martedì 9 ottobre 2012

L'uomo che guarda


Qualche decennio fa, quando non era ancora bollito da crisi creativa/psicofarmaci/alcol, Stephen King scriveva libri eccellenti.
Nella prefazione di uno di questi, credo fosse l’antologia “A volte ritornano”, laddove descriveva i meccanismi creativi della suspense propria del genere horror, utilizzò un notevole esempio didascalico che spiegava bene quale strada dovesse seguire lo scrittore che volesse catturare l’attenzione del lettore per poi prenderlo per mano e accompagnarlo laggiù, dove la luce si spegne e la tenebra regna.
Cito a braccio: immaginate di viaggiare in auto lungo un’autostrada. A un certo punto vedete rottami sparsi sull’asfalto, illuminati da lontani lampeggianti rossi e blu. Poco più avanti vedete una ambulanza circondata da volanti della polizia. In mezzo a questo anfiteatro di luci e metallo vedete la carcassa di un auto semidisintegrata. Un poco discosto c’è un sudario insanguinato che ricopre forme contorte, una volta uomini e donne, ora carne maciullata. Ebbene, state pur sicuri che rallenterete: la curiosità prenderà il sopravvento sull’orrore della scena. O forse sarà proprio l’orrore della scena a farvi rallentare, per cercare di cogliere, di intuire almeno qualche tessera di quel mosaico di morte. Una parte di voi vorrà che quel sudario si sollevi e metta a nudo, nella sua cruenta brutalità, lo scempio di quei poveri corpi. E’ vero: forse lo farete in risposta ad una tensione apotropaica: “non è, grazie a Dio, successo a me”, vi direte. Ma le corde più profonde del vostro animo vibreranno per un’altra ragione: volete semplicemente vedere. Anche se ciò che vedrete vi terrorizzerà, vi schiferà, inciderà, forse, una ferita indelebile nel vostro inconscio. Anche se dopo sarà troppo tardi per tornare indietro.
Per King lo scrittore di genere aveva esattamente questo ruolo primario: sollevare il lenzuolo in risposta a quell’impulso atavico che, con sparute eccezioni, ci accomuna tutti.
Ora, finché il fenomeno è confinato nella passione per la letteratura horror, soprattutto se di qualità, nessun danno si produce: a parte, qualora ci si trovi di fronte ad un vero maestro, il riscoprirsi a dormire per qualche notte con la luce accesa anche a 30 anni suonati.
Ma quanto ha evidenziato lo scrittore americano in relazione alla letteratura risulta vieppiù veritiero in una infinità di aspetti del vissuto quotidiano di ciascuno.
La disgregazione a marce forzate dei vecchi e sani concetti di “bene” e “male”, il trionfo dello spontaneismo, nuova filosofia di vita per la quale ogni pulsione diviene in automatico legittima e giusta (sento, quindi sono) e, ultimo ma non ultimo, il diffondersi delle nuove tecnologie che mettono a disposizione tutto, subito e simultaneamente, hanno fatto si che quella che una volta poteva essere considerata semplice tensione al mistero, alle atmosfere cupe e terebranti che un tempo (quando a scuola ancora si studiava!) riconducevamo a Horace Walpole o ai “Canti di Ossian”, al tentativo di autoesorcizzare paure ataviche come quella del ritorno dei morti (la sepoltura rituale, il primo passo verso la formazione della civiltà ben prima dell’invenzione dell’alfabeto o del denaro, aveva esattamente questo scopo), è divenuta, pezzo dopo pezzo, venerazione del degrado.
Oggi non vogliamo più “sollevare il lenzuolo” per accertarci che non ci siano mostri: lo vogliamo fare per compiacerci nel guardare, sentire, assaporare fenomeni e comportamenti che, se da un lato la nostra coscienza perbenista ci fa ripugnare e ci impedisce di porre in essere in prima persona, dall’altro ci affascinano nella loro intrinseca perversità. Ci spingono alla ammirazione, instillano dubbi sulla nostra identità e sulla correttezza (maggiore o minore) del nostro approccio alla vita, suscitano, senza nemmeno troppo sforzo, desiderio di emulazione.
Gli esempi si sprecano. Provo a proporne qualcuno a fini esemplificativi.
Pensate a quanto la “curiosità”, categoria di per sé tutt’altro che negativa, sia diventata vero e proprio voyeaurismo: non appena vediamo la foto di una ragazza in bikini su Facebook il primo impulso è quello di cliccarci immediatamente sopra. Anche (e soprattutto) se non la conosciamo. Sono numerosissimi gli utenti dei social network che costruiscono veri e propri archivi con migliaia di foto reperite casualmente, per scopi all’apparenza non spiegabili.
La diffusione sempre più capillare della pornografia telematica è un altro sintomo critico dell’attitudine di cui parlavo poc’anzi: al di là della pulsione originaria (comunque errata, sia chiaro) assecondata dal bombardamento quotidiano cui i nostri sensi sono sottoposti, oggi siamo oltre il “semplice” libertinaggio. Esiste una distorta curiosità latente che spinge il “fruitore” a vedere, ricercare, scandagliare quanto a fondo, fino a che punto, uno o più individui possano spingersi sulla strada della profanazione del corpo. Parliamo di situazioni in cui, ormai sazi e saturi dello spiare quanto secondo natura l’uomo e la donna hanno sempre fatto nella segretezza del talamo dai tempi di Madre Eva, vogliamo qualcosa di più. Sempre qualcosa di più, soprattutto se ciò va oltre i confini del contro natura, dimenticando che, come scriveva Huysmans, “Se l’al di là del Bene è accessibile ad anime Sante ed elette, l’al di là del male non si raggiunge mai”. E se determinati comportamenti ci paiono inizialmente ributtanti e abominevoli, finiscono per diventare prima oggetto di scherno, quindi di emulazione. La cronaca purtroppo non manca di fornire quotidiani riscontri alla cosa.
Pensiamo poi alla percezione che il mondo giovanile ha oggi della criminalità: il reato viene spesso e volentieri visto come prova di coraggio, come test di iniziazione.
Perché stacca l’agente dalla massa. Più grossa la fai (magari uccidi un genitore, una suora o un coetaneo. O dai fuoco a un senzatetto) e più ti accrediti nel tuo entourage, il quale formalmente condanna, ma sostanzialmente invidia e vorrebbe condividere.
Pensiamo al compiacimento che i profeti della “body modification”, ovvero coloro che alterano volontariamente il proprio aspetto fisico con impianti sintetici (corna, aculei, escrescenze di vario genere), provano nel pubblicare le foto delle loro imprese e i video che riprendono le operazioni chirurgiche necessarie alla bisogna.
Noi, certo, non faremmo mai nulla del genere, ma tant’è siamo lì a visionare avidamente tale materiale.
O ancora pensiamo a quelle ragazze colpite da anoressia che postano quintali di foto in cui scimiottano le modelle di grido e che assolvono allo scopo di registrare, giorno dopo giorno, il progressivo disfacimento del proprio corpo. Un cupio dissolvi in cui non manca una componente perversa e, oserei dire, malvagia: “Ecco! Guardate cosa sono!”.
Per non parlare del “performer” (così vogliono essere chiamati…) cinese che ha cucinato e mangiato un feto abortito. Anche qualora si trattasse di un “fake”, ovvero di una montatura, è sconvolgente rilevare quanta curiosità e quanta attenzione abbia destato questo obbrobrio.
In sintesi, chi indulge nel degrado, lo pratica e ne diviene “ierofante”, acquisisce un potere. Un potere enorme: perché col suo semplice agire rende ogni giorno più digeribile, più assimilabile il male, ribaltandolo non necessariamente in bene, bensì banalizzandolo, rendendolo “normale”. Un dato acquisito, insomma, che appare ineluttabile a tutti coloro che non hanno saldezza di principi e notevole forza d’animo. O, più “banalmente”, Fede e sensibilità estetica.
Chi si fa campione di questa nuova “outrance” viene automaticamente legittimato da quanti sono quotidianamente incuriositi dalla “eccezionalità” dei suoi comportamenti o, meglio, dalla turpitudine delle sue malefatte.
Lo psicologismo d’assalto, nuova frontiera della nevrosi in questo tempo infausto, ci ha messo del suo: se una volta liquidavamo come semplice perversione determinati comportamenti (pensiamo alla santa solidità delle nostre nonne…), oggi siamo costretti a chiederci una quantità infinita di assurdi “perché?”, come se, in termini assoluti, non abbia più alcun valore l’esito di una determinata azione, ma ne debbano essere valutati solo i presupposti. E senza pregiudizi di sorta, guai al mondo!
E così che i profeti del male vorrebbero costringerci a cercare il nostro nuovo “ubi consistam”, il nostro “esserci”, non più attraverso percorsi naturali e consolidati, ridotti a banalità bigotte da educande, bensì attraverso la distorsione sistematica dei doni che il Creatore ci ha messo a disposizione.
Se non è trionfo del demoniaco questo, non so proprio cos’altro lo sia… (F. Natale)
Fonte: costanzamiriano.com