Di seguito il testo del:
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
PER LA GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2012
PER LA GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2012
“Chiamati a far risplendere la Parola di verità” (Lett. ap. Porta fidei, 6)
Cari fratelli e sorelle!
La celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale si carica quest’anno di un significato tutto particolare. La ricorrenza del 50° anniversario dell'inizio del Concilio Vaticano II, l’apertura dell’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sul tema della nuova evangelizzazione concorrono a riaffermare la volontà della Chiesa di impegnarsi con maggiore coraggio e ardore nella missio ad gentes perché il Vangelo giunga fino agli estremi confini della terra.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II, con la partecipazione dei Vescovi cattolici provenienti da ogni angolo della terra, è stato un segno luminoso dell’universalità della Chiesa, accogliendo, per la prima volta, un così alto numero di Padri Conciliari provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania. Vescovi missionari e Vescovi autoctoni, Pastori di comunità sparse fra popolazioni non cristiane, che portavano nell’Assise conciliare l’immagine di una Chiesa presente in tutti i Continenti e che si facevano interpreti delle complesse realtà dell’allora cosiddetto “Terzo Mondo”. Ricchi dell’esperienza derivata dall’essere Pastori di Chiese giovani ed in via di formazione, animati dalla passione per la diffusione del Regno di Dio, essi hanno contribuito in maniera rilevante a riaffermare la necessità e l’urgenza dell’evangelizzazione ad gentes, e quindi a portare al centro dell’ecclesiologia la natura missionaria della Chiesa.
Ecclesiologia missionaria
Questa visione oggi non è venuta meno, anzi, ha conosciuto una feconda riflessione teologica e pastorale e, al tempo stesso, si ripropone con rinnovata urgenza perché si è dilatato il numero di coloro che non conoscono ancora Cristo: “Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso”, affermava il beato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio sulla permanente validità del mandato missionario, e aggiungeva: “Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio” (n. 86). Anch’io, nell’indire l’Anno della fede, ho scritto che Cristo “oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra” (Lett. ap.Porta fidei, 7); proclamazione che, come si esprimeva anche il Servo di Dio Paolo VInell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile” (n. 5). Abbiamo bisogno quindi di riprendere lo stesso slancio apostolico delle prime comunità cristiane, che, piccole e indifese, furono capaci, con l’annuncio e la testimonianza, di diffondere il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto.
Non meraviglia quindi che il Concilio Vaticano II e il successivo Magistero della Chiesa insistano in modo speciale sul mandato missionario che Cristo ha affidato ai suoi discepoli e che deve essere impegno dell’intero Popolo di Dio, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, laici. La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra spetta primariamente ai Vescovi, diretti responsabili dell’evangelizzazione nel mondo, sia come membri del collegio episcopale, sia come Pastori delle Chiese particolari. Essi, infatti, “sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 63), “messaggeri di fede che portano nuovi discepoli a Cristo” (Ad gentes, 20) e rendono “visibile lo spirito e l’ardore missionario del Popolo di Dio, sicché la diocesi tutta si fa missionaria” (ibid., 38).
La priorità dell’evangelizzare
Il mandato di predicare il Vangelo non si esaurisce perciò, per un Pastore, nell’attenzione verso la porzione del Popolo di Dio affidata alle sue cure pastorali, né nell’invio di qualche sacerdote, laico o laica fidei donum. Esso deve coinvolgere tutta l’attività della Chiesa particolare, tutti i suoi settori, in breve, tutto il suo essere e il suo operare. Il Concilio Vaticano II lo ha indicato con chiarezza e il Magistero successivo l’ha ribadito con forza. Ciò richiede di adeguare costantemente stili di vita, piani pastorali e organizzazione diocesana a questa dimensione fondamentale dell’essere Chiesa, specialmente nel nostro mondo in continuo cambiamento. E questo vale anche per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, come pure per i Movimenti ecclesiali: tutte le componenti del grande mosaico della Chiesa devono sentirsi fortemente interpellate dal mandato del Signore di predicare il Vangelo, affinché Cristo sia annunciato ovunque. Noi Pastori, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli in Cristo, dobbiamo metterci sulle orme dell’apostolo Paolo, il quale, “prigioniero di Cristo per i pagani” (Ef 3,1), ha lavorato, sofferto e lottato per far giungere il Vangelo in mezzo ai pagani (cfr Col 1,24-29), senza risparmiare energie, tempo e mezzi per far conoscere il Messaggio di Cristo.
Anche oggi la missione ad gentes deve essere il costante orizzonte e il paradigma di ogni attività ecclesiale, perché l’identità stessa della Chiesa è costituita dalla fede nel Mistero di Dio, che si è rivelato in Cristo per portarci la salvezza, e dalla missione di testimoniarlo e annunciarlo al mondo, fino al suo ritorno. Come san Paolo, dobbiamo essere attenti verso i lontani, quelli che non conoscono ancora Cristo e non hanno sperimentato la paternità di Dio, nella consapevolezza che “la cooperazione missionaria si deve allargare oggi a forme nuove includendo non solo l’aiuto economico, ma anche la partecipazione diretta all’evangelizzazione” (Giovanni Paolo II, Lett. enc.Redemptoris missio, 82). La celebrazione dell’Anno della fede e del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione saranno occasioni propizie per un rilancio della cooperazione missionaria, soprattutto in questa seconda dimensione.
Fede e annuncio
L’ansia di annunciare Cristo ci spinge anche a leggere la storia per scorgervi i problemi, le aspirazioni e le speranze dell’umanità, che Cristo deve sanare, purificare e riempire della sua presenza. Il suo Messaggio, infatti, è sempre attuale, si cala nel cuore stesso della storia ed è capace di dare risposta alle inquietudini più profonde di ogni uomo. Per questo la Chiesa, in tutte le sue componenti, deve essere consapevole che “gli orizzonti immensi della missione ecclesiale, la complessità della situazione presente chiedono oggi modalità rinnovate per poter comunicare efficacemente la Parola di Dio” (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 97). Questo esige, anzitutto, una rinnovata adesione di fede personale e comunitaria al Vangelo di Gesù Cristo, “in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo” (Lett. ap. Porta fidei, 8).
Uno degli ostacoli allo slancio dell’evangelizzazione, infatti, è la crisi di fede, non solo del mondo occidentale, ma di gran parte dell’umanità, che pure ha fame e sete di Dio e deve essere invitata e condotta al pane di vita e all’acqua viva, come la Samaritana che si reca al pozzo di Giacobbe e dialoga con Cristo. Come racconta l’Evangelista Giovanni, la vicenda di questa donna è particolarmente significativa (cfr Gv 4,1-30): incontra Gesù, che le chiede da bere, ma poi le parla di un’acqua nuova, capace di spegnere la sete per sempre. La donna all’inizio non capisce, rimane a livello materiale, ma lentamente è condotta dal Signore a compiere un cammino di fede che la porta a riconoscerlo come il Messia. E a questo proposito sant’Agostino afferma: “dopo aver accolto nel cuore Cristo Signore, che altro avrebbe potuto fare [questa donna] se non abbandonare l’anfora e correre ad annunziare la buona novella?” (In Ioannis Ev., 15, 30). L’incontro con Cristo come Persona viva che colma la sete del cuore non può che portare al desiderio di condividere con altri la gioia di questa presenza e di farlo conoscere perché tutti la possano sperimentare. Occorre rinnovare l’entusiasmo di comunicare la fede per promuovere una nuova evangelizzazione delle comunità e dei Paesi di antica tradizione cristiana, che stanno perdendo il riferimento a Dio, in modo da riscoprire la gioia del credere. La preoccupazione di evangelizzare non deve mai rimanere ai margini dell’attività ecclesiale e della vita personale del cristiano, ma caratterizzarla fortemente, nella consapevolezza di essere destinatari e, al tempo stesso, missionari del Vangelo. Il punto centrale dell’annuncio rimane sempre lo stesso: il Kerigma del Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo, il Kerigma dell’amore di Dio assoluto e totale per ogni uomo ed ogni donna, culminato nell’invio del Figlio eterno e unigenito, il Signore Gesù, il quale non disdegnò di assumere la povertà della nostra natura umana, amandola e riscattandola, per mezzo dell’offerta di sé sulla croce, dal peccato e dalla morte.
La fede in Dio, in questo disegno di amore realizzato in Cristo, è anzitutto un dono e un mistero da accogliere nel cuore e nella vita e di cui ringraziare sempre il Signore. Ma la fede è un dono che ci è dato perché sia condiviso; è un talento ricevuto perché porti frutto; è una luce che non deve rimanere nascosta, ma illuminare tutta la casa. E’ il dono più importante che ci è stato fatto nella nostra esistenza e che non possiamo tenere per noi stessi.
L’annuncio si fa carità
“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, diceva l’apostolo Paolo (1 Cor 9,16). Questa parola risuona con forza per ogni cristiano e per ogni comunità cristiana in tutti i Continenti. Anche per le Chiese nei territori di missione, Chiese per lo più giovani, spesso di recente fondazione, la missionarietà è diventata una dimensione connaturale, anche se esse stesse hanno ancora bisogno di missionari. Tanti sacerdoti, religiosi e religiose, da ogni parte del mondo, numerosi laici e addirittura intere famiglie lasciano i propri Paesi, le proprie comunità locali e si recano presso altre Chiese per testimoniare e annunciare il Nome di Cristo, nel quale l’umanità trova la salvezza. Si tratta di un’espressione di profonda comunione, condivisione e carità tra le Chiese, perché ogni uomo possa ascoltare o riascoltare l’annuncio che risana e accostarsi ai Sacramenti, fonte della vera vita.
Insieme a questo alto segno della fede che si trasforma in carità, ricordo e ringrazio le Pontificie Opere Missionarie, strumento per la cooperazione alla missione universale della Chiesa nel mondo. Attraverso la loro azione l’annuncio del Vangelo si fa anche intervento in aiuto del prossimo, giustizia verso i più poveri, possibilità di istruzione nei più sperduti villaggi, assistenza medica in luoghi remoti, emancipazione dalla miseria, riabilitazione di chi è emarginato, sostegno allo sviluppo dei popoli, superamento delle divisioni etniche, rispetto per la vita in ogni sua fase.
Cari fratelli e sorelle, invoco sull’opera di evangelizzazione ad gentes, ed in particolare sui suoi operai, l’effusione dello Spirito Santo, perché la Grazia di Dio la faccia camminare più decisamente nella storia del mondo. Con il beato John Henry Newman vorrei pregare: “Accompagna, o Signore, i tuoi missionari nelle terre da evangelizzare, metti le parole giuste sulle loro labbra, rendi fruttuosa la loro fatica”. La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Stella dell’evangelizzazione, accompagni tutti i missionari del Vangelo.
Dal Vaticano, 6 gennaio 2012, Solennità dell’Epifania del Signore
BENEDICTUS PP. XVI
* * *
L'Osservatore Romano
(Barthélemy Adoukonou, Vescovo, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura)Se le ragioni della nuova evangelizzazione variano a seconda delle regioni del mondo e del tipo di relazione tra la fede e la ragione, il rapporto tra le culture delle diverse regioni coinvolte è a sua volta in grado di diversificarla.
Nel caso concreto dell’Africa e dell’Europa, è necessario evitare la semplice giustapposizione delle problematiche della nuova evangelizzazione che non sarebbe altro che un mero riflesso del loro multiculturalismo. Qui ci si interroga succintamente sulle ragioni storiche che legano le due problematiche — quella africana e quella occidentale — e sul fondamento teologico della problematica interculturale della nuova evangelizzazione.
È importante precisare che cosa s’intende oggi con l’«apostasia dell’Occidente» e mettere in chiaro le cause della crisi della fede che coinvolge tutti i Paesi occidentali. Occorrerà anche chiarire, per quanto possibile, le ragioni che fanno sì che si parli dell’Africa sub-sahariana come di un sub-continente che sembra andare a ritroso, che si parli nelle nostre Chiese in Africa di sincretismo, di etnicismo, di guerre fratricide tra cristiani di uno stesso Paese, dove l’80-90 per cento della popolazione è battezzato, di conflitti per accedere al potere nella Chiesa, di malattie della religione africana nell’epoca della modernità e della post-modernità. Il teologo congolese Léonard Santédi l’ha messo ben in luce, ricollegandosi a padre Maurice Pivot, nel numero di «Esprit et vie» del gennaio 2012.
Se l’opzione atea illuminista ha finito con l’avere un impatto civilizzante di più ampio spettro, il cui indicatore culturale più significativo è, da una parte la cancellazione pura e semplice delle radici cristiane dalla Costituzione europea, e dall’altra la scomparsa del riferimento a Dio nella vita sociale, parallelamente nelle Chiese particolari africane si osserva una tendenza ad annullare la differenza esistente tra la storia della salvezza e la storia generale universale, che ha avuto come effetto, per esempio, la nascita della teoria detta delle tre «m» (militare, mercante, missionario). Secondo tale teoria, per liberarsi, l’Africa dovrebbe rifiutare l’imperialismo occidentale, sul piano sia socio-economico e politico sia culturale e spirituale. L’Africa dovrebbe rifiutare anche la penetrazione al suo interno del profetismo giudeo-cristiano.
Ma dal punto di vista storico ogni Chiesa particolare africana è il frutto di una missione evangelizzatrice che, in sostanza, non ha nulla in comune con le missioni di conquista e di accaparramento delle risorse materiali. Mentre il militare e il mercante erano occupati in questa missione imperialistica, il missionario del Vangelo era invece al servizio della buona Novella di Dio rivelatasi in Gesù Cristo come Trinità d’amore, creando l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ogni Chiesa, nata in un angolo sperduto dell’Africa, è divenuta il luogo di un risveglio di quel possibile divino che dorme nel fondo della forma antropologica africana che sta emergendo in questo spazio etno-socio-culturale. Se la Chiesa è potuta nascere in tanti spazi geografici africani, è perché dei messaggeri della buona Novella sono venuti a vivere con i loro fratelli e sorelle africani e ad annunciare Gesù Cristo. Il loro obiettivo non aveva nulla in comune con quello del mercante e del militare.
Noi dobbiamo assolutamente, sulla base di una storiografia autonoma, riavviare la nostra auto-comprensione come Chiesa africana. Visto di fatto che la cesura radicale della cultura con la religione operata dall’illuminismo fa sentire i suoi effetti a tutti i livelli e su tutti i piani, è necessario che gli africani mostrino la loro autonomia di lettura della storia fino a giungere a una critica delle opzioni filosofiche che le diverse letture storiche impongono. Per molti l’essenziale si gioca su questo piano. L’autonomia di approccio alla storia da parte delle diverse formazioni storiche dà avvio a un necessario e legittimo conflitto delle storiografie e dunque delle narrazioni. Il soggetto ecclesiale africano è chiamato oggi a esercitare la propria responsabilità prima di tutto nel campo della verità dello sguardo, della visione che impone la lettura della storia come ritorno alle fonti. L’interculturalità autentica è possibile solo in funzione della inter-storicità, anch’essa imposta dall’angolo visivo o dalla vigilanza che deve animarla.
La storia della tratta negriera, delle rotte degli schiavi, e in particolare del commercio triangolare, comprende un documento di cui l’uomo politico, il re Luigi XIV, detto il «re Sole» è stato il firmatario: il Code Noir (1685). Questo documento giuridico dice all’articolo 44: «lo schiavo è un bene mobile». Ma per il missionario che andava lì per annunciare la buona Novella della salvezza in Gesù Cristo, era un essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio, che meritava il sacrificio di vite apostoliche giovani per far sapere che in Gesù di Nazaret Dio ha amato l’umanità, tutta l’umanità alla follia, e che in quello stesso Gesù, fratello universale, l’umanità ha anch’essa già risposto con un’eguale follia d’amore. La storia della salvezza si prolunga nella storia missionaria. Mentre il militare e il mercante avevano fatto violenza all’Africa, l’avevano spogliata e lasciata come morta lungo il cammino di Gerico, il missionario del Vangelo, figura storica del buon Samaritano, era andato lì per curarla, per sollevarla e ristabilirla nella sua dignità e responsabilità, lungo la via di una storia da costruire insieme, come storia degna di Dio e degna dell’uomo nuovo che a sua volta l’africano è diventato.
La questione della nuova evangelizzazione è anche quella dell’evangelizzazione in inter-culturalità, è la testimonianza storica concreta della realtà della Chiesa nata e profeticamente presentata al mondo interculturale, fin dal mattino della Pentecoste. Ciò è ancora più urgente perché la Chiesa universale, per essere credibile, deve smettere di dare l’impressione di essere eurocentrica e di limitarsi a tollerare le altre Chiese particolari. Essa deve divenire veramente interculturale.
Papa Benedetto XVI, quale profeta del mondo contemporaneo, l’ha indicato attraverso un duplice orientamento teologico e pastorale che il Pontificio Consiglio della Cultura si sforza di mettere in pratica come articolazione metodologica concreta della nuova evangelizzazione: il Cortile dei Gentili e l’interculturalità.
In particolare, l’interculturalità è auspicata da tutte le culture che, incentrate sulla parte più decisiva di se stesse, che è la fede che le fonda, accettano come il cristianesimo di uscire dal tempio — da quello che è dentro di loro — per andare a dialogare con i Gentili nel cortile che è stato loro riservato secondo l’ebraismo. L’interculturalità, per essere autentica, implica quindi l’accettazione da parte di tutte le religioni del fatto che, prima di ogni soggetto culturale e religioso, è Dio stesso che ha preso l’iniziativa di mettere fine a qualsiasi esclusione. In suo Figlio, Gesù di Nazaret, messo a morte, ma risorto il terzo giorno, ha abbattuto il «muro di separazione» e ucciso l’odio, affinché non esistesse che un solo uomo nuovo, mediante il quale è dato ora a tutta l’umanità di conoscere Dio e di conoscere se stessa. Se Dio sulla croce si rivela ai confini della cultura e dell’umanità nella figura singolare di questo unico Uomo nuovo, rivela anche a ogni individuo nella sua particolarità socio-culturale che proprio questo uomo nuovo è la matrice, il crogiolo singolare del suo atto creatore.
Cosa possono apportare le altre culture e religioni a questo crocevia che rende possibile ogni forma d’interculturalità? Siamo incapaci di dirlo, possiamo solo lasciarlo accadere. Non possiamo vivere «il tempo delle nazioni» (cfr. Luca 24; Catechismo della Chiesa Cattolica, 56) come loro procuratori. Esse devono accedere da sole al compimento dei tempi che la fede ci dice essere giunto in Gesù Cristo (cfr. Galati 4, 4). Il missionario della nuova evangelizzazione deve formarsi all’interculturalità. Del fatto che ogni «uomo dal cuore retto», partendo dal più profondo della sua cultura e della sua religione per aprirsi al dialogo con le altre culture, sia capace di comprendere e di accogliere la rivelazione di Dio nel luogo preciso della Croce, troviamo un’indicazione lontana, ma, a nostro avviso, certa, nella figura di Mahatma Gandhi, il cui Ashram non includeva alcuna figura del politeismo indù, ma solo la figura di Cristo che ascende nella gloria.
Formare dunque all’interculturalità così intesa, vuol dire vivere nel più grande rispetto degli altri, che consiste nel lasciare loro il tempo e la libertà di capire da soli che è Dio stesso a inaugurare il dialogo con tutte le culture nell’abolizione di ogni muro culturale di separazione e di esclusione.
L'Osservatore Romano 21 ottobre 2012
Nel caso concreto dell’Africa e dell’Europa, è necessario evitare la semplice giustapposizione delle problematiche della nuova evangelizzazione che non sarebbe altro che un mero riflesso del loro multiculturalismo. Qui ci si interroga succintamente sulle ragioni storiche che legano le due problematiche — quella africana e quella occidentale — e sul fondamento teologico della problematica interculturale della nuova evangelizzazione.
È importante precisare che cosa s’intende oggi con l’«apostasia dell’Occidente» e mettere in chiaro le cause della crisi della fede che coinvolge tutti i Paesi occidentali. Occorrerà anche chiarire, per quanto possibile, le ragioni che fanno sì che si parli dell’Africa sub-sahariana come di un sub-continente che sembra andare a ritroso, che si parli nelle nostre Chiese in Africa di sincretismo, di etnicismo, di guerre fratricide tra cristiani di uno stesso Paese, dove l’80-90 per cento della popolazione è battezzato, di conflitti per accedere al potere nella Chiesa, di malattie della religione africana nell’epoca della modernità e della post-modernità. Il teologo congolese Léonard Santédi l’ha messo ben in luce, ricollegandosi a padre Maurice Pivot, nel numero di «Esprit et vie» del gennaio 2012.
Se l’opzione atea illuminista ha finito con l’avere un impatto civilizzante di più ampio spettro, il cui indicatore culturale più significativo è, da una parte la cancellazione pura e semplice delle radici cristiane dalla Costituzione europea, e dall’altra la scomparsa del riferimento a Dio nella vita sociale, parallelamente nelle Chiese particolari africane si osserva una tendenza ad annullare la differenza esistente tra la storia della salvezza e la storia generale universale, che ha avuto come effetto, per esempio, la nascita della teoria detta delle tre «m» (militare, mercante, missionario). Secondo tale teoria, per liberarsi, l’Africa dovrebbe rifiutare l’imperialismo occidentale, sul piano sia socio-economico e politico sia culturale e spirituale. L’Africa dovrebbe rifiutare anche la penetrazione al suo interno del profetismo giudeo-cristiano.
Ma dal punto di vista storico ogni Chiesa particolare africana è il frutto di una missione evangelizzatrice che, in sostanza, non ha nulla in comune con le missioni di conquista e di accaparramento delle risorse materiali. Mentre il militare e il mercante erano occupati in questa missione imperialistica, il missionario del Vangelo era invece al servizio della buona Novella di Dio rivelatasi in Gesù Cristo come Trinità d’amore, creando l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ogni Chiesa, nata in un angolo sperduto dell’Africa, è divenuta il luogo di un risveglio di quel possibile divino che dorme nel fondo della forma antropologica africana che sta emergendo in questo spazio etno-socio-culturale. Se la Chiesa è potuta nascere in tanti spazi geografici africani, è perché dei messaggeri della buona Novella sono venuti a vivere con i loro fratelli e sorelle africani e ad annunciare Gesù Cristo. Il loro obiettivo non aveva nulla in comune con quello del mercante e del militare.
Noi dobbiamo assolutamente, sulla base di una storiografia autonoma, riavviare la nostra auto-comprensione come Chiesa africana. Visto di fatto che la cesura radicale della cultura con la religione operata dall’illuminismo fa sentire i suoi effetti a tutti i livelli e su tutti i piani, è necessario che gli africani mostrino la loro autonomia di lettura della storia fino a giungere a una critica delle opzioni filosofiche che le diverse letture storiche impongono. Per molti l’essenziale si gioca su questo piano. L’autonomia di approccio alla storia da parte delle diverse formazioni storiche dà avvio a un necessario e legittimo conflitto delle storiografie e dunque delle narrazioni. Il soggetto ecclesiale africano è chiamato oggi a esercitare la propria responsabilità prima di tutto nel campo della verità dello sguardo, della visione che impone la lettura della storia come ritorno alle fonti. L’interculturalità autentica è possibile solo in funzione della inter-storicità, anch’essa imposta dall’angolo visivo o dalla vigilanza che deve animarla.
La storia della tratta negriera, delle rotte degli schiavi, e in particolare del commercio triangolare, comprende un documento di cui l’uomo politico, il re Luigi XIV, detto il «re Sole» è stato il firmatario: il Code Noir (1685). Questo documento giuridico dice all’articolo 44: «lo schiavo è un bene mobile». Ma per il missionario che andava lì per annunciare la buona Novella della salvezza in Gesù Cristo, era un essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio, che meritava il sacrificio di vite apostoliche giovani per far sapere che in Gesù di Nazaret Dio ha amato l’umanità, tutta l’umanità alla follia, e che in quello stesso Gesù, fratello universale, l’umanità ha anch’essa già risposto con un’eguale follia d’amore. La storia della salvezza si prolunga nella storia missionaria. Mentre il militare e il mercante avevano fatto violenza all’Africa, l’avevano spogliata e lasciata come morta lungo il cammino di Gerico, il missionario del Vangelo, figura storica del buon Samaritano, era andato lì per curarla, per sollevarla e ristabilirla nella sua dignità e responsabilità, lungo la via di una storia da costruire insieme, come storia degna di Dio e degna dell’uomo nuovo che a sua volta l’africano è diventato.
La questione della nuova evangelizzazione è anche quella dell’evangelizzazione in inter-culturalità, è la testimonianza storica concreta della realtà della Chiesa nata e profeticamente presentata al mondo interculturale, fin dal mattino della Pentecoste. Ciò è ancora più urgente perché la Chiesa universale, per essere credibile, deve smettere di dare l’impressione di essere eurocentrica e di limitarsi a tollerare le altre Chiese particolari. Essa deve divenire veramente interculturale.
Papa Benedetto XVI, quale profeta del mondo contemporaneo, l’ha indicato attraverso un duplice orientamento teologico e pastorale che il Pontificio Consiglio della Cultura si sforza di mettere in pratica come articolazione metodologica concreta della nuova evangelizzazione: il Cortile dei Gentili e l’interculturalità.
In particolare, l’interculturalità è auspicata da tutte le culture che, incentrate sulla parte più decisiva di se stesse, che è la fede che le fonda, accettano come il cristianesimo di uscire dal tempio — da quello che è dentro di loro — per andare a dialogare con i Gentili nel cortile che è stato loro riservato secondo l’ebraismo. L’interculturalità, per essere autentica, implica quindi l’accettazione da parte di tutte le religioni del fatto che, prima di ogni soggetto culturale e religioso, è Dio stesso che ha preso l’iniziativa di mettere fine a qualsiasi esclusione. In suo Figlio, Gesù di Nazaret, messo a morte, ma risorto il terzo giorno, ha abbattuto il «muro di separazione» e ucciso l’odio, affinché non esistesse che un solo uomo nuovo, mediante il quale è dato ora a tutta l’umanità di conoscere Dio e di conoscere se stessa. Se Dio sulla croce si rivela ai confini della cultura e dell’umanità nella figura singolare di questo unico Uomo nuovo, rivela anche a ogni individuo nella sua particolarità socio-culturale che proprio questo uomo nuovo è la matrice, il crogiolo singolare del suo atto creatore.
Cosa possono apportare le altre culture e religioni a questo crocevia che rende possibile ogni forma d’interculturalità? Siamo incapaci di dirlo, possiamo solo lasciarlo accadere. Non possiamo vivere «il tempo delle nazioni» (cfr. Luca 24; Catechismo della Chiesa Cattolica, 56) come loro procuratori. Esse devono accedere da sole al compimento dei tempi che la fede ci dice essere giunto in Gesù Cristo (cfr. Galati 4, 4). Il missionario della nuova evangelizzazione deve formarsi all’interculturalità. Del fatto che ogni «uomo dal cuore retto», partendo dal più profondo della sua cultura e della sua religione per aprirsi al dialogo con le altre culture, sia capace di comprendere e di accogliere la rivelazione di Dio nel luogo preciso della Croce, troviamo un’indicazione lontana, ma, a nostro avviso, certa, nella figura di Mahatma Gandhi, il cui Ashram non includeva alcuna figura del politeismo indù, ma solo la figura di Cristo che ascende nella gloria.
Formare dunque all’interculturalità così intesa, vuol dire vivere nel più grande rispetto degli altri, che consiste nel lasciare loro il tempo e la libertà di capire da soli che è Dio stesso a inaugurare il dialogo con tutte le culture nell’abolizione di ogni muro culturale di separazione e di esclusione.
L'Osservatore Romano 21 ottobre 2012