mercoledì 31 ottobre 2012

La Chiesa sfida Halloween



Niente zucche, mostri, o teschi, ma volti di Santi: la Chiesa cattolica sfida Halloween. A Roma come a Torino, a Genova come a Benevento, in Polonia come nelle Filippine, i cattolici e le gerarchie ecclesiastiche organizzano e propongono iniziative, oppure rilasciano dichiarazioni, per la notte tra il 31 ottobre e l’1 novembre, affinché venga vissuta e celebrata come la notte di Ognissanti e NON della  tradizionale simbologia dell’occulto proveniente dagli Usa.


Ecco una carrellata di appuntamenti dichiaratamente «anti-halloween».


Roma. Alle 22,30, presso la basilica di Sant’Anastasia, verrà celebrata una s. Messa «in riparazione agli oltraggi e alle profanazioni che si consumano nella notte di Halloween», afferma don Aldo Buonaiuto, animatore generale del servizio «AntiSette» dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi; seguirà la Processione eucaristica e una fiaccolata nel Circo Massimo, «luogo del martirio dei primi cristiani». La Cerimonia religiosa sarà presieduta dallo stesso  don Buonaiuto.


Torino. «Con sale in zucca. Voi siete il sale della terra (Mt.5,13)» è il titolo della «Notte dei Santi» edizione 2012, organizzata dall’Arcidiocesi di Torino – Ufficio di Pastorale giovanile nel Centro Congressi Santo Volto, a partire dalle 21,30. Il programma prevede preghiera, riflessioni, festa, musica, arte, cultura, cabaret; l’Arcivescovo di Torino mons. Cesare Nosiglia concluderà la serata avviando l’adorazione eucaristica notturna.


Polonia. In un messaggio pubblicato sul sito internet dell’arcidiocesi di Varsavia la ricorrenza di Halloween viene definita dalla Chiesa cattolica polacca «un frutto della propagazione dell’occultismo e della magia», che ha «le sue radici nell’adorazione pagana degli spiriti e di un dio celtico della morte». «Con la scusa di divertirsi», prosegue la nota, «si invitano i bambini e gli adulti a praticare l’occultismo, e questo è in contraddizione con la Chiesa e con la vocazione cristiana».


Sassuolo (provincia di Modena). Tenere in casa i figli; andare in parrocchia e vestirsi da Santi, oppure con abiti bianchi; portarli in chiesa il giorno di Ognissanti: sono gli «ordini» di don Ermes Macchioni, parroco di San Michele ed esorcista della diocesi di Reggio Emilia e Guastalla; li ha diffusi attraverso Facebook, nella pagina creata per promuovere la quinta «Festa dei Santi», organizzata nei locali della parrocchia.


Genova. La Pastorale giovanile della diocesi di Genova promuove una Veglia di preghiera alle 20,30 nei vicoli della città, presso la Chiesa di N.S. delle Vigne. Durante la celebrazione, alcuni volontari usciranno in coppia in strada per invitare i passanti a entrare in Chiesa.


Filippine. Non si svolgano feste di Halloween nelle scuole cattoliche: l’invito – come riporta Radio Vaticana - arriva dall’«Associazione per l’Educazione cattolica delle Filippine». In una nota padre Greg Banaga, presidente dell’Associazione, ribadisce che tutte le istituzioni cattoliche «hanno il dovere di difendere la dignità delle persone decedute», e non devono «celebrare la festa di Ognissanti  e il Giorno dei Defunti con costumi o riti spaventosi».


Imola (provincia di Bologna). «Halloween? Una festa cattolica svuotata di luce dai protestanti e riempita di tenebre dagli occultisti»: è il titolo dell’incontro, promosso dal Gris, che si terrà alle 20,45 nel teatro parrocchiale della frazione di Sesto Imolese.


Benevento. Nella parrocchia di San Modesto, «HOLYween»: si tappezzano di volti di Santi i balconi, le vetrine dei negozi, le facciate delle chiese e le porte delle case.

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COLORO CHE CAMMINANO VERSO LA MISERICORDIA DI DIO

Una riflessione sulla festa di Tutti i Santi, la commemorazione dei Defunti e la banalità di Halloween

ROMA, mercoledì, 31 ottobre 2012 - Così come l’uomo si è sempre interrogato sul senso della vita e sul significato della morte, così ha sempre elaborato un modo di relazionarsi coi propri defunti, riservando loro un posto nella propria vita. Riflettiamo su un’interessante scoperta circa l’alba del genere umano, che da sola basta per rendere dubbiosa qualsiasi teoria evoluzionista di darwiniano sapore: l’uomo è l’unico animale sulla faccia della terra che, ad un certo punto della propria catena evolutiva, ha cominciato a seppellire i propri morti.
Non esiste altro babbuino di preistorica memoria ad aver compiuto un gesto di tale spessore, totalmente inspiegabile coi soli canoni della teoria della lotta per la sopravvivenza. La presa di consapevolezza della morte sembra proprio far parte del patrimonio fondante dell’uomo, che risiede nel nostro DNA perdendosi indietro nei millenni.
Può essere interessante indagare che rapporto ha avuto, e ha oggi l’uomo coi defunti. L’etimologia, innanzi a tutto: il termine italiano defunto deriva da un verbo latino che significa smettere una funzione, portare a termine un compito. Il defunctus vita era colui che aveva terminato la sua esistenza, compiuto il cammino della sua vita. Appartiene originariamente più al campo medico, e di qui si è diffuso, l’uso del termine morte  per intendere la cessazione dei processi vitali di un uomo, o di un animale.
Indietro nel tempo s’incontrano i tumuli funerari preistorici, le pire per la cremazione del periodo greco, piramidi e sarcofagi egizi, catacombe cristiane e mausolei romani. In molte culture si conservano in casa le statuette degli antenati, a protezione del focolare domestico. Nelle ville di famiglia si esibiscono i ritratti delle generazioni passate per riconoscere nei loro volti la storia del proprio sangue. La lapide funeraria, abbellita di fiori e fotografie, è oggi un decoroso luogo di riposo del defunto, ma anche un posto in cui i vivi possano fermarsi a ricordarlo. L’uomo si è sempre dato il modo e il tempo di pensare, invocare e pregare i propri defunti.
La letteratura, da sempre voce dell’anima di un popolo, ci racconta ad esempio di Achille e Priamo: dopo l’uccisione di Ettore, l’eroe greco restituisce al sovrano di Troia il corpo del figlio, con delle parole che Vincenzo Monti ci traduce con commozione. Scelte dal bottino ampolle di profumo e stoffe pregiate, Achille dà ordine alle sue ancelle di curare e abbellire il corpo del giovane nemico, sconfitto in battaglia, e il gran Pelide istesso / alzatolo di peso, in sul feretro collocollo. Se ne prende cura Achille stesso, per primo.
Vero è che Achille infierisce, qualche verso addietro, sul corpo di Ettore esanime e lo trascina attorno alla cinta muraria di Troia, legato al proprio carro, ma questo gesto appartiene alla pagana visione di vendetta nei confronti del nemico vinto mentre era vivo, e nulla ha a che fare col non rispetto per il defunto. Infatti, sarà ancora Achille a chiedere a Priamo per quanti giorni desidererà di piangere per suo figlio, così da ordinare una tregua: A’ suoi funebri onori / quanti giorni vuoi? Io terrò l’armi in posa / per altrettanti, e le schiere frenerò.
Curiosamente l’uomo sembra non frenarsi dal provocare la morte al proprio simile, ma non ne discute una qualche forma di rispetto dopo la dipartita. E’ d’obbligo un cenno a Ugo Foscolo, che nei suoiSepolcri ci spiega in versi perché gli uomini continuano a sentire vicini i propri defunti, anche dopo che il velo della morte li ha separati: è in virtù di una corrispondenza di amorosi sensi che si vive con l'amico estinto / e l'estinto con noi. E questa corrispondenza di ricordi affettuosi e pensieri devoti è nientemeno che definita come celeste, il che, se non permette di svolgere un discorso trascendente, quanto meno evoca una dimensione che poco ha di terreno. Questo vale per i grandi della storia, citati da Foscolo, ma anche per quegli sconosciuti sepolti in un piccolo cimitero di campagna, come canta, nei versi della sua Elegy  written in a country churchyard, Thomas Gray, nel 1751.
Che dire però del ricordo funesto di quei defunti che non si vuole vicino, quegli spiriti che da sempre si ha paura di nominare pena il rievocare fantasmi, zombie, influssi malefici e quant’altro la tradizione delle culture ci ha parimenti tramandato? E veniamo ai giorni nostri e al dibattito attuale: perché dire sì alla celebrazione del giorno di tutti i santi-tutti i defunti, e perché dire no ad Halloween?
Il giorno di Halloween (che anche in inglese antico significa notte di tutti i santi) affonda le sue origini nella tradizione celtica e druidica delle isole inglesi. Naviga in America con le migrazioni degli irlandesi e, divenuta un fenomeno commerciale, rimbalza di nuovo in Europa. Anticamente la concezione del tempo celtico era ripetitiva e circolare, basata sul ciclo delle stagioni. Con il finire dell’autunno i campi si addormentavano, il bestiame veniva trasferito nelle stalle, la terra si faceva fredda e il cielo cambiava colore. Halloween rappresentava una sorta di capodanno agricolo, ed ecco spiegato anche l’uso dei colori tipici delle decorazioni di questo periodo: l’arancio degli alberi autunnali e il nero della terra.
La tradizione inglese racconta anche che in questo periodo di transizione, il velo che divideva i vivi dai defunti si sollevava un poco permettendo agli spiriti dei morti cercare un corpo in cui dimorare di nuovo. Gli spiriti buoni dei cari defunti erano ben accetti, e accanto al focolare si lasciavano dolci e bevande di accoglienza. Ma, al contrario, se gli spiriti appartenevano a defunti dalla vita violenta ci si travestiva in modo terrificante, acconciando zucche con facce demoniache al fine allontanare queste anime vaganti dalla propria casa. Così contestualizzata la tradizione di Halloween ha un sapore nordico e sicuramente superato, ma conferma il connaturato bisogno dell’uomo di legare a sé i propri defunti di cui sente la mancanza, e, nel contempo, allontanare il funesto ricordo di coloro che in vita hanno recato dolore.
Ma perché oggi poco resta di tutto questo, e si lascia soltanto spazio a una banalizzazione della morte, a una generale voglia di esorcizzarne la paura, quasi a ridurne in ridicolo il significato? E’ chiaro che oggi non si è in grado di guardare alla morte come evento naturale, la si pretende fuori dalla vita e il più lontano possibile dal quotidiano. Se proprio ci si deve soffermare a pensarla per un’intera giornata, è bene che questa passi tra scherzi di cattivo gusto, festini horror e tetre parate di persone tristemente mascherate. Come a dire: io ci scherzo sopra, non ne ho paura.
Sicuramente possiamo osservare come ci si stia dimenticando dei morti, per pensare solo alla morte. La giornata di Halloween per i celtici era un giorno di riposo e per la Chiesa cattolica è festa di precetto: ma ora pare non ci sia più tempo per il ricordo e per la preghiera, questa giornata acquista significato perché si fa festa (la “festa di Halloween” oramai viene “celebrata” perfino negli asili e ci traveste tutti come fosse carnevale!).
Con la rivelazione di un amore che vince la morte con la resurrezione, il cristianesimo porta a compimento le passate tradizioni. Amalario, nel secolo IX, poneva già la memoria dei defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. È solo con l’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre viene dedicata stabilmente alla commemorazione di tutti i fedeli defunti; ma già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare per tutte le anime, anche al di fuori dei loro rispettivi anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio. La Chiesa celebra in queste due date consecutive l’inizio della vera vita, quella eterna che comincia dopo la morte, di quanti ci lasciano il loro esempio di uomini, di fedeli e di santi. Il cristianesimo ricomprende la morte nelle vicende naturali della vita terrena; mostra dopo di essa il tempo di una vita più piena ed eterna.
E la via per ordinare di senso profondo la giornata di commemorazione dei defunti è solamente una: la preghiera. La speciale liturgia di questa giornata ci rammenta il nostro posto, il nostro “compito”: la devozione. Non sta a noi giudicare buona o cattiva un’anima, propizio o funesto il ricordo di un defunto, temendone la visita quasi come non esistesse un ordine e un senso tra i fenomeni della vita. C’è già Qualcuno, che alla fine dei tempi, giudicherà le anime di tutti i defunti; capace nella sua grandezza di perdonare e salvare le anime dei peccatori. Noi che restiamo dovremmo saperciriprendere del tempo, almeno durante questa giornata dell’anno liturgico, per la preghiera sincera di intercessione per tutte le anime di quei defunti che camminano verso la misericordia di Dio. (D. Fontana)


Ognissanti vs Halloween?

Noi cristiani, a volte, ci lasciamo scivolare addosso questioni fondamentali per la nostra fede, o restiamo indifferenti davanti a provvedimenti profondamente offensivi­ – vedi la sentenza della Corte di Cassazione che ha sdoganato la bestemmia in TV  – per poi lasciarci letteralmente risucchiare da questioni, al confronto, assolutamente secondarie. Mi riferisco a quel pullulare su web e social network, in questi ultimi giorni, di link ed iniziative “Halloween sì-Halloween no”: una semplice querelle che – in pochi giorni – ha assunto proporzioni tali da sembrare una vera battaglia ideologica che, come tutte le altre, non è mai foriera di verità.
La questione “Halloween sì-Halloween no”, a mio parere, è una di quelle questioni che andrebbe affrontata riscoprendo una preziosa qualità – purtroppo – diffusamente atrofizzata: il buon senso, direi, per non scomodare una facoltà più articolata quale il senso comune.
Mi spiego. Credo che il buon senso, se debitamente esercitato, basterebbe per capire che – se la festa di Halloween è una semplice festa commerciale – non dovrebbe impegnare le nostre facoltà intellettive, più di San Valentino o del Carnevale, per decidere quanta considerazione meriti; allo stesso tempo, se la festa di Halloween è – secondo alcuni – l’anticamera per feste sataniche o veri esercizi di stregoneria, le stesse zucche vuote dedite a tali pratiche ­– ­molto probabilmente­ – le compirebbero anche se, in queste ore, nelle vetrine non ci fossero esposte zucche finte. Il buon senso, soprattutto, dovrebbe suggerirci che se i cristiani non celebrano la festa di Ognissanti come dovrebbero, e non rendono memoria ai loro morti come meriterebbero, la colpa non è certo di Halloween. Sempre il buon senso, poi, indurrebbe a chiedere ai genitori – che quest’anno sentono di più la minaccia di Halloween, per la forza con la quale evocherebbe simboli di morte e paura – quanto ugualmente vigilino sulle letture o i film che guardano i propri figli.
Vogliamo credere, forse, che tutti i figli dei buon cristiani non leggano Harry Potter o non siano andati al cinema a vedere tutti i film della serie, accompagnati dai genitori? E la befana, a questo punto, non è una strega? E i bambini cristiani, la notte di Natale, non aspettano anche i “doni portati da Gesù Bambino”?
Il buon senso, sostanzialmente, porterebbe a pensare che un bambino e un adulto, se conoscono il valore ed il significato della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti, possono benissimo partecipare ad una festa giocosa che non ha altro valore se non quello della aggregazione e del rito della festa, necessario di per sé all’uomo. Ugualmente, un bambino o un adulto che partecipino ad Halloween – senza conoscere il significato della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti – sono un bambino ed un adulto che sfortunatamente non vivono la dimensione del sacro e della fede cristiana, ma non è detto che, per questo, inevitabilmente cadranno in sette sataniche o compiranno riti pagani.
In sintesi, il buon senso ci dice che la festa di Halloween non può e non deve assolutamente acquisire un valore alternativo, tantomeno sostitutivo, alla festa di Ognissanti e alla Commemorazione dei morti perchè è, e deve restare, una festa commerciale, pericolosa tanto quanto le altre feste commerciali. Ma è vero anche il contrario e, cioè, che la festa di Ognissanti e la Commemorazione dei morti non devono diventare un valore e un patrimonio della fede e della tradizione cristiana, rivalutandole come alternativa o “contrappunto” alla festa di Halloween; così facendo, infatti, resterà invariato il senso di Halloween, e si finirà per svilire quello della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti che hanno un valore in sé e per sé.
Se una delle grandi sfide del Magistero della Chiesa, e soprattutto del pontificato di Benedetto XVI, è proprio il dialogo con il mondo dei non credenti e dei neopagani del terzo millennio, non facciamo perfino di Halloween un’occasione per lanciare invettive e suscitare polemiche con gli stessi: impariamo ad affermare la nostra identità cristiana in maniera forte e senza compromessi, non per “contrappunto”– demonizzando quanti credono in altro – ma facendo risuonare la “musica” propria della nostra fede. Andiamo a Messa il giorno di Ognissanti e commemoriamo i nostri morti come se partecipassimo ad una festa, la festa con cui celebriamo chi ha saputo vivere il Vangelo e chi già vive nella luce del Padre e del Figlio che ha vinto la morte. E le zucche rimarranno zucche. (C. Mancini)
da LaPorzione.it  
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Poveri diavoli in cerca d’Autore




In attesa che la vexata quaestio dei legami tra Halloween e il satanismo venga sciolta, vale a dire dimostrata (si ricordi cheaffirmanti incumbit probatio, l’onere della prova da sempre spetta agli accusatori), la dose di buon senso inoculataci da Claudiaincoraggia ad abbozzare qualche ulteriore considerazione.
Fondamentale qui è intendersi su una cosa: il giudizio su Halloween come festa originariamente pagano-cattolica-nordica — poi metabolizzata in ambito protestante e importata in Italia, per fini commerciali, in veste sconsacrata — va distinto dal giudizio sulle migliaia di giovani partecipanti che non vi rinvengono forse altro che un’occasione di evasione.
“Ogni occasione per far festa è buona”, questo sembra essere il motto dello zucchificato medio. Beninteso, non è in questione laquantità delle feste. Il tanto vituperato quanto radioso Medioevo (sì, come le sue meravigliose vetrate e il manto di chiese colorate che si stendeva sull’Europa!) ne brulicava letteralmente. Secondo la storica Régine Pernoud, «complessivamente, si avevano circa ottanta giorni all’anno di riposo completo, con settanta giorni e più di riposo parziale, ossia circa tre mesi di vacanza ripartiti nel corso dell’anno, cosa che assicurava una varietà inesauribile nel ritmo di lavoro». (R. Pernoud, Luce del Medioevo, Gribaudi, 2000, p. 212).
Non nella quantità quanto piuttosto nella scarsa qualità delle nostre feste va individuato il sintomo di una patologia dell’anima, prima ancora che sociale. La smania festaiola sta ad indicare la perdita non solo del senso della festa, ma anche lo smarrimento del significato profondo e positivo della ferialità e del lavoro quotidiano, del loro rapporto “organico” con la festività.
Se accantoniamo per un momento la solita, sciocca sociologia spicciola sulle cause e concause di questo fatto, non possiamo non ammetterlo: da tempo è in circolazione, veicolato anche — forse soprattutto — dai mass media, un virus aggressivo e pervasivo. Parlo di quell’oscuro pessimismo ansioso di intimarci una resa senza condizioni alla disperata, inalterabile negatività della realtà circostante.
C’è in giro una gran voglia di morte, come un basso continuo ad accompagnare in sottofondo la nostra quotidianità. Un’atmosfera che ricorda quel che succede quando spira il vento di scirocco sul mare. I pescatori rinunciano alla pesca: ogni tentativo di muoversi infatti è reso inutile dallo scirocco, perché l’aria è divenuta tanto pesante da annichilire ogni tentativo di sollevarsi da terra. «È la vittoria brutale — scrive Pietro Barcellona — della forza di gravità, ogni cosa precipita verso il punto zero dell’equilibrio mortifero». Questa sensazione di calma piatta e senza vita segna il trionfo di quella che Simone Weil chiamava pesanteur, “pesantezza”. L’uomo è schiacciato dalla pesantezza, forza “deìfuga” per antonomasia, quando si priva d’ogni tensione ideale per sottoporsi al cieco, implacabile vincolo della necessità. Diventa così cosa tra cose destinata a perire, un essere agito dalle ferree leggi della materia fisica.
Questa angosciata impossibilità di vivere con pienezza la vita quotidiana comporta l’incapacità di festeggiare in maniera autentica. Josef Pieper, nel suo bellissimo Sintonia con il mondo. Una teoria sulla festa ci ha ricordato quali siano le condizioni essenziali per la festa: essa può essere vissuta autenticamente solo sulla base di un «consenso» verso il mondo. Con questo termine Pieper intende il riconoscimento dell’originaria positività e bontà della realtà che ci circonda: «La festa vive del consenso. Persino il funerale, il giorno di tutti i defunti e il Venerdì Santo non potrebbero avere il carattere della festa, se non poggiassero sulla certezza che il mondo e l’esistenza nella sua totalità sono in ordine» (Sintonia con il mondo, p. 46). La sintonia presuppone una sinfonia, rinvia a un cosmo non al caos. Come potremmo festeggiare se fossimo intimamente de-sintonizzati dalla realtà, persuasi dell’assurdità dell’esistenza? Come sempre l’uso linguistico è illuminante, mi suggerisce l’amico Gustave, il filosofo-contadino:  «Non si parla che di «evasione», e la parola è eloquente. Giacché il desiderio di evadere è anzitutto la prova che abbiamo trasformato la vita in prigione!».
Curioso paradosso: l’epoca della “liberazione” da ogni tabù “repressivo” ci lascia in eredità la singolare quanto insopportabile condizione di “ergastolani a piede libero”. Dove evadere se ogni luogo è prigione? La de-moralizzazione è il preludio della disperazione, l’anticamera della schiavitù.
Noi “liberati” ci gloriamo sovente, dopo aver abbattuto ogni muro e tutte le palizzate di interdizioni morali, d’aver scardinato lo stesso senso del limite. Ma adesso, una volta esaurita l’ebbrezza derivata dal senso d’onnipotenza, nell’universo delle infinite possibilità la nostra anima si sente soffocare come nel vuoto…
Forse solo ora comprendiamo perché l’antico Eraclito reputasse necessario che il popolo combattesse per la sua legge come per le mura della città. La libertà interiore necessita l’erezione di un muro della legge, esige l’edificazione di una cinta esterna costituita di precetti morali.
A secoli di distanza, è sempre quest’eco eraclitea a risuonare nelle pagine vergate da G.K. Chesterton sulla feconda prossimità tra festa e culto, tra morale e vita, tra gioia, bellezza e luce: «I paesi di Europa rimasti sotto la influenza dei preti sono precisamente quelli dove ancora si canta, si danza, e ci si mettono vestiti sgargianti e l’arte vive all’aperto. La dottrina e la disciplina cattolica possono essere dei muri, ma sono i muri di una palestra di giuochi. Il Cristianesimo è la sola cornice in cui sia preservata la gioia del paganesimo. Immaginiamoci dei fanciulli che stanno giocando sul piano erboso di qualche isolotto elevato sul mare; finché c’era un muro intorno all’orlo dell’altura, essi potevano sbizzarrirsi nei giochi più frenetici e fare di quel luogo la più rumorosa delle nurseries; ora il parapetto è stato buttato giù, lasciando scoperto il pericolo del precipizio. I fanciulli non sono caduti, ma i loro amici, al ritorno, li hanno trovati rannicchiati e impauriti nel centro dell’isolotto, e il loro canto era cessato. […] La cinta esterna del Cristianesimo è un rigido presidio di abnegazioni etiche e di preti professionali; ma dentro questo presidio inumano troverete la vecchia vita umana che danza come i fanciulli e beve vino come gli uomini. […] Nella filosofia moderna avviene il contrario: la cinta esterna è innegabilmente artistica ed emancipata: la sua disperazione sta dentro».
Ora forse è chiaro quanto siano più simili a pecorelle smarrite che non a pecorelle appestate i forzati di Halloween, poveri diavoli in cerca d’Autore. Eppure «l’epoca in cui tutto si è perduto è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Thibon). Chi vaga errabondo come un viaggiatore disperso nel deserto, senza più nulla da perdere, si trova forse nelle migliori condizioni per accedere alle cisterne della grazia e dissetarsi presso la «sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14). Ma tocca in sorte a chi già si è abbeverato a quella «fonte d’acqua viva» il rigido presidio delle mura della cisterna: per evitare che, riempiendosi di crepe, si tramuti in una di quelle «cisterne screpolate, che non riescono a contenere acqua» (Gr 2, 13). (Andreas Hofer)