mercoledì 16 settembre 2015

Nel cuore delle persone con il Vangelo




"Ho la fortuna di essere l’unico arcivescovo che avrà ricevuto nella stessa sede tre Papi. In quell’ultimo pomeriggio del Concistoro, molti ricordi e considerazioni su questi tre Pontefici sono sfilati, in un rapido susseguirsi, nella mia mente, al punto da riuscire a seguire a stento gli interventi dei miei fratelli cardinali."

(Jaime Ortega y Alamino, Cardinale arcivescovo dell’Avana) Durante il Concistoro straordinario dello scorso febbraio, dopo il mio saluto a Papa Francesco e prima dell’inizio della sessione d’apertura, il Pontefice mi ha detto: «Mi sta venendo un’idea: venire a Cuba». Io gli ho manifestato il mio entusiasmo al riguardo e ho suggerito d’inserirla nel viaggio che avrebbe dovuto compiere a luglio in America latina per visitare Ecuador, Bolivia e Paraguay. Il Papa si è mostrato perplesso perché Cuba era lontana dall’itinerario previsto e perché erano già diversi i Paesi inseriti in un solo percorso, che era già troppo lungo. Ha però aggiunto: «vedremo».
Nella sessione del secondo giorno, nel pomeriggio, Papa Francesco mi ha fatto cenno di avvicinarmi al suo tavolo e mi ha detto sorridente: «Ho preso la decisione di venire a Cuba e ho già messo in moto monsignor Angelo Becciu. Cuba sarà unita al viaggio negli Stati Uniti di settembre». Gli ho risposto: «Santità, torno a Cuba con una grande gioia!» e l’ho ringraziato profondamente commosso. Dopo quelle parole pronunciate da Papa Francesco, piene di affetto pastorale per la nostra Chiesa, ancora più grande è stata la mia emozione quando l’ho sentito dire: «È il minimo che posso fare per voi».
Ho la fortuna di essere l’unico arcivescovo che avrà ricevuto nella stessa sede tre Papi. In quell’ultimo pomeriggio del Concistoro, molti ricordi e considerazioni su questi tre Pontefici sono sfilati, in un rapido susseguirsi, nella mia mente, al punto da riuscire a seguire a stento gli interventi dei miei fratelli cardinali. Ho ricordato con profondi sentimenti filiali il viaggio a Cuba di Giovanni Paolo II, Pontefice che si era levato nell’orizzonte vocazionale della mia vita come un faro saldo e luminoso, che mi aveva portato a diventare dapprima giovane vescovo a Pinar del Río (1978) e poi, tre anni dopo, arcivescovo all’Avana (1981). Infine, nel Concistoro del 1994, fu lui a impormi la berretta cardinalizia. Che grande vicinanza e affetto paterno ho provato sempre, con il suo fermo sostegno in ogni momento, anche quando, al termine della sua preziosa vita, sembravano mancargli le forze!
Per motivi economici e sociali, all’inizio degli anni Novanta il Papa non aveva potuto accettare l’invito a visitare il nostro Paese fattogli dai vescovi cubani vari anni prima, visita che desiderava tanto compiere perché interessato alla realtà della nostra Chiesa, che aveva vissuto situazioni simili a quelle della sua Polonia. Diversi anni trascorsero dal nostro invito alla sua decisa accettazione. Nel 1998, quasi alla fine del millennio, con meno forza di quella che aveva all’epoca in cui glielo avevamo chiesto, Papa Wojtyła ha potuto finalmente compiere la sua emozionante visita a Cuba, che è stata un raggio di luce per la Chiesa nel nostro Paese e una pietra miliare nella sua storia e in quella del popolo cubano. La frase che, nel suo saluto iniziale rivolto a Cuba e al mondo, faceva riferimento all’isolamento del nostro Paese nel contesto del continente americano e del mondo intero, e il suo invito a rompere tale isolamento — «che Cuba si apra con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e che il mondo si apra a Cuba» — hanno avuto un’eco immediata, eco che si sente ancora oggi e aumenta in ogni evento che sembra confermare l’auspicio e la supplica di quel Santo Pastore, come è accaduto lo scorso 17 dicembre, quando i presidenti cubano e quello degli Stati Uniti hanno annunciato contemporaneamente il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi con l’apertura di ambasciate nelle rispettive capitali.
È così iniziata una nuova tappa nelle relazioni diplomatiche tra queste due nazioni rimaste separate per oltre cinquant’anni. Durante quello storico annuncio i due presidenti hanno ringraziato Papa Francesco per la sua partecipazione al processo che ha portato a questo avvicinamento e che ha aperto nuove vie di convivenza e di dialogo. Dietro a quell’accordo, in modo discreto ma efficace, c’è la chiara convinzione di Papa Francesco che lo porta a generare e a favorire il dialogo come elemento indispensabile per superare le tensioni e risolvere i conflitti. Non è stata la prima volta che lo ha fatto nel suo Pontificato, anche se forse il perdurare della tesa e dolorosa situazione tra Cuba e Stati Uniti ha reso ancora più importante il suo silenzioso intervento.
Il cammino del dialogo tra le diverse religioni, del dialogo della Chiesa con altre confessioni cristiane e con l’ebraismo, con le diverse etnie e culture, con la modernità, con le strutture sociali e politiche, con il mondo, fu significativamente rafforzato da Giovanni XXIII con la convocazione del concilio Vaticano II, che fece entrare la Chiesa, in modo rinnovato, nella storia concreta dell’umanità del ventesimo secolo. Quella proposta di dialogo fu accolta da Paolo VI, che la promosse ammirevolmente durante il suo Pontificato. L’espressione migliore di ciò è contenuta in una frase breve, emblematica e decisiva di Papa Montini: «Dialogo è il nuovo nome dell’amore». Il Pontefice illustrava con queste parole come si devono relazionare gli esseri umani tra loro e lo stile che deve prevalere nella Chiesa, tra i popoli, tra gruppi diversi della società e in ogni cristiano nei suoi rapporti con il mondo.
Giovanni Paolo II si è inserito in questo cammino di dialogo. Lui che aveva vissuto un dialogo difficile come vescovo nella sua Polonia, lo ha a sua volta promosso, anche quando sembrava sterile e all’apparenza impossibile. I suoi orientamenti, i suoi insegnamenti, erano fedeli a quello spirito fondamentale del Vaticano II al quale aveva partecipato. Noi che abbiamo potuto conoscere tutto ciò da vicino, abbiamo trovato in Benedetto XVI una chiara continuità con questa linea d’interazione della Chiesa con il mondo moderno nelle sue strutture, nel suo operato politico-sociale e nell’ambito delle idee e delle concezioni che sottendono il pensiero attuale. Sebbene quest’ultimo sia stato l’ambito in cui Papa Benedetto si è espresso magistralmente, il suo contributo illuminante allo stile dialogale della Chiesa, i suoi contatti letterari e personali con la modernità e la formulazione del suo pensiero riguardo al dialogo nel campo interreligioso, sociale e politico, costituiscono un inestimabile tesoro nella comprensione del ruolo fondamentale del dialogo nella vita della Chiesa e di ogni cristiano.
In un’indimenticabile conversazione con l’attuale Papa emerito, nel giugno 2012, dopo il suo viaggio a Cuba, dove era venuto come pellegrino durante il Giubileo che stavamo celebrando nel nostro Paese per i 400 anni dal ritrovamento, nelle acque del mare, della statuetta della Vergine della Carità, divenuta patrona di Cuba, Benedetto XVI si è mostrato soddisfatto e contento del suo viaggio, per il quale noi vescovi cubani gli siamo tanto grati e, tenendo presente Cuba e la sua recente visita, ha ricordato compiaciuto l’accoglienza ufficiale e i gesti amichevoli e cordiali che gli erano stati riservati, e in quel contesto si è riferito al dialogo come cammino proprio della Chiesa. In diverse occasioni ho citato quelle parole di Papa Ratzinger, che mi hanno colpito per la convinzione con cui le ha pronunciate. In quell’incontro mi ha detto: «Il dialogo è l’unico cammino della Chiesa... La Chiesa non è nel mondo per cambiare governi, ma per penetrare con il Vangelo il cuore degli uomini». Benedetto XVI mi ha detto questo poco prima di lasciare la Sede di Pietro. Quando, alcuni mesi dopo, noi cardinali ci siamo riuniti per il conclave che avrebbe eletto in breve tempo Jorge Mario Bergoglio, ho avuto l’opportunità di parlare dell’America latina e di Cuba con il futuro Papa. In un dato momento della conversazione, nel fare allusione al dialogo e alla sua importanza nella congiuntura attuale di grandi trasformazioni nel continente latinoamericano, mi è venuto in mente quello che, nella mia ultima conversazione con Papa Benedetto, mi aveva apoditticamente detto riguardo al dialogo come unico cammino della Chiesa nel suo rapporto con le strutture politiche e, contestualizzandola, ho ripetuto la frase di Benedetto al futuro Papa Francesco, il quale alzando le braccia ha esclamato: «Questa frase andrebbe scritta su un cartello all’entrata di tutte le città del mondo», e l’ha ripetuta, parola per parola. Poi ha aggiunto: «Tutti i processi sociali e politici vanno accompagnati in un clima di dialogo».
Quando, poche ore dopo il cardinale Bergoglio è stato eletto alla cattedra di Pietro, colmandoci di gioia perché avevamo un Papa latinoamericano, vicino a noi, che aveva trasmesso all’Episcopato dell’America Latina ad Aparecida, in Brasile, la convinzione che la Chiesa è missione di Cristo per i nostri popoli, affinché tutti, vescovi, sacerdoti e laici prendessimo coscienza di essere missionari, e vedendo che il nuovo Papa avrebbe comunicato sicuramente a tutta la Chiesa quello slancio evangelizzatore, non ho potuto non pensare a quello che mi aveva detto Benedetto XVI sulla missione della Chiesa: «La Chiesa è nel mondo per penetrare con il Vangelo il cuore degli uomini». Era questo che il nuovo Papa, facendosi eco di quelle parole, mi aveva ripetuto con profonda convinzione, e quello che sta animando ferventemente il suo Pontificato.
Questo è Francesco, che ora ci visita a Cuba: un Papa missionario, che viene nel nostro piccolo paese, come a Sarajevo, come in Sri Lanka, come in Albania; che viene in un Paese che ha superato isolamenti e distanziamenti, grazie anche al dialogo che la Chiesa e i Papi del ventesimo secolo hanno promosso. Ed è stato proprio Francesco a suscitare e ad appoggiare il dialogo tra i popoli e i Governi di Cuba e Stati Uniti. Viene tra noi per riaffermare la condizione missionaria della Chiesa e la sua predilezione per i piccoli, i poveri. Viene come Missionario della misericordia e nessun altro motto potrebbe definirlo meglio dinanzi a questo nostro mondo fatto di durezza, di solitudine, di ogni sorta di povertà, di speranze sfumate e di vuoto di Dio, dove l’amore si prende come un gioco in cui perdenti tristi e falsi vincitori recitano continuamente la propria parte senza riuscire a trovare il vero Amore. E ciò ha messo in crisi la famiglia, il cui ruolo è insostituibile nella formazione delle nuove generazioni e perciò è al centro della sollecitudine pastorale del Papa.
C’è un legame fondamentale tra la crisi della famiglia e le inquietudini e gli aneliti dei giovani, che Papa Francesco incontrerà all’Avana. Quell’incontro sarà perciò un momento molto speciale della sua visita. Il Dio che è amore sarà presentato a Cuba da Papa Francesco ai giovani, alle famiglie, ai sacerdoti, alle religiose e a tutti: il Dio misericordioso che comprende e perdona.
A Plaza de la Revolución “José Martí”, di fronte all’altare dove Papa Francesco presiederà l’Eucaristia, ci sarà una gigantografia che ricoprirà gli oltre dieci piani della Biblioteca nazionale. Sarà l’immagine del Cristo della misericordia. Il nostro popolo cubano, come tutti i popoli della terra, ha bisogno di sperimentare nel momento in cui viviamo che la misericordia non è commiserazione, né semplice condiscendenza, bensì comprensione del cuore umano nelle sue inquietudini e nei suoi limiti. Sentiremo l’incoraggiamento di chi si china su di noi per sollevare il nostro animo con semplicità e umiltà, come saprà farlo Papa Francesco nella celebrazione della Santa Eucaristia, nel suo passaggio per le strade dell’Avana, e soprattutto nell’incontro con i giovani.
Si può fare tutto ciò in così poco tempo, solo vedendo il Papa passare, da lontano? A volte bastano uno sguardo, un gesto, un sorriso, per sapere che Dio viene a noi e che, per mezzo del suo Vicario in terra, Cristo sta visitando il suo popolo.
Così abbiamo ricevuto Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, e così aspettiamo Papa Francesco. Non è sempre lo stesso popolo: alcuni sono saliti da Dio Padre, molti sono emigrati. L’emigrazione lascia tracce in tutte le famiglie cubane, è la tentazione perenne della nostra gioventù. L’emigrazione dei più giovani e la bassa natalità fanno sì che la popolazione di Cuba stia rapidamente diminuendo e invecchiando, e questo ci preoccupa; ma abbiamo anche altre preoccupazioni al momento.
Di fronte al nuovo cammino che sembra aprirsi ora al popolo cubano, con i suoi rischi e i suoi benefici, la nostra gente, in maggior parte credente, deve rivolgere il suo sguardo a Dio e mettere il proprio futuro nelle mani di Gesù misericordioso. Il Papa la inviterà a fare ciò. In questo consiste la speranza. Francesco verrà a seminare speranza tra noi, la quale non è altro che confidare nell’azione di Dio misericordioso che ci aiuterà in un prossimo futuro a superare i rischi e a scoprire, anche con il Suo aiuto, che i benefici potranno essere maggiori dei rischi nel nuovo cammino che sembra aprirsi dinanzi a noi, se saremo capaci di dare spazio a Dio nella nostra vita.
Questo deve liberare le nostre famiglie e la nostra gioventù dallo scetticismo paralizzante, che è estraneo alla fede cristiana e nel quale Dio non è presente. Il Papa viene a dirci qualcosa di nuovo in un momento nuovo della nostra storia.
È certamente questa l’intuizione del popolo di Cuba mentre attende Francesco.
Sono sicuro che quanti lo riceveranno con un atteggiamento di fede come colui che viene nel nome del Signore, non vedranno le proprie aspettative deluse. È vero che il popolo cubano desidera che il paese progredisca e che la prosperità benefici in modo equo tutti, ma non è solo questo; nell’ordine spirituale il nostro popolo anela a un amore stabile e duraturo nelle famiglie, alla pace nella convivenza familiare e nazionale, in poche parole, anela a godere di una vita riconciliata e felice. Non è un anelito smisurato se nel nostro cuore non dimentichiamo che Dio è il datore di ogni bene e che per Lui nulla è impossibile.
Francesco viene proprio per questo, perché non ci dimentichiamo di ciò, perché non ci dimentichiamo di Dio, e sarà accolto da tutto il nostro popolo con devozione e affetto. Il suo passaggio per Cuba, ne sono certo, lascerà impronte indelebili.

L'Osservatore Romano