martedì 1 settembre 2015

Un diritto da perdonare




(Lucetta Scaraffia) Con il giubileo centrato sulla «genuina esperienza della misericordia di Dio» il Pontefice vuole soprattutto aprire la porta a coloro che ne sono esclusi. Tra questi, i carcerati, che non possono recarsi a Roma e neppure nelle chiese diocesane abilitate al perdono: addirittura, «ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre», per loro sarà come passare per la Porta santa scrive Francesco. E la misericordia di questo anno santo sarà aperta anche ai fedeli che frequentano le chiese officiate dalla minoranza lefebvriana, nell’auspicio che si possa recuperare la piena comunione con i loro sacerdoti e superiori.
Ma soprattutto il Papa rivolge parole cariche di amore, e non di biasimo, alle donne che hanno abortito. Donne che, in gran parte, hanno contraddetto gli insegnamenti della Chiesa per avere scelto di considerare l’aborto — un «gravissimo male» — come il diritto sul quale costruire la loro liberazione. Ma che si sono accorte, nella loro difficile esperienza personale, che l’aborto non può essere una via di liberazione, e che è difficile, al di là delle decisioni prese in grande misura per influenza delle ideologie correnti, cancellare dentro se stesse il pesante senso di colpa che si prova per avere impedito a una creatura di venire alla luce. A loro, che hanno il cuore appesantito da questa ferita in apparenza irrimediabile, Francesco si rivolge, offrendo quello che solo l’amore di Dio può dare: il perdono. Nelle parole del Papa c’è molta misericordia. «Conosco bene — assicura nella sua lettera — i condizionamenti che le hanno portate a questa decisione. So che è un dramma esistenziale e morale. Ho incontrato tante donne che portavano nel loro cuore la cicatrice per questa scelta sofferta e dolorosa. Ciò che è avvenuto è profondamente ingiusto; eppure, solo il comprenderlo nella sua verità può consentire di non perdere la speranza».
La grandezza della tradizione cristiana è tutta qui: perdonare senza per questo sminuire la portata morale del peccato commesso, senza per questo pensare che non si trattava di un male. Davanti a un mondo che vuole considerare l’aborto un diritto come gli altri, di fronte a movimenti ideologici che ne hanno fatto il primo passo per il cammino della libertà femminile, Francesco ribadisce la condanna di questa ingiustizia proprio nel momento in cui offre il perdono.
Quel perdono che tante donne non possono concedere a se stesse, anche quando pensano con la ragione di non avere commesso niente di male. Perché l’aborto — e ogni donna lo sa — è un’esperienza che segna indelebilmente la vita, un peso che si porterà dentro per sempre. Solo il perdono può liberare da questo peso, non l’orgoglio per una scelta che pure è sempre vissuta come inevitabile, come vorrebbe la cultura dominante.
Con poche e paterne parole, con la concessione a ogni sacerdote di perdonare durante il giubileo questo peccato che ormai è così diffuso da meritare un’apertura di perdono più ampia, Papa Francesco mostra il suo cuore alle donne del nostro tempo. Non chiede niente altro se non che riconoscano quello che il loro corpo e il loro cuore già hanno riconosciuto, al di là della loro volontà. E offre in cambio l’unica soluzione possibile, la sola liberazione: il perdono.
Si tratta di un atto di amore coraggioso verso le donne, di un riconoscimento della loro vera natura, al di là delle ideologie e del politicamente corretto. Un atto che avrebbe una eco ancora più forte se, all’interno della Chiesa, alle donne venisse riconosciuto il posto che meritano.

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Il ruolo femminile nella formazione dei seminaristi. Cosa dovrebbe cambiare?

(Caterina Ciriello) Perché la Chiesa, intesa come gerarchia, o almeno una sua parte, fa fatica — per non dire quasi si rifiuta — a dialogare liberamente e in sincerità con il mondo femminile? Aristotele affermava con decisione che «la femmina è un maschio mancato» (femina est mas occasionatus), nasce per un “difetto” naturale, cioè è un “accidente”. Per Agostino e Ambrogio la donna è la causa del peccato e quindi deve essere subordinata all’uomo. Ma san Paolo ci rammenta che in Cristo siamo tutti uguali: non esiste né giudeo né greco, né uomo né donna (Galati, 3, 28). Lo stesso Papa Francesco non si stanca di ricordare, alla cristianità e al mondo intero, l’importanza e la centralità del ruolo della donna nella vita sociale e nella Chiesa. Eppure quanto dice sembra passare sotto silenzio, quasi si trattasse di una frattura “dogmatica” all’interno di un pensiero condiviso e radicato in molti “uomini” di Chiesa. La donna appare come fonte di problemi e non di ricchezza e complementarità quale in effetti è. Questa tradizione antropologico-culturale è stata consegnata alle generazioni successive di sacerdoti e futuri seminaristi, i quali hanno accettato tacitamente questa eredità scellerata e difficile da scardinare. Sarebbe interessante fare un sondaggio, per aiutare e aiutarci a capire cosa c’è che non va tra donne e sacerdoti, perché stiamo parlando di un problema ben reale, concreto. 
Pensiamo sia necessario partire da un nodo fondamentale: la presenza e il ruolo delle donne nei seminari e nella formazione dei seminaristi. Vorremmo sbagliare, ma possiamo contarle sulle dita di una mano. E quando ci sono, si trovano in posizione di subalternità, cioè sono persone a dir poco invisibili, che cucinano, lavano, stirano, puliscono le stanze dei giovani e si aggirano tra le sacre mura pronte a svanire al minimo cenno. Sono religiose e laiche. Le prime lo fanno per missione; le seconde perché devono lavorare per vivere. Ma questa attività le obbliga, spesso e volentieri, al silenzio, a una totale — o quasi — assenza di rapporti umani con i loro interlocutori. 
Nella Pastores dabo vobis si sottolinea «la connotazione essenzialmente “relazionale” dell’identità del presbitero» e l’importanza di definire chiaramente «la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (n. 12). E ancora possiamo leggere: «Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato a essere responsabile di una comunità e ad essere “uomo di comunione”» (n. 43). 
La relazionalità uomo-donna è un atto voluto da Dio stesso al momento della creazione, è intrinseca in ogni persona: ignorare questo aspetto fondamentale significa portarsi fuori dalla dinamica di quell’amore trinitario precedentemente citato — e di cui sentiamo parlare spesso nelle omelie — essenza prima nella vita dei cristiani e della stessa Chiesa. 
Altro tema da affrontare. Perché le donne non hanno libero accesso all’insegnamento nei seminari? Negli Stati Uniti fortunatamente si riscontra la presenza di almeno una donna o due, come affermato nel 2013 da suor Sara Butler, professore emerito di teologia sistematica al Mundelein Seminary in Illinois. Ma quante sono le donne che possono farlo, specialmente in Italia? A questo punto la conclusione sorge spontanea: la teologia è una cosa per soli uomini e sacerdoti? Quando Papa Francesco afferma che è necessaria una «profonda teologia della donna» e dice che le donne debbono fare riflessione teologica, sostiene un’utopia? Ci pare che il Papa abbia compreso molto bene l’entità del ruolo della donna nella Chiesa, come nella società, ma si è anche reso conto di quanto sia difficile e complicato scardinare la diffidenza, una vera e propria paura — direi ancestrale — nei confronti dell’altro sesso, del “femminile”, considerato una pericolosa minaccia all’integrità sessuale e celibataria dell’uomo consacrato. 
Il risultato di questa obsoleta scuola di pensiero è una certa misoginia, più o meno latente, la quale è in sostanza un sentimento di avversione, se non di odio, verso le donne, inquadrate più che altro nella funzione di donne di servizio, cioè soggetti che compiono quotidianamente, e gratuitamente, le varie incombenze domestiche nella parrocchia o nelle residenze dei religiosi. E chiariamo: sono persone che assumono consapevolmente anche il disagio psicologico di non ricevere neppure un semplice grazie, perché il loro servizio è per la Chiesa, non per il singolo, anche se è ministro di Cristo. Scriveva Gregorio Magno nella Regola pastorale: «Ci sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza». La testimonianza è il frutto evidente dell’attaccamento del cuore a Dio.
Ma quale è il livello relazionale dei seminaristi con le donne? Se i risultati sono quelli che solitamente traspaiono alla vista di tutti una volta divenuti sacerdoti, non è forse il caso di ripensare alcuni aspetti della loro formazione? Se il sacerdote deve essere “persona di comunione”, crediamo si stia rischiando molto proprio in questo senso se si esclude la presenza femminile nei luoghi di formazione, comprese le facoltà teologiche. Se vogliamo sacerdoti affettivamente maturi, si deve necessariamente dar loro l’opportunità di esercitare la propria libertà, cioè la capacità di scegliere ogni giorno Cristo di fronte alle sollecitazioni mondane e le possibili provocazioni — logiche e legittime nelle relazioni uomo-donna — create da una presenza femminile che non si può, evidentemente, evitare. Ci pare pure di capire, seguendo quanto si è detto negli ultimi anni, che si punti molto alla maturità affettiva anche rispetto a eventuali manifestazioni di omosessualità. 
Ma il punto è un altro. Usciti dal seminario — dove questi giovani si preparano a diventare pastori vivendo “l’ideale” della vita sacerdotale — una volta catapultati nel mondo concreto, abitato da uomini e da donne in carne e ossa, cosa accadrà? Sapranno adeguatamente rispondere alle esigenze delle persone che sono chiamati a guidare nel loro cammino di fede nella Chiesa? La comunità parrocchiale si costruisce intorno al pastore, un sacerdote che deve essere in grado di gestire i momenti di disanimo, di crisi personale, senza coinvolgere emotivamente i fedeli. Infatti, è proprio in questi casi che scoppiano quei problemi di carattere affettivo che non sono stati affrontati in seminario. Allora diventa pericoloso aprire relazioni con le donne, perché ci si può illudere di trovare in una parrocchiana devota, la madre o la sorella, l’amica e confidente, fraintendendo i rapporti. Ciò che diciamo vale per tutti i consacrati, donne e uomini. 
Ecco, allora sarebbe bello che i futuri sacerdoti avessero l’opportunità di scoprire senza timore e con sano desiderio la ricchezza dell’universo femminile, considerandolo una preziosa risorsa, necessaria per giungere alla completezza della loro vocazione. Poiché maschio e femmina siamo stati creati, non per la divisione, ma per la complementarità.

L'Osservatore Romano