(Giulia
Galeotti) Le origini, la fede, il Vaticano II, il futuro. E un
auspicio: essere persone capaci di respirare nuovamente l’Assoluto -- Quest’anno
si celebra il millenario di fondazione dell’Eremo di Camaldoli. Ne
parliamo con il priore generale, dom Alessandro Barban, a cui chiediamo
innanzitutto un bilancio storico.
«Rivisitando — ci dice — la loro storia millenaria, la comunità di Camaldoli e la congregazione camaldolese tengono presenti tre indicazioni di massima. Primo, la figura di san Romualdo con il suo carisma, che ha segnato un momento di sintesi, e una svolta, nel monachesimo occidentale. In questi ultimi cinquant’anni, Romualdo e la sua proposta monastica sono stati maggiormente focalizzati sia alla luce dei nuovi studi storici, sia in seguito al concilio Vaticano II che ha invitato a tornare alle fonti della propria esperienza religiosa. Secondo, abbiamo avuto una storia molto ricca che si è intrecciata per mille anni con quella della Chiesa e con quella degli uomini. Vi sono state diverse fasi. Nei primi tre secoli (xi-XIV) la congregazione nasce e si organizza: è un periodo caratterizzato da figure eccezionali (quali Ambrogio Traversari e Paolo Giustiniani) e da un impegno culturale e di apertura che si comprende solo tenendo presente qualità e livello spirituale delle nostre comunità (Camaldoli, Firenze, Venezia). Ricordo il mappamondo di fra’ Mauro camaldolese: non è solo un’opera cartografica geniale, ma l’invito a guardare alla storia di terre lontane e di popoli sconosciuti, dilatando il proprio orizzonte. Quindi il secolo XVII, che segna l’attenzione alle nuove scoperte scientifiche (pensiamo alle ricerche matematiche di Grandi, monaco camaldolese che ha insegnato alla Normale di Pisa) e il XVIII, in cui si cerca di comprendere i cambiamenti del tempo. Purtroppo, l’Ottocento segna la fase più difficile anche per la nostra congregazione, soppressa prima da Napoleone e poi dal Regno d’Italia. La storia camaldolese sembrava finita, invece, i monaci tornano all’eremo verso la fine del secolo e, successivamente, al monastero. Nel 1935 si riapre la foresteria che, soprattutto dopo il concilio, diverrà luogo di ricerca, studio e confronto su temi teologici, biblici e patristici anche per tantissimi laici, da Montini a Pellegrino, da Dupont a Martini e De la Potterie, da La Pira a Moro e Lazzati, da Dossetti a Barsotti.
La terza indicazione?
Dovremo dire che abbiamo fatto storia: nel medioevo, non accettando le logiche feudatarie stringenti e mantenendo viva la dialettica tra eremo, monastero e mondo; nell’umanesimo, imparando il latino e il greco, arricchendo le nostre biblioteche di testi patristici e filosofici, essendo presenti con Traversari al concilio di Ferrara-Firenze, fissando le regole sulla foresta di Camaldoli scritte da Paolo Giustiniani, conosciute come Codice forestale camaldolese; e soprattutto, nel secondo dopoguerra, con il Codice di Camaldoli (sintesi del pensiero politico cattolico dell’epoca) e l’influenza post-conciliare esercitata dalla nostra comunità sulla Chiesa italiana. La nostra storia e la nostra presenza come monaci nella Chiesa di oggi sono stati richiamati nell’omelia di Benedetto XVI quando, il 10 marzo scorso, ci ha voluto incontrare a Roma nella chiesa di San Gregorio al Celio, per celebrare il nostro millenario. Sono ancora molto grato al Papa che, accogliendo l’invito, ci ha onorato con la sua visita, incoraggiandoci a proseguire il nostro cammino monastico.
Tre gli aspetti essenziali del carisma camaldolese. Come sono cambiati, se sono cambiati, in questi mille anni?
È san Bruno di Querfurt che menziona nella sua opera agiografica La vita dei cinque Fratelli la sintesi monastica di Romualdo: il cenobio, cioè la vita di comunione, per coloro che vengono dal mondo e sono ancora dei principianti; l’eremo, ovvero la pratica della solitudine, per i più maturi e per quelli che vogliono dedicarsi interamente alla vita contemplativa; l’evangelium paganorum, ovvero la missione ad extra (oggi potremo parlare di evangelizzazione) per coloro che volevano diffondere il Vangelo rischiando il martirio. Sappiamo che il monachesimo missionario era sostenuto nella corte di Ottone III, ma non era valorizzato dal monachesimo tradizionale che si rifaceva a Montecassino e, poi, a Cluny. Su indicazione del fondatore, le prime regole eremitiche di Camaldoli delineano e organizzano la vita monastica tra eremo e monastero. La storia della congregazione testimonia la centralità di entrambi, ma anche una forte diffusione dei camaldolesi in tante città importanti del centro-nord Italia, fino ad arrivare alla nascita di altre due congregazioni: la prima di carattere eremitico (i monaci camaldolesi di Monte Corona, ancora presente in Italia e all’estero) e la seconda di tipo cenobitico (la cui storia termina nel 1935). Dopo la scoperta della Vita dei cinque Fratelli nell’Ottocento, abbiamo constatato che la storia dei monaci camaldolesi ha vissuto di fatto l’indicazione tripartita indicata da Bruno di Querfurt mettendola in atto secondo una pluralità di forme. Oggi pensiamo che la ricchezza di tale carisma possa essere vissuta secondo il carattere e la personalità di ciascun monaco, ma in tutti noi dovremo far maturare la dimensione eremitica della conoscenza di sé e dell’incontro interiore con Dio, il tratto della comunione nel saper accogliere col dialogo e la fraternità l’alterità dell’altro, e l’apertura a servire Dio, la Chiesa e gli uomini attraverso la pastorale dell’evangelizzazione.
I monaci camaldolesi hanno preso il loro nome non dal fondatore ma dal posto: Joseph H. Wong ha aggiunto un quarto carisma, quello del luogo.
È una proposta senz’altro interessante, ma non significa affatto che noi camaldolesi riceviamo il nostro carisma dal luogo e non da Romualdo. Potremo dire che dopo tanto peregrinare, Romualdo ebbe la gioia di trovare il luogo più adatto per realizzare il suo ideale monastico. Non dobbiamo dimenticare che egli cercò per anni un luogo dove realizzarlo, e che in altre due occasioni vi aveva tentato (al Pereo, vicino a Ravenna, e poi a Sitria, vicino a Fonte Avellana tra Umbria e Marche), dovendo però desistere e ricominciare da capo. Secondo alcuni storici il nome Camaldoli sarebbe una contrazione linguistica di campus amabilis, che stando alle fonti più antiche era la denominazione del territorio nel quale Romualdo si fermò e poi decise di lasciare i suoi cinque discepoli per costruirvi l’eremo. Si determinò un’armonia loci: l’eremo a 1.170 metri, e poi il monastero a 800, luogo di pace, bellezza, solitudine e silenzio dovuti alla natura circostante, grazie alla foresta piantata dai monaci stessi e alla disposizione delle celle eremitiche. Tutto ha contribuito all’attuale armonia loci di Camaldoli che mette ancor più in risalto il carisma di Romualdo.
Come priore generale, a quale dei suoi predecessori si rifà?
Sono attratto da due figure che hanno dato un grande contributo alla storia della congregazione: Dolfin (detto il Delfino) e Traversari. Dolfin era animato da una fede che si apriva alla cultura umanistica del suo tempo: per il suo stile di vita (viaggiava continuamente per visitare le case dell’ordine) e per la “lingua umanistica” che parlava, non fu sempre capito, soprattutto a Camaldoli. Bisognerebbe leggere le migliaia di lettere che scrisse per rendersi conto non solo della qualità della sua fede e della sua capacità di riflessione, ma anche della ricchezza delle sue intuizioni. Traversari, uomo dottissimo che padroneggiava il greco come nessuno al tempo e che leggeva i padri e i filosofi in lingua originale, dopo anni di vita claustrale condotta nel monastero di Santa Maria degli Angeli a Firenze, fu il perito di fiducia del Papa al concilio di Ferrara-Firenze, riuscendo a trovare un accordo con i vescovi orientali. È quasi certo che sia lui l’autore della bolla Laetentur caeli che segnava la riconciliazione tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse del tempo. Purtroppo, di tale accordo non se ne fece niente: al momento di rientrare nelle loro diocesi, la maggioranza dei vescovi orientali fu costretta (soprattutto per motivi politici) a rinnegare gli esiti del concilio. In tempi più recenti, dom Benedetto Calati ha lasciato a tutti noi un’eredità di riflessione sapienziale e di parresìa, che hanno indotto molti a parlare di testimonianza profetica all’interno della Chiesa.
Il cardinale Giuseppe Bertello, inviato speciale del Papa per il vostro millenario, ha ricordato nell’omelia della festa di San Romualdo (19 giugno) che per la contemplazione di Dio fattosi uomo, gli occhi del santo «si riempivano di calde lacrime non solo di conversione e di afflizione, ma anche di gioia e di attesa del giorno del suo incontro con il Signore».
Romualdo, come racconta Pier Damiani, aveva il dono della compunctio cordis e delle lacrime. Sembra che nella maturità della sua esperienza spirituale ricevesse questo dono ogni giorno, e se non ogni giorno, tanto spesso, che, per le lacrime che non riusciva a trattenere, era costretto a un maggior nascondimento nella solitudine e nella preghiera. Nel momento in cui si soffre per i propri peccati e per la miseria del proprio esistere, la compunzione del cuore ha dato la gioia a tantissimi santi e sante di sperimentare come non mai la misericordia di Dio. Ed è la presenza stessa di Dio che comunica il desiderio infinito di comunione con lui. Di fronte a tanta grazia, si piange di gioia e si spera che il giorno dell’incontro sia il più vicino possibile. La vigilanza allora si trasforma in attesa di Dio.
Insieme con tutta la congregazione camaldolese, lei sta riflettendo sull’attualità della spiritualità benedettina camaldolese nella sua apertura al futuro.
Credo sia importante distinguere tra futuro e avvenire. Il futuro è il frutto dei nostri programmi e delle nostre aspettative; l’avvenire, invece, è da intendersi come il venire nuovo e sorprendente di Dio alle nostre comunità, alle nostre vite personali, alla Chiesa e alla storia di oggi. Spero che il monachesimo in generale, e quello camaldolese in particolare, sia capace di intercettare questo avvenire, e di tradurlo alla luce del Vangelo in esistenza e quotidianità concrete. Siamo a un bivio: da una parte, c’è la perdita di speranza causata dalla stanchezza, dalla delusione e dalla depressione che minano la nostra fede e la nostra società (specie qui in Europa); dall’altra, c’è il rischio di fermarci “qui” e “ora”, come se non ci fosse ulteriore strada da percorrere. Anzi, mi pare che, intuendo il nuovo che arriva, siamo tentati in tutti i campi (dalla politica all’economia, dalla cultura alla società, anche dentro la Chiesa stessa), a guardare indietro, a ciò che siamo stati e abbiamo conseguito (sperando di non fare la fine della moglie di Lot!), piuttosto che prepararci ai cambiamenti che si dovranno affrontare nei prossimi anni. Chi guarda al domani cercando di discernere cosa si sta preparando in Europa e negli Stati Uniti, in Cina, India e Africa (per richiamare gli scenari continentali più interessanti)? Ci rendiamo conto che l’Europa è chiamata sì a continuare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, ma a divenire soprattutto l’interlocutrice della Cina? Una civiltà millenaria come quella cinese, proprio per la sua storia, può trovare solo nell’Europa la realtà culturale più corrispondente a se stessa. Credo che — se non per scelta, almeno per necessità — giungeremo alla costituzione della Comunità politica europea. Ma questa Europa nuova è tutta da costruire. Poi c’è l’area islamica, dall’Egitto all’Indonesia, attraversata dal virus del fanatismo religioso, finanziato da evidenti interessi politici. Questo fanatismo terroristico è già di per sé un progetto perdente, e non aiuterà i Paesi musulmani a partecipare alle trasformazioni in atto. I Paesi islamici riusciranno ad acquisire la democrazia e a praticarla? Non mi pare che a tutt’oggi la religione musulmana riesca ad accogliere il principio della libertà delle persone. Ritengo, inoltre, che nei prossimi due decenni assisteremo a novità sorprendenti in tanti settori della scienza e della tecnologia, novità che implicheranno un nuovo discorso morale e uno sguardo di comprensione differente rispetto a quello di oggi. Il cambiamento ci sorprenderà, non solo perché sarà più veloce rispetto a qualsiasi altro processo storico precedente, ma perché sarà sconvolgente sul piano del contenuto. La politica in Occidente inoltre diventerà sempre più pragmatica, disgiunta da una seria riflessione culturale. Assisteremo alla lotta tra forme diverse di capitalismo: parliamo già oggi di capitalismi differenti (da quello delle banche a quello della produzione e del lavoro, dal capitalismo del petrolio a quello della fusione nucleare o a quello dell’idrogeno e della green economy).
E le religioni?
Le religioni saranno le voci critiche e di elaborazione per un discorso profondo di spiritualità da focalizzare a più livelli per il bene dell’umanità. Le Chiese cristiane si sentiranno chiamate a una maggiore collaborazione e a testimoniare una più grande unità. Ci sarà una competizione (speriamo pacifica) tra le fedi rispetto ai problemi che sorgeranno, e alla capacità delle loro risposte di essere significative e profetiche. Confrontandosi con le sfide di domani, alcune di loro (islamismo e induismo) attraverseranno una crisi ancor più profonda di quella attuale. Sarà difficile comprendere la società sempre più inter-connessa dei prossimi decenni: se la valuteremo solo come un esito del nostro futuro e dei poteri politico-economici contrastanti, ci sembrerà una società caratterizzata da grandi contraddizioni e da grandi tradimenti rispetto a idee, valori e progetti del Novecento. Se la guarderemo dal punto di vista dell’avvenire, vedremo l’avvio di tante parabole inedite e di molteplici scenari che non riusciremo sempre a comprendere con lo sguardo di oggi. Non dovremo lasciarci abbagliare dalla loro novità, ma saper intercettare quelle parabole che si costituiranno in proposte compiute, mentre tante altre avranno vita breve. In questo orizzonte il cristianesimo con i suoi valori evangelici (libertà, giustizia, pace, fraternità) avrà tanto da offrire. E se riuscirà a dialogare con il confucianesimo e il buddismo, continuerà a ispirare e forse anche a influenzare positivamente la storia che si aprirà davanti a noi. In questo quadro il monachesimo con la sua sapienza millenaria sarà di grande aiuto per la Chiesa dei prossimi decenni.
Si è appena celebrato un altro grande anniversario: cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II, concilio che lei ha definito monastico.
Sono convinto che lo Spirito Santo abbia guidato la Chiesa a svolgere il concilio in un senso monastico, perché è proprio del monachesimo conservare il contenuto della tradizione evangelica ed ecclesiale al di là delle forme esterne, interpretandolo e riproponendolo dentro ai cambiamenti della storia. Di fatto il Vaticano II è il primo concilio che non viene convocato né per difendere il depositum fidei condannando dottrine erronee, né per stabilire nuovi dogmi, ma per interpretare la fede nel contesto delle trasformazioni richiamate sopra. E, soprattutto, per disegnare la pastorale dell’avvenire della Chiesa stessa, cioè la sua presenza e la sua azione, inculturando il kèrigma nella pluralità di ambiti geografici e culturali mondiali. Se, poi, leggiamo bene i testi, si sente che essi respirano della teologia monastica dei Padri della Chiesa.
Anche verso il concilio lei ha un approccio che guarda avanti. Ha detto che il cammino di riforma conciliare non è affatto concluso, potrà riprendere solo se ci saranno ancora uomini e donne che respireranno nuovamente l’Assoluto.
Ci credo profondamente! Come è stato osservato, i cinquant’anni del concilio sono troppo pochi per vederne ancora tutte le prospettive future, non solo ad intra per la Chiesa, ma ancor più ad extra nella sua interconnessione con le trasformazioni del mondo. Il Vaticano II è una tappa nella storia della Chiesa da cui non si può prescindere e da cui non si potrà più tornare indietro. Giovanni Paolo II disse che il concilio è la grazia più grande che Dio abbia fatto alla Chiesa nel Novecento. Bisogna poi tenere presente l’insegnamento di Benedetto XVI, che ha indicato l’ermeneutica della continuità per comprendere l’evento conciliare. In questa luce, il Vaticano II è stato un momento apicale nei duemila anni di storia della Chiesa perché ha dato inizio a un cammino di riforma proponendo come metodo il ritorno alle fonti: alla fonte della liturgia e della Parola di Dio, alla fonte originaria della Chiesa come koinonìa e communio, a quello stile proprio di Gesù fatto di incontro, dialogo e ospitalità. Con il Vaticano II la Chiesa cattolica prendeva la parola rivolgendosi a tutte le genti, parlando il linguaggio del Vangelo. Dopo cinquant’anni, in questo tempo a volte rumoroso e convulso (perché diversi hanno preteso di incarnare il concilio in un contatto troppo ravvicinato con lo spirito del tempo), ritengo che il primo momento del post-concilio sia terminato, e che tocchi proprio a Benedetto XVI introdurci nella seconda fase, certamente più pensata, più teologica e spirituale. Saranno gli uomini e le donne che respireranno nuovamente l’Assoluto di Dio a saper tradurre il dono del concilio per la Chiesa di domani. Il Vaticano II, fatto da grandi uomini di fede di ieri lasciandoci un’eredità immensa, è tenuto vivo oggi da tanti credenti in Dio nelle diverse parti del mondo: ma ritengo anche che esso sarà la stella polare dei battezzati di domani. E non solo della Chiesa cattolica, ma delle altre Chiese cristiane, e forse anche delle altre religioni, per acquisirne il metodo teologico e lo sguardo di orizzonte per cogliere la storia degli uomini.
L'Osservatore Romano 1° novembre 2012
«Rivisitando — ci dice — la loro storia millenaria, la comunità di Camaldoli e la congregazione camaldolese tengono presenti tre indicazioni di massima. Primo, la figura di san Romualdo con il suo carisma, che ha segnato un momento di sintesi, e una svolta, nel monachesimo occidentale. In questi ultimi cinquant’anni, Romualdo e la sua proposta monastica sono stati maggiormente focalizzati sia alla luce dei nuovi studi storici, sia in seguito al concilio Vaticano II che ha invitato a tornare alle fonti della propria esperienza religiosa. Secondo, abbiamo avuto una storia molto ricca che si è intrecciata per mille anni con quella della Chiesa e con quella degli uomini. Vi sono state diverse fasi. Nei primi tre secoli (xi-XIV) la congregazione nasce e si organizza: è un periodo caratterizzato da figure eccezionali (quali Ambrogio Traversari e Paolo Giustiniani) e da un impegno culturale e di apertura che si comprende solo tenendo presente qualità e livello spirituale delle nostre comunità (Camaldoli, Firenze, Venezia). Ricordo il mappamondo di fra’ Mauro camaldolese: non è solo un’opera cartografica geniale, ma l’invito a guardare alla storia di terre lontane e di popoli sconosciuti, dilatando il proprio orizzonte. Quindi il secolo XVII, che segna l’attenzione alle nuove scoperte scientifiche (pensiamo alle ricerche matematiche di Grandi, monaco camaldolese che ha insegnato alla Normale di Pisa) e il XVIII, in cui si cerca di comprendere i cambiamenti del tempo. Purtroppo, l’Ottocento segna la fase più difficile anche per la nostra congregazione, soppressa prima da Napoleone e poi dal Regno d’Italia. La storia camaldolese sembrava finita, invece, i monaci tornano all’eremo verso la fine del secolo e, successivamente, al monastero. Nel 1935 si riapre la foresteria che, soprattutto dopo il concilio, diverrà luogo di ricerca, studio e confronto su temi teologici, biblici e patristici anche per tantissimi laici, da Montini a Pellegrino, da Dupont a Martini e De la Potterie, da La Pira a Moro e Lazzati, da Dossetti a Barsotti.
La terza indicazione?
Dovremo dire che abbiamo fatto storia: nel medioevo, non accettando le logiche feudatarie stringenti e mantenendo viva la dialettica tra eremo, monastero e mondo; nell’umanesimo, imparando il latino e il greco, arricchendo le nostre biblioteche di testi patristici e filosofici, essendo presenti con Traversari al concilio di Ferrara-Firenze, fissando le regole sulla foresta di Camaldoli scritte da Paolo Giustiniani, conosciute come Codice forestale camaldolese; e soprattutto, nel secondo dopoguerra, con il Codice di Camaldoli (sintesi del pensiero politico cattolico dell’epoca) e l’influenza post-conciliare esercitata dalla nostra comunità sulla Chiesa italiana. La nostra storia e la nostra presenza come monaci nella Chiesa di oggi sono stati richiamati nell’omelia di Benedetto XVI quando, il 10 marzo scorso, ci ha voluto incontrare a Roma nella chiesa di San Gregorio al Celio, per celebrare il nostro millenario. Sono ancora molto grato al Papa che, accogliendo l’invito, ci ha onorato con la sua visita, incoraggiandoci a proseguire il nostro cammino monastico.
Tre gli aspetti essenziali del carisma camaldolese. Come sono cambiati, se sono cambiati, in questi mille anni?
È san Bruno di Querfurt che menziona nella sua opera agiografica La vita dei cinque Fratelli la sintesi monastica di Romualdo: il cenobio, cioè la vita di comunione, per coloro che vengono dal mondo e sono ancora dei principianti; l’eremo, ovvero la pratica della solitudine, per i più maturi e per quelli che vogliono dedicarsi interamente alla vita contemplativa; l’evangelium paganorum, ovvero la missione ad extra (oggi potremo parlare di evangelizzazione) per coloro che volevano diffondere il Vangelo rischiando il martirio. Sappiamo che il monachesimo missionario era sostenuto nella corte di Ottone III, ma non era valorizzato dal monachesimo tradizionale che si rifaceva a Montecassino e, poi, a Cluny. Su indicazione del fondatore, le prime regole eremitiche di Camaldoli delineano e organizzano la vita monastica tra eremo e monastero. La storia della congregazione testimonia la centralità di entrambi, ma anche una forte diffusione dei camaldolesi in tante città importanti del centro-nord Italia, fino ad arrivare alla nascita di altre due congregazioni: la prima di carattere eremitico (i monaci camaldolesi di Monte Corona, ancora presente in Italia e all’estero) e la seconda di tipo cenobitico (la cui storia termina nel 1935). Dopo la scoperta della Vita dei cinque Fratelli nell’Ottocento, abbiamo constatato che la storia dei monaci camaldolesi ha vissuto di fatto l’indicazione tripartita indicata da Bruno di Querfurt mettendola in atto secondo una pluralità di forme. Oggi pensiamo che la ricchezza di tale carisma possa essere vissuta secondo il carattere e la personalità di ciascun monaco, ma in tutti noi dovremo far maturare la dimensione eremitica della conoscenza di sé e dell’incontro interiore con Dio, il tratto della comunione nel saper accogliere col dialogo e la fraternità l’alterità dell’altro, e l’apertura a servire Dio, la Chiesa e gli uomini attraverso la pastorale dell’evangelizzazione.
I monaci camaldolesi hanno preso il loro nome non dal fondatore ma dal posto: Joseph H. Wong ha aggiunto un quarto carisma, quello del luogo.
È una proposta senz’altro interessante, ma non significa affatto che noi camaldolesi riceviamo il nostro carisma dal luogo e non da Romualdo. Potremo dire che dopo tanto peregrinare, Romualdo ebbe la gioia di trovare il luogo più adatto per realizzare il suo ideale monastico. Non dobbiamo dimenticare che egli cercò per anni un luogo dove realizzarlo, e che in altre due occasioni vi aveva tentato (al Pereo, vicino a Ravenna, e poi a Sitria, vicino a Fonte Avellana tra Umbria e Marche), dovendo però desistere e ricominciare da capo. Secondo alcuni storici il nome Camaldoli sarebbe una contrazione linguistica di campus amabilis, che stando alle fonti più antiche era la denominazione del territorio nel quale Romualdo si fermò e poi decise di lasciare i suoi cinque discepoli per costruirvi l’eremo. Si determinò un’armonia loci: l’eremo a 1.170 metri, e poi il monastero a 800, luogo di pace, bellezza, solitudine e silenzio dovuti alla natura circostante, grazie alla foresta piantata dai monaci stessi e alla disposizione delle celle eremitiche. Tutto ha contribuito all’attuale armonia loci di Camaldoli che mette ancor più in risalto il carisma di Romualdo.
Come priore generale, a quale dei suoi predecessori si rifà?
Sono attratto da due figure che hanno dato un grande contributo alla storia della congregazione: Dolfin (detto il Delfino) e Traversari. Dolfin era animato da una fede che si apriva alla cultura umanistica del suo tempo: per il suo stile di vita (viaggiava continuamente per visitare le case dell’ordine) e per la “lingua umanistica” che parlava, non fu sempre capito, soprattutto a Camaldoli. Bisognerebbe leggere le migliaia di lettere che scrisse per rendersi conto non solo della qualità della sua fede e della sua capacità di riflessione, ma anche della ricchezza delle sue intuizioni. Traversari, uomo dottissimo che padroneggiava il greco come nessuno al tempo e che leggeva i padri e i filosofi in lingua originale, dopo anni di vita claustrale condotta nel monastero di Santa Maria degli Angeli a Firenze, fu il perito di fiducia del Papa al concilio di Ferrara-Firenze, riuscendo a trovare un accordo con i vescovi orientali. È quasi certo che sia lui l’autore della bolla Laetentur caeli che segnava la riconciliazione tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse del tempo. Purtroppo, di tale accordo non se ne fece niente: al momento di rientrare nelle loro diocesi, la maggioranza dei vescovi orientali fu costretta (soprattutto per motivi politici) a rinnegare gli esiti del concilio. In tempi più recenti, dom Benedetto Calati ha lasciato a tutti noi un’eredità di riflessione sapienziale e di parresìa, che hanno indotto molti a parlare di testimonianza profetica all’interno della Chiesa.
Il cardinale Giuseppe Bertello, inviato speciale del Papa per il vostro millenario, ha ricordato nell’omelia della festa di San Romualdo (19 giugno) che per la contemplazione di Dio fattosi uomo, gli occhi del santo «si riempivano di calde lacrime non solo di conversione e di afflizione, ma anche di gioia e di attesa del giorno del suo incontro con il Signore».
Romualdo, come racconta Pier Damiani, aveva il dono della compunctio cordis e delle lacrime. Sembra che nella maturità della sua esperienza spirituale ricevesse questo dono ogni giorno, e se non ogni giorno, tanto spesso, che, per le lacrime che non riusciva a trattenere, era costretto a un maggior nascondimento nella solitudine e nella preghiera. Nel momento in cui si soffre per i propri peccati e per la miseria del proprio esistere, la compunzione del cuore ha dato la gioia a tantissimi santi e sante di sperimentare come non mai la misericordia di Dio. Ed è la presenza stessa di Dio che comunica il desiderio infinito di comunione con lui. Di fronte a tanta grazia, si piange di gioia e si spera che il giorno dell’incontro sia il più vicino possibile. La vigilanza allora si trasforma in attesa di Dio.
Insieme con tutta la congregazione camaldolese, lei sta riflettendo sull’attualità della spiritualità benedettina camaldolese nella sua apertura al futuro.
Credo sia importante distinguere tra futuro e avvenire. Il futuro è il frutto dei nostri programmi e delle nostre aspettative; l’avvenire, invece, è da intendersi come il venire nuovo e sorprendente di Dio alle nostre comunità, alle nostre vite personali, alla Chiesa e alla storia di oggi. Spero che il monachesimo in generale, e quello camaldolese in particolare, sia capace di intercettare questo avvenire, e di tradurlo alla luce del Vangelo in esistenza e quotidianità concrete. Siamo a un bivio: da una parte, c’è la perdita di speranza causata dalla stanchezza, dalla delusione e dalla depressione che minano la nostra fede e la nostra società (specie qui in Europa); dall’altra, c’è il rischio di fermarci “qui” e “ora”, come se non ci fosse ulteriore strada da percorrere. Anzi, mi pare che, intuendo il nuovo che arriva, siamo tentati in tutti i campi (dalla politica all’economia, dalla cultura alla società, anche dentro la Chiesa stessa), a guardare indietro, a ciò che siamo stati e abbiamo conseguito (sperando di non fare la fine della moglie di Lot!), piuttosto che prepararci ai cambiamenti che si dovranno affrontare nei prossimi anni. Chi guarda al domani cercando di discernere cosa si sta preparando in Europa e negli Stati Uniti, in Cina, India e Africa (per richiamare gli scenari continentali più interessanti)? Ci rendiamo conto che l’Europa è chiamata sì a continuare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, ma a divenire soprattutto l’interlocutrice della Cina? Una civiltà millenaria come quella cinese, proprio per la sua storia, può trovare solo nell’Europa la realtà culturale più corrispondente a se stessa. Credo che — se non per scelta, almeno per necessità — giungeremo alla costituzione della Comunità politica europea. Ma questa Europa nuova è tutta da costruire. Poi c’è l’area islamica, dall’Egitto all’Indonesia, attraversata dal virus del fanatismo religioso, finanziato da evidenti interessi politici. Questo fanatismo terroristico è già di per sé un progetto perdente, e non aiuterà i Paesi musulmani a partecipare alle trasformazioni in atto. I Paesi islamici riusciranno ad acquisire la democrazia e a praticarla? Non mi pare che a tutt’oggi la religione musulmana riesca ad accogliere il principio della libertà delle persone. Ritengo, inoltre, che nei prossimi due decenni assisteremo a novità sorprendenti in tanti settori della scienza e della tecnologia, novità che implicheranno un nuovo discorso morale e uno sguardo di comprensione differente rispetto a quello di oggi. Il cambiamento ci sorprenderà, non solo perché sarà più veloce rispetto a qualsiasi altro processo storico precedente, ma perché sarà sconvolgente sul piano del contenuto. La politica in Occidente inoltre diventerà sempre più pragmatica, disgiunta da una seria riflessione culturale. Assisteremo alla lotta tra forme diverse di capitalismo: parliamo già oggi di capitalismi differenti (da quello delle banche a quello della produzione e del lavoro, dal capitalismo del petrolio a quello della fusione nucleare o a quello dell’idrogeno e della green economy).
E le religioni?
Le religioni saranno le voci critiche e di elaborazione per un discorso profondo di spiritualità da focalizzare a più livelli per il bene dell’umanità. Le Chiese cristiane si sentiranno chiamate a una maggiore collaborazione e a testimoniare una più grande unità. Ci sarà una competizione (speriamo pacifica) tra le fedi rispetto ai problemi che sorgeranno, e alla capacità delle loro risposte di essere significative e profetiche. Confrontandosi con le sfide di domani, alcune di loro (islamismo e induismo) attraverseranno una crisi ancor più profonda di quella attuale. Sarà difficile comprendere la società sempre più inter-connessa dei prossimi decenni: se la valuteremo solo come un esito del nostro futuro e dei poteri politico-economici contrastanti, ci sembrerà una società caratterizzata da grandi contraddizioni e da grandi tradimenti rispetto a idee, valori e progetti del Novecento. Se la guarderemo dal punto di vista dell’avvenire, vedremo l’avvio di tante parabole inedite e di molteplici scenari che non riusciremo sempre a comprendere con lo sguardo di oggi. Non dovremo lasciarci abbagliare dalla loro novità, ma saper intercettare quelle parabole che si costituiranno in proposte compiute, mentre tante altre avranno vita breve. In questo orizzonte il cristianesimo con i suoi valori evangelici (libertà, giustizia, pace, fraternità) avrà tanto da offrire. E se riuscirà a dialogare con il confucianesimo e il buddismo, continuerà a ispirare e forse anche a influenzare positivamente la storia che si aprirà davanti a noi. In questo quadro il monachesimo con la sua sapienza millenaria sarà di grande aiuto per la Chiesa dei prossimi decenni.
Si è appena celebrato un altro grande anniversario: cinquant’anni dall’apertura del Vaticano II, concilio che lei ha definito monastico.
Sono convinto che lo Spirito Santo abbia guidato la Chiesa a svolgere il concilio in un senso monastico, perché è proprio del monachesimo conservare il contenuto della tradizione evangelica ed ecclesiale al di là delle forme esterne, interpretandolo e riproponendolo dentro ai cambiamenti della storia. Di fatto il Vaticano II è il primo concilio che non viene convocato né per difendere il depositum fidei condannando dottrine erronee, né per stabilire nuovi dogmi, ma per interpretare la fede nel contesto delle trasformazioni richiamate sopra. E, soprattutto, per disegnare la pastorale dell’avvenire della Chiesa stessa, cioè la sua presenza e la sua azione, inculturando il kèrigma nella pluralità di ambiti geografici e culturali mondiali. Se, poi, leggiamo bene i testi, si sente che essi respirano della teologia monastica dei Padri della Chiesa.
Anche verso il concilio lei ha un approccio che guarda avanti. Ha detto che il cammino di riforma conciliare non è affatto concluso, potrà riprendere solo se ci saranno ancora uomini e donne che respireranno nuovamente l’Assoluto.
Ci credo profondamente! Come è stato osservato, i cinquant’anni del concilio sono troppo pochi per vederne ancora tutte le prospettive future, non solo ad intra per la Chiesa, ma ancor più ad extra nella sua interconnessione con le trasformazioni del mondo. Il Vaticano II è una tappa nella storia della Chiesa da cui non si può prescindere e da cui non si potrà più tornare indietro. Giovanni Paolo II disse che il concilio è la grazia più grande che Dio abbia fatto alla Chiesa nel Novecento. Bisogna poi tenere presente l’insegnamento di Benedetto XVI, che ha indicato l’ermeneutica della continuità per comprendere l’evento conciliare. In questa luce, il Vaticano II è stato un momento apicale nei duemila anni di storia della Chiesa perché ha dato inizio a un cammino di riforma proponendo come metodo il ritorno alle fonti: alla fonte della liturgia e della Parola di Dio, alla fonte originaria della Chiesa come koinonìa e communio, a quello stile proprio di Gesù fatto di incontro, dialogo e ospitalità. Con il Vaticano II la Chiesa cattolica prendeva la parola rivolgendosi a tutte le genti, parlando il linguaggio del Vangelo. Dopo cinquant’anni, in questo tempo a volte rumoroso e convulso (perché diversi hanno preteso di incarnare il concilio in un contatto troppo ravvicinato con lo spirito del tempo), ritengo che il primo momento del post-concilio sia terminato, e che tocchi proprio a Benedetto XVI introdurci nella seconda fase, certamente più pensata, più teologica e spirituale. Saranno gli uomini e le donne che respireranno nuovamente l’Assoluto di Dio a saper tradurre il dono del concilio per la Chiesa di domani. Il Vaticano II, fatto da grandi uomini di fede di ieri lasciandoci un’eredità immensa, è tenuto vivo oggi da tanti credenti in Dio nelle diverse parti del mondo: ma ritengo anche che esso sarà la stella polare dei battezzati di domani. E non solo della Chiesa cattolica, ma delle altre Chiese cristiane, e forse anche delle altre religioni, per acquisirne il metodo teologico e lo sguardo di orizzonte per cogliere la storia degli uomini.
L'Osservatore Romano 1° novembre 2012