mercoledì 9 settembre 2015

Discriminazione gender



di Mario Adinolfi


A Radio 24 ieri mi hanno fatto commentare (ne ho parlato anche a Il Mormorio di un vento leggero su Radio Maria) l’ultima infernale storia figlia del trionfo dell’ideologia gender negli Stati Uniti, dove la desessualizzazione della genitorialità è ormai dogma inscalfibile e l’idea che i figli nascano da due mamme o da due papà materia insindacabile, pena galera e stigma sociale. I fatti. Due donne bianche lesbiche in Illinois vorrebbero avere figli. Esiste in natura un limite rispetto a quel desiderio, ma le norme trasformano il desiderio in diritto e i denari fanno il resto. Così le due donne vanno a comprarsi figlio e necessario corredo paterno presso un’azienda specializzata. Stipulano l’inevitabile contratto di compravendita, versano decine di migliaia di dollari, ottengono quello che vogliono. Ma il diavolo fa le pentole, qualche volta non i coperchi. Così, invece del donatore 380 che di cui avevano acquistato il flaconcino di sperma per avere un figlio “caucasico” (cioè bianco), arriva il flaconcino del donatore 330, afroamericano. In magazzino con i prodotti succede. Tu compri quella bella lavatrice che stava precisa nella nicchia ricavata nel muro della cucina, ti mandano quell’altro modello che invece non c’entra per niente. Ti incavoli e vai su tutte le furie, cerchi di avere la lavatrice giusta oppure ti fai ridare i soldi, se non succede né l’una né l’altra cosa fai causa. Lo stesso hanno fatto le donne che avevano trasformato la genitorialità nell’acquisto di una lavatrice, “mamme” che hanno trasformato il loro desiderio in diritto e il bambino in oggetto reificato di una compravendita, il neonato in una cosa. Ma le persone non sono cose. E i figli non si pagano. Quante volte l’avrò ripetuto?

Qui comincia la parte più surreale di questa surreale vicenda: la causa in tribunale. Le due donne si rivolgono alla legge per “nascita errata”. La sola fattispecie mette i brividi perché nella società che ha appena proclamato tronfia che “love wins” queste due donne pronunciano l’impronunciabile: la nascita è errata perché la figlia (sì, dal pasticcio è nata una splendida bambina) è nera e non bianca, come da contratto. La motivazione fa talmente arricciare il naso persino agli ideologi americani del gender, per i quali per capirci chi non la pensa come loro deve finire in galera, che le due donne devono correre ai ripari e dichiarare che amano tanto la bambina ma avrà difficoltà a crescere in un contesto di bianchi. Ma come, ma “love” non “wins” più? Cos’è, si scopre la difficoltà dell’essere genitori, dello spiegare le difficoltà del mondo? Volevano solo una bambolina, un gioco senza fatica? E poi, soprattutto, che c’entrano queste motivazioni con la causa alla “società produttrice”? E con quella vergognosa fattispecie: “nascita errata”?
Tutte chiacchiere, dunque, le dichiarazioni delle due. La verità è che è una causa di natura commerciale per un’infrazione di natura commerciale, un meccanismo innescato dall’aver trasformato la persona in una cosa, dall’aver desessualizzato la genitorialità, dall’aver escluso nello specifico la presenza di una figura paterna. Solo una questione di soldi, alla fine. E di “prodotto fallato” consegnato dal costruttore al consumatore.
Arriva poi la parte più terrificante della storia. Le due lesbiche bianche perdono la causa perché il tribunale dell’Illinois considera il fatto che sia nata una figlia nera non inserita nella fattispecie di “nascita errata”. Vi state lasciando andare a un sospiro di sollievo perché almeno questa storia che puzza di razzismo lontano un miglio almeno ha un lieto fine? Aspettate un attimo, leggete le motivazioni. Il giudice dice che la nascita non è errata perché la bambina è sana. Se fosse stata malata, allora sì che potevano far causa. “Love” non “wins” più se la piccola fosse stata bisognosa di cure, allora sì che il tribunale avrebbe persino dato ragione alle due lesbiche. Questo è l’inferno delle persone trasformate in cose.
Mentre mi facevano commentare la storia a Radio 24 mi assaliva un senso di profonda tristezza, perché tutti gli interlocutori si dicevano d’accordo con il mio orrore, ma quando ho affermato che tutto questo è inevitabile conseguenza del voler affermare l’assunto principale dell’ideologia gender e che dunque i figli possono nascere da due papà e da due mamme, subito si ritraevano. Quando ho affermato che in Italia vorrebbero approvare una legge che consente di trasformare il falso in vero, di dichiarare i figli nati da due papà o da due mamme, che io mi batto contro quella legge (il ddl Cirinnà) perché tutto questo schifo infernale è conseguenza dell’approvazione di leggi simili, subito sono cominciati i distinguo. E invece lo cose stanno insieme. Desessualizzate la genitorialità e queste saranno le inevitabili conseguenze. Ora sta a noi scegliere. E sta a noi batterci. E’ chiaro che è in gioco l’idea di società che governerà il nostro futuro, la dignità della persona e, in sintesi, la natura stessa dell’essere umano? Non questioni da poco. Questioni straordinarie. Che richiedono una straordinaria intensità nel mettersi in gioco come testimoni di verità, pronti a pagare qualsiasi prezzo sia richiesto. Negli Usa, nella terra dove se nasci malato sei una “nascita errata”, hanno già cominciato a mandare in carcere chi si oppone all’ideologia gender. Kim Davis, impiegata che si è opposta alla sentenza sui matrimoni gay, non è stata licenziata: è stata inviata nelle patrie galere. Perché anche gli americani sono un po’ maoisti: colpirne uno per educarne cento. Kim Davis è un monito per tutti. Subite, tacete o sarà carcere.
Il ddl Scalfarotto da noi costruisce lo stesso tipo di società, con pene pure più pesanti, fino a sei anni di galera. Dopo l’arresto di Kim Davis ho contato decine di messaggi che chiedevano per me lo stesso trattamento, che lo ritenevano pienamente giustificato e applicabile. Avete capito che la lotta contro l’ideologia gender si fa dura e piena di pesanti conseguenze? Quanto di voi stessi metterete in gioco?
08/09/2015 La Croce quotidiano