giusto il concetto di persona e di Dio.
Io qualche muretto lo alzerei, non per ribadire chissà quale orgoglio identitario, ma per il bene dell’uomo vivente, gloria di Dio.