mercoledì 24 ottobre 2012

La fede dei bambini




Mille cose da fare: così mia moglie ed io, mentre il grande è all’asilo, una volta soddisfatte tutte le sue necessità, spesso piazziamo il piccolino in culla o sul divano, od anche sul lettone, attorniato dai cuscini. E lui rimane lì, a guardarsi intorno e scoprendo il mondo, oppure si lascia distrarre dai giochini che lo circondano, o invece si addormenta, ma sempre, e dico sempre, al passaggio di uno dei due genitori accanto a lui si blocca, spalanca gli occhi in un muto richiamo, allarga le sue braccine ed inizia a sgambettare frenetico, muovendo nell’aria passi svelti che hanno una sola meta: l’abbraccio del genitore.
Ma ci sono mille cose da fare e molte volte lo si lascia lì e si passa oltre, fingendo di non vederlo per non incoraggiare la sua voglia di noi, almeno fino a quando non si mette a strillare la sua protesta, e allora con cuore contrito si accorre a lui, dandogli ragione della sua pazienza.
Ma stamattina di fronte a quel suo atteggiamento gaiamente querulo mi sono fermato un momento ed un pensiero mi ha fulminato: siamo tutti dei credenti!
O almeno lo siamo stati un tempo: prima che le croste dei nostri preconcetti ci radicassero nella cieca negazione dell’evidenza. Già: perché tutti gli uomini nascono con un vagito che è ben più di un primo, doloroso respiro. Poiché il pianto del neonato è in realtà una professione di fede: l’espressione di un’inconscia certezza che esiste un altro, più grande di lui, che è in grado di soddisfare le sue esigenze. Una speranza incisa nella profonda intimità dell’animo umano che sgorga nelle lacrime del bimbo anche quando non c’è nessuno intorno a lui per udirla, anche quando è realmente abbandonato a se stesso, magari nelle asfittiche recondità di un cassonetto, e destinato alla morte per la sua prematura insufficienza.
Il grido del bambino è quel medesimo richiamo del Crocifisso, quell’ «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che non è disperazione, ma richiesta di abbandono nelle mani del Padre silenzioso: quel pianto che manifesta la consapevolezza di un’alterità esperita fin dal grembo materno. È un desiderio di Assoluto che l’uomo modula con frequenze diverse nell’arco di tutta la sua vita, da quando è il “grumo di cellule” che da quell’utero in grado di accoglierlo invia messaggi chimici per segnalare la sua presenza, fino all’esalazione di quell’ultimo fiato nel quale l’anima necessariamente si rilascia alle mani del Mistero.
E come il pianto di un bambino risulta irresistibile a qualunque genitore, così l’anelito dell’uomo, anche laddove rimane inespresso, è intollerabile al cuore di quel Padre che si china su di lui per soccorrerlo, ogni volta, fino a farsi carne, fino a morire in croce, per poi abbracciarne il destino nella Sua risurrezione ed assumerlo con Sé nell’intimo della Sua eternità.
Così mi ridesto dallo spettacolo di cotanta misericordia, che scopro racchiusa in quegli occhioni che mi fissano dalla culla, e davanti a quelle manine tese e a quelle gambette turbinanti mi si riassettano nella mente e nel cuore tutte le priorità: perché ho sì mille cose da fare, bimbo mio, ma il raccoglierti per stropicciarti un po’ è proprio in cima alla mia lista… (A. T. Giovanoli)