venerdì 4 settembre 2015

Quei neo-rigoristi che assediano il confessionale

La confessione

Nelle reazioni allarmate alla lettera di Papa Francesco sull'indulgenza giubilare riaffiorano i vecchi tic ideologici di chi non si fida della grazia. Già negli anni Novanta, alcuni settori ecclesiastici tentarono di asservire il sacramento della confessione alle battaglie sui principi di etica sessuale

GIANNI VALENTECITTÀ DEL VATICANO

«Era bellissimo essere cattolico e andarsi a confessare: ogni settimana ricominciavi tutto da capo». Così si esprime Calogero, il protagonista italo-americano in una scena del film Bronx, storia di bande criminali e di possibili redenzioni. Segno che perfino per gli  autori dei copioni di cinema uno dei segreti dell’esperienza cristiana è l’ininterrotta possibilità di un nuovo inizio.


Per secoli, questa forza di rigenerazione inesauribile e umanamente inarrivabile ha avuto uno strumento discreto e silenzioso: il confessionale. Un dinamismo di gratuità senza misura che Papa Francesco ha riproposto anche nella Lettera da lui indirizzata all’arcivescovo Rino Fisichella,  dedicata alle  modalità di concessione dell’indulgenza giubilare durante l’Anno Santo della Misericordia.


In quel documento, Papa Francesco rende esplicito l'intento che lo ha mosso a indire l’anno giubilare: permettere al maggior numero possibile di persone di chiedere e ricevere il perdono dei propri peccati col sacramento della riconciliazione, e così potersi riaccostare alla vita sacramentale della Chiesa. Anche le possibilità pratiche concesse nell’amministrazione della confessione – a partire da quella di poter confessare il pentimento per il peccato di procurato aborto a qualsiasi prete, e non soltanto ai vescovi diocesani o ai sacerdoti da loro autorizzati – riflettono l'intenzione di offrire ulteriori strumenti alla sovrabbondanza senza misura con cui la grazia del perdono viene offerta a chi è pentito, secondo la grande Tradizione della Chiesa. È questa la “dottrina di sempre”, che ha sempre spiazzato e scandalizzato le pretese religiose e morali dei rigoristi. Uno scandalo che riaffiora anche oggi, nei commenti allarmati, velenosi o pieni di “messe a punto” precauzionali che in maniera più o meno esplicita leggono nell’ultimo testo del Successore di Pietro un potenziale cedimento disfattista alla mentalità abortista sul fronte delle battaglie valoriali, per il solo fatto di aver esteso a tutti i preti nel tempo giubilare la facoltà di rimettere il peccato di aborto.


Tale reazione è di per sé eloquente. Perché non arriva dagli atei e dai relativisti, ma da neo-rigoristi che in certi circoli ecclesiastici hanno egemonizzato il dibattito pubblico negli ultimi lustri.  



Di certo, la pratica sacramentale della penitenza rappresenta da sempre un crinale delicato. Nei confessionali passa la faglia di frattura lungo la quale si rivela – o viene sfigurata – l’immagine della Chiesa come strumento della misericordia di Dio per il mondo. E più volte, nel corso della storia, è già accaduto che ecclesiastici animati da sentimenti di rigore abbiano strumentalizzato il sacramento della confessione nei loro progetti cultural-religiosi, oltraggiandone la natura oggettiva. 




Nel 1996, in uno studio pubblicato da Einaudi (Tribunali della coscienza, 1996) Adriano Prosperi ha raccontato il tentativo perseguito ai tempi della Controriforma da una parte della leadership cattolica di allora per piegare il sacramento della confessione a strumento di egemonia sociale e culturale. A quel tempo, anche i tribunali dell’Inquisizione consideravano la pratica penitenziale come uno strumento naturale di controllo delle coscienze, per prevenire il contagio di idee ereticali e raccogliere informazioni sulla loro diffusione in seno al popolo cattolico. Anche alcuni riformatori cattolici pensavano di farne un veicolo privilegiato del loro progetto di risanamento dei comportamenti morali e sociali, volto a instaurare un modello di vita cristiana fatto di severa moralità. 



In tempi più recenti, un caso molto eloquente di confusione rigorista rispetto al sacramento della penitenza ha visto come protagonisti anche personaggi e dicasteri vaticani. Accadde nel 1997, quando il Pontificio Consiglio per la Famiglia, sotto la guida del cardinale colombiano Alfonso López Trujillo – oggi scomparso -, aveva voluto pubblicare un vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale e sessuale. La prima bozza, preparata sotto gli auspici di Trujillo – che per molti anni è stato anche membro dell'ex Sant'Uffizio - era stata concepita come uno strumento di moralizzazione della vita sessuale delle coppie cattoliche. Si voleva di fatto usare il confessionale  per mettere sotto pressione l’incoerenza dei cattolici che nella loro vita coniugale ricorrono agli anticoncezionali. Un intento “moralizzatore” che di fatto finiva per modificare la disciplina e la dinamica della confessione, lasciando balenare la minaccia di non dare l’assoluzione ai cosiddetti peccatori “recidivi”, che continuano a commettere lo stesso peccato. Ma proprio la rigidezza del manuale fu presa di mira e disinnescata dall’intervento della Penitenzieria apostolica, il più antico dicastero della Santa Sede, a cui compete tutto ciò che ha a che fare con la disciplina penitenziale, le assoluzioni dai peccati più gravi e anche la concessione delle indulgenze. 



A quel tempo, alla Penitenzieria apostolica era reggente Luigi De Magistris, un vescovo noto per la sua solida formazione tradizionale e “preconciliare”, creato cardinale da Papa Francesco lo scorso febbraio. Furono De Magistris e gli altri ufficiali della Penitenzieria a dare l’allarme: a loro giudizio, la stretta rigorista richiesta da Trujillo finiva per contraddire quello che la Chiesa ha sempre insegnato e praticato sul sacramento della confessione. Alla fine, il vademecum pubblicato dopo l'intervento della Penitenzieria ribadì a chiare lettere che ai recidivi nei peccati di contraccezione (quelli che tornano a usare gli anticoncezionali dopo essersene confessati) non può essere negata l’assoluzione quando si confessano di nuovo. Innanzitutto perché tale negazione rappresenterebbe di per se un atto di sfiducia nell'opera efficace della grazia sacramentale. 


«La recidiva nei peccati di contraccezione» chiariva con nettezza il vademecum «non è in se stessa motivo per negare l'assoluzione». E il confessore deve evitare «di dimostrare sfiducia sia della grazia di Dio, sia delle disposizioni del penitente, esigendo garanzie assolute, che umanamente sono impossibili, di una futura condotta irreprensibile». L’assoluzione accordata senza misura («settanta volte sette») a chi continua a ricadere negli stessi peccati è un tratto rivelatore di chi sia il vero attore del sacramento della confessione: è Gesù che dona sempre la grazia del perdono a tutti i peccatori pentiti, che di solito sono recidivi. E la Chiesa deve operare affinché per tutti sia facile e possibile approfittare di tale dono. Per questo, con la sua Lettera all'arcivescovo Fisichella, Papa Francesco ha concesso a tutti i preti – e non solo ai vescovi e ai loro delegati - di confessare e assolvere durante l'Anno giubilare chi confessa il peccato di aborto procurato. 


Ma già il Vademecum per i confessore del 1997 su questo punto specifico ripeteva che «se il pentimento è sincero ed è difficile rinviare alla competente autorità, cui fosse riservata l'assoluzione della censura, ogni confessore può assolvere a tenore del canone 1357 (del Codice di Diritto canonico, ndr) e suggerire l'adeguata opera penitenziale». Anche in quel documento si sollecitavano tutti i sacerdoti a assumersi loro stessi l’incarico di inoltrare al vescovo e ai suoi delegati l’informazione sui casi in cui in confessionale avevano assolto dal peccato di procurato aborto, «senza fare menzione del nominativo del penitente». E questa è di fatto la prassi seguita abitualmente da ogni prete di buon senso pastorale, quando gli capita di ascoltare la confessione di chi ha volontariamente abortito o procurato l'aborto. 


Tutti i grandi confessori (da sant'Alfonso Maria de' Liguori a san Leopoldo Mandic) e tutti i manuali di teologia sacramentaria (anche prima del Concilio) hanno incarnato e prescritto la sollecitudine a facilitare per tutti l'esperienza della misericordia di Dio che si esprime nel sacramento della confessione. Sulla stessa, tradizionale linea d'onda si muovono le indicazioni contenute nella Lettera di Papa Francesco sull'indulgenza in vista del Giubileo della misericordia. Certe reazioni affiorate davanti a quel documento fanno pensare che in alcuni settori impegnati a tempo pieno nelle battaglie a difesa delle verità cristiane – sulla famiglia, sul sesso, sulla vita inviolabile – si viva di fatto una totale estraneità alle dinamiche proprie - cioè sacramentali – della vicenda cristiana. Con uno snaturamento ideologico delle parole e dei contenuti cristiani che stravolge anche i sacramenti - strumenti propri e ordinari del dinamismo della salvezza operato da Cristo – fino a snaturarli in pratiche rituali espressive di un progetto ideologico-culturale, o di una certa “visione” dell’uomo e del mondo.