lunedì 14 luglio 2014

Una ignota e tremenda epidemia



Camillo de Lellis con i suoi compagni tra gli appestati di Roma. 

Si chiude il giubileo per il quarto centenario della morte di san Camillo de Lellis. Una storia di carità e misericordiaCon la celebrazione del transito — alle ore 21, presso la chiesa romana di Santa Maria Maddalena — guidata dall’arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, si conclude oggi, lunedì 14 luglio, l’anno giubilare indetto per il quarto centenario della morte di san Camillo de Lellis, patrono dei malati, degli infermieri e degli operatori sanitari. Sempre oggi, memoria liturgica del santo, il nuovo superiore generale dell’Ordine, padre Leocir Pessini, e i membri della consulta assumono ufficialmente la guida dei ministri degli infermi, o camilliani come familiarmente vengono chiamati. «Iniziamo il nostro cammino — scrivono nel loro messaggio il nuovo superiore generale e i consultori — con il fermo impegno di continuare a custodire la “piccola pianticella” dell’istituto, con la serena fiducia in Dio e l’umile consapevolezza che il bene a cui tutti siamo chiamati “non è opera nostra, ma del Signore”. I quattrocento anni di storia che ci precedono sono intrisi di grandi testimonianze di carità e di misericordia: questo deposito, straordinaria dimostrazione della benevolenza del Signore verso il nostro Ordine, ci sia di stimolo e d’incoraggiamento per purificare il nostro presente — con le sue luci e le sue ombre — e per riattivare un circuito virtuoso di speranza e di fiducia per il futuro».
Ritratto fedele
Arriva in questi giorni in Italia — tradotto dall’originale inglese Life of Saint Camillus — un classico del gesuita e scrittore londinese scomparso nel 1963 (San Camillo de Lellis, Roma, Castelvecchi, 2014, pagine 191, euro 18,50). Una biografia appassionata, di cui pubblichiamo tre estratti, eppure priva di contenuti “edificanti”, perché, spiega l’autore, se un santo viene ritratto fedelmente, senza tacerne o travisarne imperfezioni o eccentricità, l’edificazione nasce da sé.
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Camillo de Lellis con i suoi compagni tra gli appestati di Roma. Una ignota e tremenda epidemia
(Cyril Charles Martindale) Ma nell’agosto del 1590 una ignota e tremenda epidemia scoppiò nel quartiere di Roma dove si trovavano le rovine delle Terme di Diocleziano (su cui oggi sorge in parte la chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri; le rovine coprono un’area di 20 per 380 metri; erano state costruite da circa 40.000 schiavi, la maggior parte cristiani). Tutto quel quartiere era gremito di operai fatti venire da Sisto V dalla Lombardia, dalla Liguria e da Napoli per sviluppare le industrie della lana e della seta. L’affollamento era pauroso; e quando la stagione diventò eccezionalmente calda, e sopravvennero delle piogge torrenziali che provocarono lo straripamento del Tevere, l’epidemia prese a infuriare con inaudita veemenza. (La popolazione di Roma, che sotto Gregorio XIII era aumentata da 90.000 a 140.000, al principio del 1591 era scesa a 116.698). Camillo cominciò a organizzare la distribuzione dei viveri e a cercare i malati, poiché spesso intere famiglie, colpite dal male, rischiavano di morire senza soccorso né sepoltura, contribuendo così ad aumentare il già orribile lezzo che gravava sulla città. I viveri venivano distribuiti non soltanto nelle case, ma per le strade, lunghe talvolta centinaia di metri. Doveva certamente essere un curioso spettacolo vedere il gigantesco Camillo scalare le finestre, quando trovava le porte chiuse; arrampicarsi sulle rovine, salire fin sui tetti, nella sua ricerca degli appestati, e tutto questo, bisogna ricordare, sempre patendo per la piaga alla gamba e per la pesante fascia di ferro che era costretto a portare per comprimere l’ernia; ma ciò che più di tutto sbalordiva la gente era il suo straordinario successo con i bambini. Molto spesso doveva strapparli dal petto di madri morenti o infette e, dopo i primi vagiti, riusciva sempre ad acquietarli e persino a far loro prendere del latte fresco da due capre che conduceva sempre con sé. Quella misera folla rimaneva ancora più impressionata quando lui, fermato lungo la via da un cardinale, che affabilmente gli chiedeva come stessero i malati, rispondeva laconicamente: «Stanno meglio». Il cardinale continuava a far domande. «Oh, mio illustrissimo Signore», esclamava allora il poveretto, «vi prego per l’amore di Dio di non continuare a parlarmi; sono già in ritardo e devo portare questa medicina a un infermo». E se ne andava via, lasciando l’illustre prelato a bocca aperta. Ma molti cardinali e Sisto stesso erano spesso al fianco di Camillo durante i suoi giri e tutti rimanevano profondamente toccati sia dalla sua forza che dalla sua tenerezza. Per grande sfortuna, Sisto stesso prese quell’infezione, e ne morì in capo a pochi giorni.
Il colpo era grave per Camillo, ma il nuovo Pontefice, Urbano VII, gli promise tutto il suo aiuto. «I tesori della Chiesa», disse, «non esistono che per i poveri». Ma purtroppo anche lui morì soltanto tredici giorni dopo essere stato eletto. Il conclave che seguì durò due mesi. E il nuovo eletto fu un altro amico, il cardinale Sfondrati, che assunse il nome di Gregorio XIV. La carestia intanto era sopravvenuta ad aggravare la pestilenza, e la disonestà dei mercanti di grano, che approfittavano del momento per speculare su quella merce preziosa, aveva reso la situazione ancora più difficile. La folla invadeva le strade schiamazzando o vagava come una coorte di spiriti attorno alle mura della città. E con l’avvicinarsi dell’inverno, si potevano vedere coloro che per poco non erano morti di sete e che si erano sfamati con gli umili fili d’erba, arrampicarsi sui mucchi di letame nella speranza di riscaldarsi. Camillo aveva organizzato e tenuto in vita per un pezzo alla Maddalena un centro per la distribuzione della minestra; lui per primo — come sempre — distribuiva la minestra calda e una tazza di vino e poi lavava gli infermi e ascoltava i desideri particolari di ognuno, elevando, quando era possibile, i pensieri di quegli infelici verso le cose spirituali. Ma ora doveva preoccuparsi di raccogliere tutti i vestiti usati che poteva trovare e quante pezze di stoffa gli fossero state elargite e poi, assistito da un gruppo di quindici sarti, fare o rifare vestiti per le tremanti creature che soleva coprire con il suo mantello e quindi portarsi a casa, quando le incontrava per le vie battute dalla pioggia e dal vento. E quando per caso apprendeva di essere stato ingannato, e molto spesso da uomini che perdevano al gioco quanto aveva donato loro e poi tornavano per avere dell’altro... forse allora Camillo ricordava i giorni lontani in cui la passione per il gioco l’aveva ridotto senza camicia e, anziché rimproverare quegli uomini, ricordava a se stesso e a chi lo criticava che Gesù Cristo era presente anche in quei disgraziati, e li soccorreva nuovamente.
Un aspetto della sua carità che faceva una profonda impressione sui suoi contemporanei era rappresentato dalle immense rovine romane: il Foro, il Colosseo, il Palatino, le Terme di Caracalla e molte altre sono piene di pozzi e caverne misteriose, di corridoi tortuosi e di volte segrete. Verso quei luoghi fluiva una calca di malati in mezzo alla quale si trovavano anche dei criminali. E là, di giorno e di notte, si recava Camillo con otto dei suoi uomini più robusti e quattro portalettiga, carico lui stesso di un sacco che conteneva una bottiglia di grappa e tutto il necessario per un pronto soccorso. Annunciava il suo arrivo con il grido: «Iddio vi salvi, figli di Dio!» anticipando così in quegli uomini il panico che suscitava ogni passo sconosciuto, panico che molto spesso è soltanto il preludio di un assassinio. In questi antri Camillo doveva trattenere il respiro, tanto era il fetore che li appestava. La malattia e le privazioni avevano spesso ridotto quegli scheletri viventi in un tale stato di paralisi nervosa, che doveva loro aprire i denti a forza perché trangugiassero un boccone o un sorso d’acquavite.
Con il solo scopo di assistere i malati
L’organizzazione camilliana contava meno di trecento padri professati all’epoca della morte di Camillo; questa cifra esclude i fratelli laici e i novizi. Ma 220 avevano già sacrificato la loro vita al servi-zio degli infermi. I sopravvissuti erano distribuiti tra le sessanta case esistenti in Italia. Né l’Ordine riuscì a stabilirsi in altri Paesi fino al 1643, passando in Portogallo attraverso la Spagna e quindi al Perú. Ma sarebbe noioso narrare nei particolari la sua graduale espansione, sebbene, per varie ragioni, essa non sia mai diventata davvero estesa. Una delle ragioni è che l’Ordine esiste unicamente per un singolo scopo — l’assistenza ai malati — e non è uno di quegli scopi che attirino l’attenzione; altri Ordini, il cui dovere può essere di scrivere, predicare, educare, andare all’estero come missionari, attirano una maggiore varietà di caratteri e acquistano inevitabilmente maggiore pubblicità. Inoltre, fino a che i metodi igienici non cominciarono a migliorare, la mortalità tra i camilliani era molto alta. Infine, anche indipendentemente dalle sommosse politiche che divennero endemiche in Europa e che periodicamente provocarono la soppressione delle case religiose, la progressiva secolarizzazione degli ospedali sottrasse ai religiosi una buona parte di lavoro, sebbene ancora oggi io sia stato colpito, viaggiando, dall’enorme quantità di lavoro ospedaliero svolta dai religiosi, per quanto più particolarmente da suore, a beneficio di uomini e donne di qualsiasi credo; e abbia notato quanto un Governo apprezzi il fatto di disporre di uomini e donne per i quali l’assistenza ai malati è una vocazione piuttosto che una professione.
Camillo aveva ottenuto che un quarto voto fosse aggiunto ai so-liti tre: quello di assistere anche gli appestati. Abbiamo visto quanto eroicamente i camilliani li abbiano assistiti mentre Camillo era in vita. Ma le epidemie si susseguivano. Nel 1624 la peste scoppiò a Palermo; il viceré affidò a fratel Terzago la sovrintendenza del nuovo lazzaretto di Santa Lucia, così perfettamente organizzato che il professor A. Corradi, il quale lo descrive minutamente, lo definisce un modello per tutte le istituzioni del genere. Ma, dal 1630 al 1631, la peste si diffuse in tutta Italia. Manzoni, nei suoi Promessi Sposi ne descrive gli orrori per quanto riguarda Milano. Circa sessanta camilliani servirono in quella città, e diciassette morirono, tra i quali anche fratel Terzago.
Chi erano quegli uomini?
La folla li notò subito. Chi erano quegli uomini? Gesuiti reduci dall’India o dal Santo Sepolcro? O forse i Cavalieri del Sasso (nome con il quale si soleva definire anche quelli del Sassia)? Soprattutto, la gente voleva sapere perché portassero la croce a destra anziché a sinistra, com’era il costume. Fu loro detto che era semplicemente per distinguerla dalle altre croci, e perché, quando il mantello veniva incrociato sul petto col gesto consueto negli uomini di chiudere le vesti da sinistra verso destra, non rimanesse nascosta. E anche per spaventare il Diavolo. Portata sulla sinistra, la croce rappresentava uno scudo, sulla destra diventava una spada. Ma, come diceva Camillo, indicava anzitutto che la sua Società era una Società della Croce, vale a dire di stenti, di sofferenze e persino di morte, poiché nessuno poteva vivere in essa senza rinunciare completamente a se stesso e seguire Cristo crocifisso.
Dobbiamo citare soltanto un altro evento, prima di considerare di aver sufficientemente chiarito le origini della Società di san Camillo. La Società continuava a ingrandirsi; per le vie, tutti riconoscevano la croce fulva e la baciavano. Tra le reclute vi era un siciliano molto promettente, Biagio Oppertis, nato nel 1561 e accolto da Camillo nel novembre del 1586. Era già prete e uomo estremamente versatile: una specie di genio. È degno di nota che fosse anche molto prudente e facesse da freno all’ardente impetuosità di Camillo. Frattanto, la casa in via delle Botteghe Oscure era diventata troppo angusta; inoltre non aveva una cappella, ciò che costringeva la sempre più numerosa compagnia a cercarsi un altare nelle chiese vicine. Alla vigilia della festa di santa Maria Maddalena, Camillo si trovò a passare nei pressi della chiesa dedicata a questa santa nel Rione Colonna, presso il Pantheon. Vi entrò per ottenere l’indulgenza, e gli venne fatto di pensare che la chiesa sarebbe stata proprio adatta alla sua società, sebbene fosse in uno stato di abbandono davvero deplorevole. I negoziati si conclusero felicemente; persino le autorità pubbliche gli vennero in aiuto. E in dicembre i camilliani poterono prendere possesso della chiesa e delle case vicine, che furono a poco a poco adattate ai bisogni di una comunità. Qui giunsero anche padre Curzio, ormai convalescente, e padre Profeta, che aveva vinto il suo processo. E vi giunse anche un certo Juan de Adamo, uno spagnolo, che aveva l’incarico di far approvare dal Vaticano una nuova comunità spagnola costituitasi per assistere gli infermi negli ospedali. Tutti lo consigliarono di aggregarsi a Camillo. Non si sapeva decidere, ma un giorno, togliendosi di tasca una piccola croce bianca che aveva portato dalla Spagna, con grande meraviglia vide che si era fatta rossa. Questo pose fine a ogni suo dubbio. Dal dicembre 1586, quindi, Camillo prese possesso di Santa Maria Maddalena (che chiameremo più brevemente la Maddalena) e questa chiesa e la casa vicina sono da allora il centro della Società dei Servi degli Infermi. Ormai la Società era fondata e la sua sede scelta e occupata. Da questo momento, assistiamo al suo sviluppo e alla sua diffusione per il mondo.
L'Osservatore Romano