lunedì 31 ottobre 2011

Invita i poveri





Signore, fa di me
uno strumento della Tua Pace:
Dove è odio, fa ch'io porti l'Amore,
Dove è offesa, ch'io porti il Perdono,
Dove è discordia, ch'io porti l'Unione,
Dove è dubbio, ch'io porti la Fede,
Dove è errore, ch'io porti la Verità,
Dove è disperazione, ch'io porti la Speranza,
Dove è tristezza, ch'io porti la Gioia,
Dove sono le tenebre, ch'io porti la Luce.
Maestro, fa che io non cerchi tanto
Ad esser consolato, quanto a consolare;
Ad essere compreso, quanto a comprendere;
Ad essere amato, quanto ad amare.
Poiché, così è:
Dando, che si riceve;
Perdonando, che si è perdonati;
Morendo, che si risuscita a Vita Eterna.

San Francesco



Dal Vangelo secondo Luca 14,12-14.

In quel tempo, Gesù disse al capo dei farisei che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio.
Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.

IL COMMENTO

Libertà. Le parole del Signore oggi ci parlano della libertà. Quella vera, dei figli di Dio. La libertà di coloro che hanno la loro patria nei Cieli, e vivono ogni rapporto da cittadini del Cielo. Anche il più intimo: amici, parenti, fratelli, ricchi vicini. I figli di Dio non conoscono più nessuno secondo la carne. Liberi da tutti e da tutto sono tutto a tutti. Liberati dal sangue di Cristo vivono donati ad ogni uomo. Gratuitamente. Ogni istante è Grazia e non v'è più nessuna esigenza, anche i giudizi sono estirpati. Nulla pretende colui che riconosce che senza il Signore non può far nulla. Che nessun altro, fosse anche la madre, o il padre o la moglie, o il marito, o i figli, o il fidanzato, o l'amico del cuore, nessuno può far nulla se il Signore non ispira il volere e l'operare. Tutto ciò che riceviamo è un dono di Dio attraverso il prossimo che ci è vicino. Il banchetto è segno della comunione, di ogni rapporto accolto nella propria intimità. Il Vangelo di oggi ci illumina sulle catene che ci legano alle persone, spesso invisibili, ma che si palesano ad ogni mancato contraccambio. Non v'è gratuità. Anche nelle cose che sembrano fatte con più amore. Il broncio che s'affaccia dopo una delusione ci svela la verità del nostro cuore che aspetta il contraccambio. Viviamo ogni relazione dentro l'attesa di essere invitati a nostra volta, specialmente dalle persone più vicine: diluiamo i no che sarebbe doveroso dire in interminabili dialoghi amichevoli con i figli; permettiamo loro di vestirsi come lolite, orari da vigilantes notturni, discoteche, amicizie, gadget: tutti inviti per essere invitati, per non perdere l'affetto, per non dover sopportare la ribellione, il rifiuto, giorni di musi lunghi. Invitiamo alla mensa dei compromessi amici, parenti, fratelli e ricchi, quelli che ci possono assicurare vantaggi e prestigio.

I poveri, i ciechi, gli zoppi, gli storpi invece sono i nostri vicini, specchio fedele della nostra stessa realtà. Siamo tutti mendicanti, poveri, incapaci di tutto. Abbiamo bisogno del Signore, respiro dopo respiro. Senza di Lui è tutto vapore, pensieri, parole, azioni che sgorgano dalla carne, e nei suoi limiti angusti restano confinati. Non guardano al Cielo perchè dal Cielo non provengono. E quello che è carne e sangue non può ereditare il Regno. Le relazioni schiave della carne rimangono carne che si corrompe, quello che viene dallo Spirito è Spirito, ne senti la voce, ne vedi le opere che profumano di vita eterna, ma, come il vento, non si possono accaparrare, bloccare, comprare. I figli di Dio sono rinati nello Spirito. Come il loro Signore risorto non possono essere trattenuti, comprati, venduti; vanno diritti verso il Cielo. La vita dei figli di Dio è un banchetto di poveri imbandito per i poveri. E' la vera ed unica beatitudine di chi è colmo dell'amore di Dio, che vive ed esiste e pensa, e parla, e fa tutto in Cristo, con Lui e per Lui. Per questo è libero, di dire sì, come di dire no, il resto viene dal maligno e dalla sua schiavitù. Il figlio di Dio è un povero ricco di Cristo, e ama dell'amore stesso di Lui. Gratuitamente ha ricevuto, gratuitamente riceve. I figli, i parenti, gli amici, ed ogni uomo son poveri e mendicanti come Lui ed entrano nel banchetto della sua intimità per mangiare lo stesso pane, il Corpo benedetto e celeste del loro unico Signore. Non possono ricambiare se non lo stesso amore che ricevono dallo stesso alimento. Null'altro si può esigere, sperare, sognare, perchè con nient'altro possono ricambiare. Tutto è Grazia. Il figlio di Dio vive ogni rapporto così, da figlio dello stesso Padre. A questo siamo chiamati, oggi, ed ogni giorno, ad essere beati in una libertà che la carne non conosce.


San Vincenzo de Paoli (1581-1660), sacerdote, fondatore di comunità religiose
Estratto, sulla carità, del rapporto dell'11/07/1657 sul volontariato vincenziano.

«Invita poveri»

È onorare nostro Signore cercare di entrare nei suoi sentimenti, stimarli, fare quel che ha fatto lui ed eseguire ciò che lui ha ordinato. Ora, l'affetto più grande del suo cuore è stato la cura dei poveri, per guarirli, consolarli, soccorrerli e raccomandarli al soccorso altrui. Egli stesso ha voluto nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, mettersi al posto dei poveri, fino a dire che il bene e il male che noi faremo ad essi, lo riterrà fatto alla sua persona divina (Cfr. Mt 25,40). Per i poveri non poteva testimoniare un amore più tenero! E quale amore, vi prego, possiamo avere per lui, se non amiamo ciò che Egli ha amato? Servire i poveri è amare Cristo nel modo giusto, è imitarlo nella Sua umanità e generosità...

Ora, se questo bonario Salvatore è onorato di questa imitazione, quanto più dobbiamo ritenerci onorati di essere, in questo, simili a lui! Non vi sembra che ci sia qui un motivo molto potente per rinnovare in voi il vostro primo fervore? Per me, penso che dobbiamo offrirci oggi a sua divina Maestà perché Le piaccia animarci della sua carità, in modo che si possa dire ormai di voi che è "la carità di Gesù Cristo che vi sospinge" (2 Cor 5,14).

sabato 29 ottobre 2011

Al di là dello Specchio 3



Guarigione

Nei giorni dopo l'intervento chirurgico, cominciai a scoprire che cosa volesse dire non esser morto e poter guarire presto. Mentre Sue e gli altri visitatori dimostravano grande gioia che stessi abbastanza bene e rin~ graziavano il Signore d'avermi scampato dal pericolo, dovetti affrontare il semplice fatto che ritornavo in un mondo da cui mi ero già congedato. Ero contento di essere ancora in vita, ma a un livello più profondo mi sentivo confuso e mi domandavo come mai Gesù non mi avesse richiamato a casa. Sì, ero felice di essere di nuovo con gli amici, eppure non potevo fare a meno di chiedermi perché fosse meglio che io tornassi a questa 'valle di lacrime'. Ringraziavo di cuore il Signore che mi lasciava vivere ancora un poco con la mia famiglia e la mia comunità, ma sapevo benissimo che continuare a vivere in questo mondo voleva dire affrontare altre lotte, dolori, angosce e solitudine. Nel mio intimo non mi era facile accettare le molte espressioni di gioia per la mia guarigione. Naturalmente, non potevo dire: «Sarebbe stato meglio per voi se io fossi morto, in modo che la mia scomparsa vi avesse avvicinato di più a Dio», eppure era proprio questo che dicevo in cuor mio.

C'era soprattutto un interrogativo che mi ossessionava: «Perché sono ancora in vita; perché non sono stato trovato pronto a entrare nella casa di Dio; perché Dio mi ha chiesto di tornare in un posto dove l'amore è così ambiguo, dove è così difficile vivere in pace e dove le poche gioie si pagano con tanti dolori?». Era una domanda che mi si presentava in molti modi, e dovetti persuadermi che non c'erano risposte belle e fatte da dare una volta per sempre. Negli anni di vita che mi stanno davanti, tale domanda sarà sempre con me e non potrò mai dimenticarmene completamente. Ed è anche una domanda che mi richiama all'essenza della mia vocazione: vivere col desiderio ardente di essere con Dio e non stancarmi di proclamare il suo amore, nell' attesa di goderlo nella sua pienezza.

Il trovar mi a faccia a faccia con la morte mi ha aiutato a comprendere meglio la tensione inerente a questa vocazione. Evidentemente, è una tensione non da risolvere ma da vivere con una profondità che la renda feconda. Una cosa che ho imparato riguardo alla morte è che sono chiamato a morire per gli altri. È fin troppo evidente che il modo in cui muoio influisce su molte persone. Se muoio pieno d'ira e amarezza, mi lascio dietro la famiglia e gli amici con sentimenti di confusione, colpevolezza, vergogna o debolezza. Quando sentii che mi avvicinavo alla morte, mi resi conto all'improvviso della grande influenza che potevo esercitare sul cuore di coloro che stavo per lasciare. Se avessi potuto dire in tutta verità che ringraziavo Dio della vita che mi aveva data, che desideravo perdonare ed essere perdonato, fiducioso che quelli che mi amavano avrebbero continuato a vivere in gioia e pace, e sicuro che quel Gesù che mi chiamava avrebbe guidato tutti coloro che in qualche modo appartenevano alla mia vita: se avessi potuto fare tutto questo, avrei rivelato nell' ora della morte una vera libertà spirituale, maggiore di quella che avevo potuto rivelare in tutti gli anni della mia vita. Mi resi conto a un livello quanto mai profondo che il morire è 1'atto più importante del vivere. Implica infatti una scelta: incatenare altri con la colpa, oppure liberarli con la gratitudine. Si tratta di una scelta tra una morte che dà vita e una morte che uccide. Conosco molte persone che vivono con il sentimento profondo di non aver fatto per quelli che sono morti ciò che volevano fare, né sanno come liberarsi da un tale persistente senso di colpa. Chi muore ha la grande possibilità di liberare coloro che lascia in questo mondo. Nelle ore in cui credevo di morire, i miei sentimenti più forti si concentravano sulla mia responsabilità verso quelli che avrebbero pianto la mia morte. Avrebbero pianto con gioia o con colpa, con gratitudine o rimorso? Si sarebbero sentiti abbandonati o liberati? Alcuni mi avevano recato gravi offese, altri erano stati offesi gravemente da me. La mia vita interiore era stata forgiata dalla loro. Provavo una vera tentazione di restare attaccato a loro nell'ira o nella colpa. Ma sapevo anche che potevo scegliere di separarmene e di arrendermi completamente alla nuova vita in Cristo.

Il mio vivo desiderio di essere unito a Dio per mezzo di Gesù non nasceva da disprezzo per le relazioni umane ma da un' acuta consapevolezza della verità che il morire in Cristo può essere davvero il dono più grande che facevo agli altri. È una serie di piccole morti in cui possiamo liberarci da molte forme di legami, cosicché invece di aver bisogno degli altri viviamo per loro. Le molte fasi di transizione dall'infanzia all' adolescenza, dall' adolescenza all' età adulta e dall' età adulta alla vecchiaia ci offrono sempre nuove occasioni di scegliere per noi o di scegliere per gli altri. Durante queste fasi siamo sempre alle prese con interrogativi come: Desidero il potere o il servizio; voglio farmi vedere o restare nascosto; miro a una carriera coronata da successo o cerco invece di seguire la mia vocazione? Ci troviamo così di fronte a scelte difficili. In questo senso, possiamo dire che la vita è un lungo morire a noi stessi, per vivere nella gioia di Dio e dedicarci completamente agli altri.

Riflettendo su tutto questo alla luce del mio incontro cori la morte, mi rendo conto che è un modo di pensare ben poco familiare non solo per le persone con cui vivo e lavoro, ma anche per me stesso. È solo di fronte alla morte che ho visto chiaramente - e solo per qualche istante - il vero senso della vita. Da un punto di vista intellettuale avevo già capito prima il concetto di morire a me stesso, ma fu solo di fronte alla morte che mi parve di paterne afferrare tutto il significato. Quando vidi che Gesù m'invitava a distaccarmi da tutto, nella piena fiducia che così facendo la mia vita sarebbe stata feconda per gli altri, compresi pure immediatamente quella che era sempre stata la mia vocazione più profonda.

Il mio incontro con la morte mi rivelava qualcosa di nuovo sul significato della mia morte fisica e sul morire a me stesso, che deve durare tutta la vita e che deve precedere la morte del corpo. Adesso devo ricominciare a vivere e a lottare; e questo mi sembra voglia dire che devo proclamare l'amore di Dio in un modo nuovo. Finora ho pensato e parlato guardando dal tempo verso l'eternità, da questa realtà effimera verso una realtà che non vie n meno, dall' esperienza dell' amore umano verso l'amore di Dio. Ma dopo aver toccato 'l'altra sponda', mi sembra che devo essere un nuovo testimone: un testimone che si rivolge al mondo delle ambiguità dal luogo dell'amore incondizionato. E un cambiamento così radicale che potrebbe riuscirmi molto difficile, perfino impossibile, trovare parole che possano giungere al cuore dei miei fratelli. Ho però la sensazione che ci devono essere delle parole adatte a risvegliare le brame più profonde del cuore umano.

Mi risuonano all'orecchio le parole di Gesù al Padre: «I miei discepoli non sono del mondo, come io non sono del mondo... Santificali nella verità; la tua parola è verità» (Gv 17,16-18). La mia esperienza dell'amore di Dio nelle ore in cui ho sfiorato la morte mi ha fatto capire che non appartengo al mondo - alle potenze oscure della nostra società. È una verità che mi è penetrata più profondamente in cuore e mi ha aiutato ad accettare più pienamente la mia identità. Sono figlio di Dio, fratello di Gesù. Sono al sicuro nell'intimità dell' amore di Dio. Quando Gesù fu battezzato nel Giordano, si udì una voce dal cielo che diceva: «Questo è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17). Erano parole che rivelavano la vera identità di Gesù: Figlio prediletto. Gesù udì veramente quella voce, e tutti i suoi pensieri, parole e azioni provennero dalla sua profonda conoscenza di essere infinitamente amato da Dio. Fonte di tutta la vita di Gesù fu proprio quel luogo interiore di amore. Rifiuti, risentimenti, gelosie e odi degli uomini lo ferivano profondamente, ma egli restò sempre ancorato nell'amore del Padre. Al termine della sua vita disse ai discepoli: «Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv16,32).

Ora so che le parole dette a Gesù mentre veniva battezzato sono dette anche a me e a tutti quelli che sono fratelli e sorelle di Gesù. La mia tendenza a rifiutare e deprezzare me stesso mi rende difficile ascoltare bene queste parole e farle scendere in fondo al cuore. Ma una volta che io abbia accolto pienamente queste parole, non mi sentirò più costretto a dimostrare al mondo le mie capacità e potrò vivere nel mondo senza appartenere al mondo. Una volta che io abbia accettato la verità che sono un figlio prediletto di Dio, amato senza condizione alcuna, potrò essere mandato nel mondo a parlare e fare come Gesù.
Il grande compito spirituale che mi sta di fronte è di essere talmente sicuro che appartengo a Dio da poter essere libero nel mondo - libero di parlare anche quando le mie parole non sono accolte; libero di agire anche quando le mie azioni sono criticate, derise o considerate inutili; libero anche di accettare l'amore degli altri e di ringraziare Dio per tutti i segni della sua presenza nel mondo. Credo che sarò veramente capace di amare il mondo quando sarò pienamente convinto di essere amato ben al di là dei confini del mondo.

Quando mi risvegliai dopo l'operazione e mi accorsi che non ero nella casa di Dio ma ancora vivo in questo mondo, ebbi la percezione immediata di essere mandato da Dio a far conoscere l'amore infinito del Padre a coloro che hanno fame e sete di amore, ma che spesso lo cercano in un mondo in cui non lo si può trovare.
Ora comprendo che il 'far conoscere' non riguarda in primo luogo parole, argomenti, linguaggio e metodi. Riguarda invece un modo nuovo di essere nella verità, che cerca non tanto di persuadere quanto piuttosto di dimostrare. È così che fanno i testimoni. Sono stato rinviato in terra, ma devo restare dall'altra parte. Devo vivere l'eternità mentre mi occupo dei problemi umani nel tempo. Devo appartenere a Dio mentre mi dedico al prossimo.

Avendo toccato l'eternità, mi sembra impossibile tendere ad essa come se non fosse già qui. Gesù parlò al mondo, restando però sempre in intima comunione col Padre e unendo in tal modo la terra al cielo. A Nicodemo egli disse: «Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto» (Gv3,11). Posso anch'io diventare come Gesù e testimoniare ciò che ho visto? Certamente! Posso vivere in Dio e parlare alla realtà umana. Posso sentirmi a casa mia in ciò che è eterno e vedere il vero significato di ciò che passa. Posso abitare nella casa di Dio e sentirmi a mio agio nelle case degli uomini. Nutrendomi del pane di vita posso lavorare per la giustizia e per chi muore di fame per mancanza di cibo. Posso pregustare la pace che non è di questo mondo e impegnarmi nelle lotte umane per consolidare la giustizia e la pace qui in terra. Posso nutrire fiducia di avere in certo senso già raggiunto il cielo, e dal cielo posso partecipare alla continua ricerca di Dio che mi vede impegnato insieme ai miei fratelli. Posso fare in modo che 1'esperienza di appartenere a Dio sia il luogo dal quale posso vivere il dolore umano di chi è senza tetto e senza affetta.

C'è tuttavia il pericolo di falsa sicurezza, d'immaginaria chiarezza e perfino di assolutismo o dogmatismo: la vecchia tentazione di dominare. Un discorso fatto nell' eternità e rivolto al tempo può facilmente sembrare oppressivo, in quanto presenta risposte prima ancora che si facciano domande. Ma tutta la vita pubblica di Gesù proveniva 'dall'alto'; il suo apostolato nasceva dalla sua relazione col Padre in cielo. Tutte le domande che Gesù ha fatto, tutte le risposte che ha dato, tutte le contestazioni che ha suscitato e le consolazioni che ha offerto erano radicate nella sua conoscenza dell' amore incondizionato del Padre. Il suo apostolato non era oppressivo, poiché proveniva dalla sua profonda esperienza di essere amato in modo incondizionato e non era affatto motivato da un bisogno personale di affermazione e accettazione. Gesù era assolutamente libero appunto perché non apparteneva al mondo, ma esclusivamente al Padre. L'apostolato di Gesù è modello di ogni apostolato. Perciò, un discorso che provenga 'dall'alto' non può essere autoritario, subdolo od oppressivo. Dev'essere però ancorato in un amore che sia non solo libero dalle costrizioni e ossessioni che contaminano le relazioni umane, ma libero anche di intervenire nelle sofferenze umane, in spirito di compassione e perdono.

Quanto a me, si tratta di sapere se il mio incontro con la morte mi abbia liberato dai legami del mondo in misura tale che mi permetta di essere fedele alla mia vocazione, come la vedo adesso che sono stato 'mandato' dall' alto. Tutto questo implica evidentemente un invito alla preghiera, alla contemplazione, al silenzio, alla solitudine e al distacco interiore. Devo continuare a scegliere di 'non appartenere' al mondo per appartenere a Dio, di non provenire dal basso per provenire dall' alto. Il gusto dell' amore incondizionato di Dio scompare subito quando ricompaiono e si fanno sentire le potenze della vita di ogni giorno. La chiarezza del significato della vita percepita su un letto di ospedale svanisce quando ritornano i molti obblighi quotidiani e ricominciano a dominare la vita. Ci vuole una disciplina enorme per continuare ad essere discepolo di Gesù, per restare ancorato nel suo amore e per vivere soprattutto 'dall'alto'. Ma non posso negare la verità dell' esperienza dell' ospedale, anche se mi sembrò soltanto un raggio di sole in un cielo ricoperto di nubi. Le molte nubi della vita non possono più ingannarmi fino al punto di farmi credere che non è il sole che dà luce e calore. Gesù dice: «lo sono la via, la verità e la vita». Ormai non ho più bisogno di ricordare o meditare queste parole, perché hanno toccato il centro del mio essere e sono diventate tangibile realtà. Nella prospettiva di questa realtà, persone, cose e avvenimenti sono reali a motivo della loro connessione con l'amore e la vita di Dio, che mi si sono rivelati in Gesù. Senza questa connessione divina, persone, cose e avvenimenti perdono ben presto la loro qualità eterna e diventano cose e fantasie evanescenti. Appena non sono più in contatto col Dio che è Verità, Vita e Luce, sono di nuovo irretito nelle infinite 'realtà' di ogni giorno che mi si presentano come se avessero un valore supremo. Senza uno sforzo molto deciso e personale di tenere Dio al centro del mio cuore, non ci vorrà molto tempo prima che l'esperienza dell' ospedale si riduca a un pio ricordo.

Il modo in cui i miei amici reagirono alla mia guarigione mi fece riflettere sul modo in cui la vita e la morte sono percepite nella nostra società. Tutti quanti si congratularono con me perché mi ero ristabilito in salute e ringraziarono Dio che stessi così bene. Da parte mia ero profondamente grato per l'attenzione e 1'affetto che mi dimostravano, eppure l'incontro con Dio nelle ore in cui sfiorai la morte m'induceva a chiedermi se lo stare 'così bene' fosse proprio la cosa migliore per me. Non sarebbe stato meglio se Dio mi avesse completamente liberato da questo mondo ambiguo e ricondotto a casa, in piena comunione con lui? Non sarebbe stato meglio lasciare questo mondo mortale e raggiungere la definitiva salvezza nella realtà incorruttibile di Dio? Non sarebbe stato meglio arrivare alla mèta anziché essere ancora in viaggio? Eppure tutti quelli che mi mandarono lettere o fiori o che mi telefonarono erano di parere contrario. Il che non mi sorprese, perché anch'io avrei reagito alla malattia di un amico nello stesso modo. E tuttavia un po' sorpreso lo fui al vedere che nemmeno uno prospettò l'idea che il mio ritorno alla vita di prima non fosse necessariamente la migliore conclusione possibile del mio incidente. Non ci fu nessuno che mi scrivesse: «Dev'essere stata per te una delusione il vedere che non sei stato trovato pronto a essere riunito completamente col tuo Signore al quale hai dato la tua vita; però, come tuo compagno di viaggio, ti accolgo volentieri in mezzo a noi a lottare in questa vita». È chiaro che gli innumerevoli testi liturgici che parlano della nostra brama di vivere con Dio nella gioia e nella pace eterna non esprimono il nostro vero desiderio. I miei amici sono convinti che la vita in questa terra, per quanto dolorosa e infelice, è preferibile al compimento delle promesse di Dio, al di là dei limiti della nostra morte. Non dico affatto questo con cinismo. So fin troppo bene che non sono diverso dai miei amici. Ma avendo dato un' occhiata furtiva al di là dello specchio della vita, mi chiedo adesso se la nostra brama di restare attaccati a questa vita non indichi che abbiamo perso il contatto con uno degli aspetti più essenziali dei nostro credo: la fede nella vita eterna.

Tutto questo però non mi aiuta a scoprire che cosa significhi veramente ritornare a vivere. Mi chiedo con apprensione sempre maggiore se Dio non mi abbia regalato alcuni anni di vita proprio perché io li viva come se fossi già sull' altra sponda. 'Teologia' vuoI dire guardare il mondo dalla prospettiva di Dio. Forse mi viene data la possibilità di vivere in modo più teologico, e di aiutare gli altri a fare lo stesso senza dover essere colpiti dal retrovisore di un furgoncino, come sono stato colpito io.

A mano a mano che mi rimetto pienamente in forze, scopro che il dilemma di Paolo - se onorare Cristo vivendo o morendo è diventato il mio dilemma. La tensione creata da questo dilemma sta ormai alla base della mia vita. Ecco le parole di Paolo:

Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più che necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere di aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi (Fill,21-26).

E adesso che ritorno alla vita normale, prego il Signore che queste parole di Paolo mi siano sempre più di guida nella vita. Mi san reso conto che la mia morte avrebbe potuto essere un dono per gli altri, ma ora so pure che la vita che mi resta da vivere è anch' essa un dono, perché morte e vita trovano il loro vero significato nella gloria di Gesù Cristo. Perciò, nulla deve angustiarmi. Il Cristo risorto è Signore dei vivi ed è Signore dei morti. A lui ogni gloria, onore e lode! Forse il retrovisore di un furgoncino mi ha toccato proprio per ricordarmelo.

Epilogo

È già passato qualche mese da quando ho scritto queste pagine sulla mia esperienza con la morte. Rileggendole adesso che sono immerso di nuovo nei problemi della vita di ogni giorno, devo chiedermi: «Sarò capace di praticare ciò che ho imparato?».

Qualche tempo fa un amico mi ha detto: «Quando eri malato eri raccolto e calmo, e le molte persone che venivano a trovarti sentivano che emanavi una grande pace; ma adesso che sei guarito e hai ripreso le tue numerose attività, sei quasi diventato inquieto e ansioso come prima». Sono parole che devo meditare con grande attenzione. Ciò che ho intravisto «al di là dello specchio», pur essendo reale e potente, riesce ancora per caso a tener mi concentrato in Dio quando tornano a farsi sentire le esigenze della nostra convulsa società? Sono in grado di restar fedele alla verità della mia esperienza di ospedale? A prima vista, sembrerebbe di no. Come si fa a continuare a credere al potere di Dio che unisce e guarisce, quando altro non vedo che rottura e separazione?

Il mondo in cui vivo oggi non sembra più un suolo fertile in cui il seme della grazia possa crescere vigoroso e dare frutti. Guardandomi intorno qui dove abito e vedendo tanti bulldozer che stanno rovinando questa splendida campagna per costruirci su delle case l'una accanto all' altra come tante macchine in un parcheggio sono costretto a concludere che è giunta l'ora di dire addio alla solitudine, al silenzio e alla preghiera: cose tutte che sono fuggite via insieme ai cervi che una volta abitavano qui. Concorrenza, ambizione, rivalità e un vivo desiderio di prestigio e potere sembrano costituire le vere finalità della vita. Il mio letto nell'unità di cura intensiva e quello al quinto piano dello 'York Central Hospital' sembravano luoghi sicuri e santi, se paragonati al caos dello 'sviluppo' urbano. Ma poi c'è la mia comunità di persone handicappate e dei loro assistenti. Che sarà di loro? Sono convinto che riusciranno a rendere possibile anche l'impossibile, perché in questo ambiente assetato di potere, la nostra comunità è così debole e vulnerabile, che Dio continua a dimostrarci lo stesso amore dimostrato a me quando mi trovavo a faccia a faccia con la morte.

Tra le esperienze più belle e confortanti delle mie ultime settimane all'ospedale ci furono le visite di mio padre e di mia sorella, degli amici e dei membri della mia comunità. Specialmente questi ultimi disponevano di tutto il tempo che volevano. Non avevano nulla di più importante da fare. Se ne stavano seduti tranquilli vicino al mio letto, ed erano soprattutto i più handicappati che partecipavano più intensamente alle mie sofferenze. Adam, Tracy e Hsi-Fu vennero con le loro sedie a rotelle. Non dicevano niente: se ne stavano là a ricordarmi che mi amavano come io li amavo. Sembrava volessero dirmi che avevo sfiorato davvero la morte, e col loro silenzio mi promettevano di aiutarmi a restar fedele a quell'esperienza. Quando Hsi-Fu venne a trovarmi si mise a saltare su e giù nella sedia a rotelle, e quando lo abbracciai, non finiva più di baciarmi. La mattina dell'incidente volevo andare da lui, ma alla fine è stato lui a venire da me, come per dirmi: «Non preoccuparti: il bagno me l'hanno fatto lo stesso. Se mi starai vicino, non dimenticherai ciò che hai imparato nel tuo letto d'ospedale».

Ho già perduto gran parte della pace e libertà che godevo all' ospedale. Me ne dispiace e me ne rattristo. Sono qui di nuovo in mezzo a un continuo viavai di gente, sommerso da progetti e tirato da una parte e dall'altra. Non ho mai il tempo di fare tutto quello che vorrei per sentirmi soddisfatto. Non sono più sereno e raccolto come durante l'ultima malattia. Vorrei esserlo. Ne ho un vivo desiderio. È un desiderio che condivido con molta gente sempre indaffarata. Hsi-Fu e tutte le persone deboli e malate del mondo, proprio perché non hanno nulla da dimostrare, nulla da compiere, sono lì a ricordarmi continuamente la morte che ho conosciuto come luogo di suprema verità. Essi non devono ottenere nessun successo, non devono salvaguardare nessuna carriera né devono difendere l'onore di nessun nome. Sono sempre «sotto cura intensiva», sempre dipendenti, sempre a due passi dalla morte. Possono dunque mettermi in contatto e tenermi sempre vicino a quel luogo in me dove sono come loro: debole, malato e totalmente dipendente da altri. È il luogo della vera povertà dove Dio mi proclama beato e mi dice: «Non temere. Tu sei il mio figlio diletto in cui mi sono compiaciuto». Sento risuonare continuamente all' orecchio le parole di Gesù:

«In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). E in realtà, il mio incidente mi ha reso - almeno per un po' di tempo - come un bambino e mi ha fatto pregustare qualcosa del regno dei cieli. Ma purtroppo tutte le tentazioni sconosciute ai bambini mi hanno già assalito e non mi sorprende che alcuni dei miei amici pensino che potevo dare molto di più quando ero malato che non adesso che sono guarito. In ogni modo, non posso certo starmene ad aspettare che un altro incidente mi ricordi il regno dei cieli. Devo semplicemente aprire gli occhi al mondo in cui sono stato posto e scorgervi le persone che possono sempre aiutarmi a diventare bambino. So di certo che il mio incidente aveva il solo scopo di ricordarmi chi sono e che cosa devo diventare.

Al di là dello Specchio 2



L'ospedale

Arrivati al pronto soccorso dell' ospedale, fummo subito circondati da infermieri e dottori. C'era anche una poliziotta e dovemmo rassegnarci alle solite formalità burocratiche. Ci interrogarono, poi mi diedero formulari da riempire per il ricovero all' ospedale e mi fecero i raggi x. Tutti erano molto amichevoli, efficienti, competenti e schietti. Il dottore che esaminò le lastre dei raggi x mi disse: «Ha cinque costole rotte. La tratterremo per un giorno e poi la lasceremo tornare a casa». Ed ecco apparire all'improvviso un volto ben noto. Era la Dr. Prasad, mio medico di fiducia. Fui sorpreso che fosse arrivata così presto e provai un grande sollievo, perché ero sicuro di essere in buone mani. Subito dopo, però, ebbi capogiri e conati di vomito. Notai che i medici cominciavano a preoccuparsi e non ci volle molto a capire che la mia situazione era assai più critica di quanto credessi. La Dr. Prasad mi disse: «C'è un'emoraggia interna. Dobbiamo tenerla sotto stretto controllo».
Dopo molti esami, analisi e consulti, fui trasferito al reparto di cura intensiva. Intanto, Jon se n'era andato. Sue, che non aveva potuto venire in macchina a motivo della strada ghiacciata, aveva telefonato a Robin, uno dei membri della nostra comunità, per dirgli di venirmi a trovare. Robin venne e poi andò a informare gli altri di come stavano le cose. Ormai mi ero arreso alla realtà: ero molto grave ed ero perfino in pericolo di vita. Di fronte alla possibilità di morire, compresi che lo specchio del furgoncino che mi aveva colpito mi aveva costretto a guardare la mia situazione in modo radicalmente nuovo.
Eccetto per brevi e leggere malattie, non ero mai stato ricoverato all' ospedale. Adesso, invece, all'improvviso ero un vero paziente, totalmente dipendente da quanti mi stavano intorno. Senza il loro aiuto non potevo far nulla. I tubi inseriti nel mio corpo in vari posti per iniezioni intravenose, trasfusioni di sangue e controlli cardiaci erano prove evidenti che ero diventato veramente 'passivo'. Sapendo che sono molto impaziente per natura e che dovevo restare sotto controllo, mi aspettavo che la nuova situazione fosse una prova quanto mai dura da sopportare. E invece accadde tutto il contrario. Mi sentivo al sicuro nel mio letto di ospedale con le sponde rialzate dai due lati. Nonostante il dolore acuto che mi tormentava, provavo un senso di sicurezza del tutto nuovo e inaspettato. Medici e infermieri mi spiegavano tutto ciò che mi facevano, mi dicevano il nome di ogni medicina che mi iniettavano, mi avvertivano in anticipo del dolore che avrei provato ed esprimevano non solo la loro fiducia ma anche i loro dubbi sugli effetti della terapia seguita. Durante l'esame a ultrasuoni, !'infermiera mi fece vedere la mia milza sullo schermo, indicandomi dov' era ferita e dov' era più probabile che sanguinasse. Un' altra infermiera che mi diede il 'Demerol' per alleviare il dolore e facilitare il sonno disse: «Farà effetto per due ore, poi sentirà di nuovo un po' di dolore, e bisognerà aspettare un' ora prima che possa farIe un' altra iniezione». Quest' atmosfera amichevole di franchezza, sincerità e concretezza mi liberò da ogni ansietà e mi diede la forza di affrontare bene la situazione. Naturalmente, sapevo che ero in pericolo di vita, ma sapevo pure che mi trovavo in un
ottimo ospedale. La bontà con cui ero trattato e la competenza del personale ospedaliero mi tolsero ogni paura. Soprattutto, il semplice fatto che ero trattato con tanta dignità e rispetto da gente sconosciuta mi dava un grande senso di sicurezza. Ero totalmente dipendente, ma tutti mi trattavano come un adulto intelligente cui non bisognava nascondere nessun segreto. Infatti mi facevano sapere tutto ciò che volevo, e in questo modo mi sentivo completamente padrone del mio corpo. Non ebbi mai l'impressione che si prendessero decisioni a mio riguardo senza tener conto del mio parere. Tutto questo mi dava un profondo sentimento di non essere un estraneo, ma di essere quasi a casa mia. Non ricordo molti altri casi in cui sono stato trattato con tanta cura e sono stato preso così sul serio. Forse era proprio questo che mi dava un senso così profondo di sicurezza.

Sue venne a trovarmi appena poté e nei giorni seguenti fu soprattutto lei a tenermi in contatto col mondo esterno. Mi mise in relazione con la comunità 'Daybreak', mi parlò dell'interessamento dei miei amici, mi assicurò delle loro preghiere e mi tenne al corrente dei mille piccoli avvenimenti di ogni giorno. Le sue frequenti visite mi davano molto conforto. Un po' parlavamo, ma soprattutto pregavamo e passavamo molto tempo in silenzio.
Tutto questo lo dico per spiegare come mai non ero spaventato dal pensiero della morte. Sapevo che la mia milza continuava a sanguinare e che le mie condizioni erano sempre critiche, ma non ero preso da panico, angoscia, paura o ansietà. Mi meravigliavo io stesso di questa mia reazione. Tante volte in passato avevo sperimentato immense angosce e turbamenti interiori. Avevo provato sentimenti strazianti di rigetto e abbandono ed ero stato come paralizzato da timore e spavento, provocati spesso da un nonnulla. Avevo avuto paura della gente e delle forze sconosciute. Sapevo che ero una persona molto tesa, nervosa e ansiosa. Eppure adesso, di fronte alla morte, non provavo che pace, gioia e un senso di sicurezza che m'inondava il cuore.

L'intervento chirurgico

Un venerdì mattina, dopo molti esami e analisi, il Dr. Barnes mi disse: «La sua milza continua a sanguinare. Siamo costretti a toglierla». «Quando?», gli chiesi; ed egli rispose: «Appena sarà disponibile la sala operatoria». Poco dopo venne a trovarmi la Dr. Prasad. Sentivo di nuovo la minaccia della morte e dissi alla dottoressa: «Se la morte è vicina, me lo faccia sapere. Voglio prepararmi bene. Non ho paura di morire, ma non vorrei proprio lasciare questo mondo senza esserne cosciente». «Per quanto io ne sappia», mi rispose, «non c'è un vero pericolo di morte. Dobbiamo però fermare l'emoraggia e siamo quindi costretti a rimuovere la milza. In pochi mesi lei potrà ristabilirsi completamente e sarà in grado di condurre una vita del tutto normale anche senza la milza».
La Dr. Prasad fu molto schietta e precisa. Mi disse tutto quello che sapeva. Non riuscivo però a liberarmi dall'idea che potevo morire sotto i ferri e che dovevo prepararmi e preparare i miei amici a questa possibilità. Insomma, nel mio intimo avevo come un presentimento di essere davvero in pericolo di morte, e cercai quindi di penetrare in un luogo fino allora sconosciuto: nel regno della morte. Volevo conoscere questo luogo, esplorarlo e prepararmi a una nuova vita dopo questa vita. Era la prima volta che, in piena consapevolezza, entravo in un luogo che sembrava così spaventoso, la prima volta che aspettavo con impazienza quello che poteva essere un nuovo modo di esistere. Cercai di distaccarmi dal mondo che mi era familiare, dalla mia storia, dai miei amici e dai miei piani. Cercai di guardare avanti, non indietro. Continuavo a fissare quella porta del regno della morte che poteva aprirsi da un momento all' altro e mostrarmi cose mai viste né immaginate.
Ciò che sperimentavo allora era qualcosa che non avevo mai sperimentato prima: era puro e incondizionato amore. Meglio ancora, ciò che sperimentavo era una presenza intensamente personale: una presenza che mi liberava da tutte le mie paure e che mi diceva: «Vieni, non temere! Ti amo». Una presenza molto gentile e che non giudicava; una presenza che semplicemente mi chiedeva di avere una fiducia totale. Sono incerto se nominare Gesù, perché temo che il nome di Gesù non evochi pienamente la presenza divina che sperimentavo. Non ho visto una luce calda, un arcobaleno, o una porta aperta: ho sentito invece nel mio intimo una presenza al tempo stesso umana e divina che m'invitava ad avvicinarmi ancor di più e a liberarmi da ogni paura. La mia vita intera era stata un arduo tentativo di seguire Gesù come l'avevo conosciuto attraverso i miei genitori, amici e maestri. Avevo passato ore senza fine a studiare le Scritture, ad ascoltare conferenze e prediche e a leggere libri spirituali. Gesù mi era stato molto vicino ma anche molto lontano; amico ma anche estraneo; fonte di speranza ma anche di timore, colpa e vergogna. Ora però, sulla soglia della morte, scompariva ogni incertezza, ogni ambiguità. Il Signore della mia vita era là che mi diceva: «Vieni!».
Sapevo in modo quanto mai concreto che era là per me, ma che abbracciava pure l'universo. Sapevo che era quel Gesù che avevo pregato e predicato, ma sapevo anche che adesso non chiedeva preghiere né parole.

Tutto era in pace. Era un' atmosfera di Vita e Amore. Ma la Vita e 1'Amore s'incarnavano in una presenza reale. La morte perdeva il suo potere e scompariva nella Vita e nell'Amore che mi circondavano in modo quanto mai intimo, come se camminassi attraverso un mare le cui onde fossero state prosciugate. Una mano sicura mi teneva ben saldo mentre avanzavo verso 1'altra sponda. Gelosie, risentimenti e ire erano gentilmente rimossi, e potevo vedere che l'Amore e la Vita sono più grandi, più profondi e più forti che non qualsiasi forza di cui mi fossi preoccupato.
Un'emozione soprattutto era molto forte - quella di tornare a casa. Gesù mi apriva la sua casa e sembrava dirmi: «Ecco il tuo posto!». Diventavano così realtà le parole che aveva detto ai suoi discepoli: «Nella casa di mio Padre ci sono 'molti posti... Vado a prepararvi un posto» (Gv 14,2). Gesù risorto, che ora dimora col Padre, mi accoglieva a casa dopo il lungo viaggio della vita.

Si avverava così una delle mie più antiche e vive aspirazioni. Fin dal primo momento di consapevolezza ho avuto il desiderio di stare con Gesù. Ora sentivo in modo tangibile la sua presenza, come se tutta la mia vita si concentrasse in un istante e Gesù mi stringesse tra le sue braccia amorose. Quel tornare a casa era un vero ritorno, un ritorno al grembo di Dio. Il Dio che mi aveva plasmato in segreto e mi aveva modellato nelle profondità della terra, il Dio che mi aveva tessuto nel grembo di mia madre mi richiamava a sé dopo un lungo viaggio e mi accoglieva come uno che era diventato abbastanza bambino per essere amato come un bambino. Non sto parlando che di me stesso, e mi sembra proprio che avessi una visione quanto mai chiara di fronte alla morte.
Eppure, c'erano resistenze all'invito di tornare a casa. Ne parlai con Sue durante una delle sue visite. Ciò che soprattutto m'impediva di morire era il pensiero di avere ancora molte cose da fare e alcuni conflitti da risolvere con persone con cui vivevo o ero vissuto. Il dolore di aver negato il perdono ad altri e di non essere stato perdonato mi tormentava senza posa. Con 1'occhio della mente vedevo quelle persone che destavano in me sentimenti di rabbia, gelosia, e perfino di odio. Esercitavano su di me uno strano potere. Probabilmente non pensavano mai a me, eppure ogni volta che io pensavo a loro perdevo un po' della mia pace e gioia interiore. Le loro critiche, ripulse ed espressioni di antipatia personale mi sconvolgevano ancora nel profondo del cuore. Negando un vero perdono, davo loro un potere su di me che mi teneva incatenato alla mia vecchia, martoriata esistenza. Sapevo inoltre che c'erano persone adirate con me che non riuscivano a pensare a me o a parlare di me se non con grande ostilità. Forse nemmeno sapevo che cosa avevo fatto o detto a queste persone. Forse nemmeno sapevo chi fossero. Eppure non mi avevano mai perdonato e conservavano sempre rancore contro di me.

Di fronte alla morte, mi resi conto che a tenermi attaccato alla vita non era già l'amore ma la voglia di sfogare la rabbia che sentivo in cuore. L'amore, il vero amore per gli altri e quello degli altri per me, mi lasciava libero di morire. Era un amore che la morte non poteva distruggere. Anzi, la morte l'approfondiva e rafforzava. Le persone che più mi erano care e che più mi amavano avrebbero pianto alla mia morte, ma i vincoli che mi univano ad esse non sarebbero diventati che più forti e più profondi. Mi avrebbero ricordato come se fossi uno di loro, e il mio spirito le avrebbe accompagnate nel loro cammino.
No, la vera lotta non stava nel lasciare le persone che amavo. La vera lotta stava nel lasciare coloro che non avevo perdonato e che non mi avevano perdonato. Erano questi i sentimenti che mi tenevano legato al mio corpo e mi davano tanta tristezza. All'improvviso sentii un desiderio immenso di radunare intorno al mio letto tutti quelli che erano adirati con me, o con cui ero adirato io, per abbracciarli, chiedere perdono e offrire il mio perdono. Pensando a loro, mi resi conto che rappresentavano tante opinioni, giudizi e perfino condanne che mi avevano incatenato a questo mondo. Ebbi quasi l'impressione d'aver speso molte delle mie energie nel dimostrare a me e agli altri che avevo ragione di pensare che di alcuni non ci si poteva fidare, che altri cercavano di sfruttarmi o di mettermi da parte e che interi gruppi e categorie di persone non coglievano nel segno. Mi ostinavo così a illuder mi di essere destinato a valutare e giudicare il comportamento umano.

A mano a mano che sentivo la vita affievolirsi in me, provavo un grande desiderio di perdonare e di essere perdonato, di rinunciare a tutte le valutazioni e opinioni, di liberarmi dal peso dei giudizi. Un giorno dissi a Sue: « Vorresti farmi un piacere? Dì a tutti quelli che mi hanno offeso che li perdono di cuore, e chiedi loro di concedermi il loro perdono». Dicendo questo mi sembrava di togliermi via le cinture che avevo portato addosso quando ero cappellano col rango di capitano dell' esercito. Erano cinture che portavo intorno alla vita e attraverso il petto e le spalle. Mi avevano dato prestigio e potere. Mi avevano indotto a giudicare gli altri e a farli stare alloro posto. Ero stato poco tempo nell' esercito ma, nella mia mente, non mi ero mai tolto completamente quelle cinture. Ora però ero deciso a non voler morire con addosso quelle cinture che mi tenevano prigioniero. Dovevo morire senza potere, senza cinture, senza giudicare nessuno.

Ciò che mi preoccupava di più in quei momenti era il pensiero che la mia morte potesse provocare in qualcuno un senso di colpa o di vergogna o procurargli un disagio spirituale. Temevo che qualcuno dicesse: «Avrei voluto avere la possibilità di risolvere il nostro conflitto, di dire ciò che veramente sento in cuore, di esprimere le mie vere intenzioni.. . Avrei voluto, ma ormai è troppo tardi». So quanto costa vivere senza poter dire queste parole, senza poter fare questi gesti. Brancichiamo sempre più nel buio e siamo oppressi da un senso di colpa. Mi rendevo conto che la mia morte poteva essere una cosa buona o cattiva per gli altri, a seconda delle scelte che facevo credendola imminente. Dissi quindi a Sue: «Se muoio, di' a tutti che provo un immenso amore per quanti ho conosciuto, anche per quelli con cui ho avuto contrasti. Di' loro di non avere sentimenti di ansietà o colpevolezza ma di lasciarmi entrare nella casa del Padre, nella certezza che la mia comunione con loro diventerà sempre più profonda e più forte. Di' loro di far festa con me e di ringraziare Dio per ciò che mi ha dato».

Era tutto quello che potevo fare. Sue ascoltò le mie parole con cuore aperto, ed ero sicuro che avrebbe fatto ciò che le avevo chiesto. Mi guardò con grande bontà e mi disse di stare tranquillo. Da quel momento mi affidai tutto a Gesù e mi sentii come un pulcino al sicuro sotto le ali della madre. Era un senso di sicurezza che dipendeva in parte dalla consapevolezza che l'angoscia era finita: l'angoscia di non poter ricevere l'amore che volevo ricevere, e di non poter dare l'amore che tanto volevo dare; l'angoscia provocata da sentimenti di rifiuto e abbandono. Il sangue che perdevo in abbondanza divenne un simbolo dell'angoscia che mi aveva tormentato per tanti anni. Avrei perso anche l'angoscia e avrei finalmente conosciuto quell'amore che avevo bramato dal profondo del cuore. Gesù era là a offrirmi l'amore di suo Padre, l'amore che più di tutto volevo ricevere e che mi avrebbe permesso di dare tutto ciò che avevo. Anche Gesù aveva conosciuto l'angoscia nella sua vita. Aveva provato il dolore di non poter dare o ricevere ciò che gli era più caro. Ma aveva superato quest'angoscia con la fiducia che suo Padre, che l'aveva mandato in mezzo a noi, non l'avrebbe mai abbandonato. E ora Gesù era là, libero da ogni angoscia, che mi chiamava a sé nell'altra patria.

E c'era anche Maria, madre di Gesù, ma la sua presenza era molto meno immediata. Sembrava voler restare quasi nell' ombra. Dapprima fui così assorbito dalla presenza tangibile di Gesù che a stento mi accorsi di Maria; ma riflettendoci su adesso ricordo bene che c'era anche lei ad assistere con materno compiacimento all'incontro del mio cuore col cuore di suo Figlio. Quante volte l'avevo pregata: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte». Ormai ero consapevole che 'adesso' e 'ora della morte' erano diventati una cosa sola, e sapevo che Maria era presente, anche se mi concentravo in Gesù. Provavo un dolore così forte che non riuscivo a pregare con la bocca e quasi non potevo nemmeno pensare. Ma ogni volta che l'infermiera mi metteva tra le mani il rosario, sentivo conforto. Tutto quello che potevo fare era toccare i grani del rosario, ma mi sembrava di non aver bisogno di altro per pregare. Né parole, né pensieri: bastava un semplice tocco.

Quando fui trasportato nella sala operatoria e legato al tavolo per l'intervento chirurgico, provai un'immensa pace interiore.
Guardando le facce di chirurghi e infermieri coperte da maschere, riconobbi la Dr. Prasad. Non credevo che ci sarebbe stata anche lei e ne fui molto contento. Ebbi l'impressione di essere tra gente che mi conosceva e di essere in buone mani. Intanto mi chiedevo come mi avrebbero anestetizzato. Un infermiere mi disse che mi avrebbe fatto un'iniezione. E infatti, dopo l'iniezione persi la conoscenza.

Passò qualche settimana prima che la Dr. Prasad mi dicesse come si era svolta l'operazione. «Quando vidi la milza come un'isola in un mare di sangue, dubitai che lei potesse superare l'intervento. Aveva perso quasi due terzi del sangue e non sapevamo se saremmo riusciti a mantenerla in vita. Per fortuna, il Dr. Barnes riuscì a fermare l'emoraggia e a togliere la milza. Così le salvò la vita». Era chiaro che né il chirurgo, Dr. Barnes, né la Dr. Prasad avevano previsto, in base agli esami, la gravità dell'emoraggia. Quando fui ricondotto nell'unità di cura intensiva, coloro che avevano preso parte all'operazione avevano l'impressione che a stento ero sfuggito alla morte. Poco dopo essermi risvegliato dall' anestesia, un'infermiera mi disse: «Tutto sommato, lei gli deve la più grande riconoscenza». Credevo che volesse parlare del Dr. Barnes, ma quando glielo chiesi, mi rispose che non pensava al Dr. Barnes ma a Dio.



Al di là dello Specchio 1

Ancora per i prossimi giorni propongo questo lavoro di un grande uomo di preghiera...

HENRI J. M. NOUWEN
Al di là dello specchio
Riflessioni sulla vita e sulla morte

Queriniana
Titolo originale: Beyond the Mirror.Reflections on Death and Life
Traduzione dall'americano di CHERUBINO MARIO GUZZETTI

L'incidente

Ringraziamenti

Se ho potuto pubblicare questo libro lo devo all'incoraggiamento e al generoso aiuto della mia segretaria Connie Ellis e all'accurato lavoro redazionale di Conrad Wieczorek e Phil Zaeder. A tutti e tre desidero esprimere la mia profonda gratitudine.

Prologo

Questo libro è la storia spirituale di un incidente in cui sono stato coinvolto personalmente. L'ho scritto perché non potevo farne a meno. È stato un incidente che mi ha portato sull' orlo della tomba e mi ha procurato una nuova esperienza di Dio. Se non avessi scritto nulla, sarei venuto meno alla mia vocazione di proclamare la presenza di Dio in ogni tempo e in ogni luogo. Libri e articoli hanno avuto una parte importante nella mia ricerca di Dio, ma sono state soprattutto le 'interruzioni' intervenute nella mia vita di ogni giorno a rivelarmi il mistero divino di cui faccio parte.
Un lungo periodo di solitudine in un monastero trappista che interruppe un'intensa attività didattica, la morte improvvisa di mia madre che interruppe il vincolo più saldo con la mia famiglia, il trovarmi a faccia a faccia
con la povertà nell' America Latina che interruppe una vita comoda e borghese nell' America settentrionale, un invito a vivere con persone mentalmente handicappate che interruppe una carriera accademica, la rottura di una profonda amicizia che interruppe una sensazione sempre più forte di sicurezza affettiva - tutti questi avvenimenti mi obbligarono più volte a chiedermi: «Dov' è Dio? Chi è Dio per me?». Erano interruzioni che si presentavano come altrettante possibilità di andare al di là dei modelli normali della vita di ogni giorno e di trovare connessioni più profonde che non le antiche salvaguardie del mio benessere fisico, affettivo e spirituale. Ogni interruzione m'invitava a considerare in modo nuovo la mia identità davanti a Dio. Ogni interruzione mi portava via qualche cosa, ma mi offriva qualcosa di nuovo in compenso. Al di là del successo nell'insegnamento c'era la pace interiore della solitudine e della comunità; al di là del vincolo con mia madre c'era la presenza materna di Dio; al di là delle comodità dell' America settentrionale c'erano i sorrisi dei figli di Dio in Bolivia e in Perù; al di là della carriera accademica c'era la vocazione di 'toccare' Dio in coloro che hanno mente e corpo infermi; al di là di un' amicizia quanto mai fraterna c'era la comunione con un Dio che voleva ogni fibra del mio cuore. Insomma, al di là di una posizione sociale che mi rendeva piacevole la vita, c'erano le molte possibilità di una relazione con il Dio di Abramo e Sara, di Isacco e Rebecca, di Giacobbe, Lea e Rachele: col Padre di Gesù che si chiama Amore.
Tutte queste interruzioni che m'invitavano ad andare oltre mi costringevano a scrivere. Anzitutto, per il semplice motivo che lo scrivere mi sembrava l'unico modo che avessi per non scoraggiarmi nelle mie interruzioni, spaventose e spesso disastrose, e per non separarmi dalla mia più intima personalità quando mi trasferivo da luoghi noti a luoghi ignoti. Scrivendo, mi era più facile restare uri po' più raccolto in mezzo al tumulto che mi frastornava e discernere meglio la voce soave dello Spirito di Dio, guida sicura in mezzo alla cacofonia di voci che mi distoglievano dalla retta via. C'era però anche un secondo motivo. In un certo senso ero convinto che scrivendo potevo far emergere qualcosa di valore perenne dalle sofferenze e paure della mia povera, effimera vita. Ogni volta che la vita mi chiedeva di fare un altro passo avanti in un territorio spirituale sconosciuto, sentivo una forte spinta interiore di dirlo agli altri -
forse per un bisogno di compagnia, ma forse anche perché sono consapevole che la mia vocazione più profonda è di testimoniare la grazia che Dio mi ha fatto di poterlo intravedere fin da questa vita.
Quando fui colpito da un furgoncino che mi sfrecciò accanto mentre cercavo di ottenere un passaggio con l'autostop e poco dopo mi trovai di fronte alla possibilità della morte fui più che mai consapevole che ciò che stavo vivendo allora dovevo viverlo per gli altri. E adesso che. sono guarito e posso raccontare ciò che è accaduto, sono convinto che quell'interruzione, che avrebbe potuto essere l'ultima, mi ha fatto conoscere Dio in un modo completamente opposto a ciò che avevo imparato fino allora. Sento perciò un bisogno più forte che mai di parlarne e di presentare agli altri la mia nuova conoscenza di Dio, che non posso tenere solo per me.
Spero che questa occhiata «al di là dello specchio» possa dare conforto e speranza ai miei fratelli e alle mie sorelle che non osano pensare alla morte che si avvicina, oppure ci pensano in timore e tremore, ma mai in pace.

L'incidente

Ricordo come fosse adesso quel preciso istante di un buio mattino d'inverno in cui il retrovisore esterno di un furgoncino che mi passava accanto mi urtò nella schiena, scaraventandomi a terra sul ciglio della strada. Compresi subito che per me non c'era più nulla da fare. Non sapevo se fossi stato ferito in modo molto grave: sapevo però che finiva una parte della mia vita e che stava per cominciarne un' altra, avvolta ancora nel mistero.
Mentre mi trovavo là per terra sull' orlo della strada con tante macchine che mi sfrecciavano accanto e invocavo aiuto, ebbi subito fin dal primo istante la chiara percezione che non si trattava solo di un incidente. Più tardi mi sarei reso conto con maggior chiarezza che tutto l'avvenimento era prevedibile, provvidenziale e misteriosamente
predisposto. In quel momento mi preoccupavo soprattutto di essere soccorso, eppure mentre ero là per terra, mi accorgevo che qualcosa di stranamente 'buono' stava accadendo.
Non avevo avuto un minimo di requie per tutta la settimana, preso com' ero da tante piccole cose, nessuna tremendamente importante ma che però mi assorbivano completamente e mi lasciavano stanco morto, e anche un po' irritato. Mi sembrava di non riuscire mai a mettermi in contatto diretto con la mia sorgente interiore. Per fortuna, c'era un' eccezione. Mi avevano chiesto di aiutare Hsi-Fu, un quattordicenne cinese gravemente handicappato, a prepararsi al mattino per la scuola. Nathan e Todd, che di solito aiutavano Hsi-Fu, erano assenti perché partecipavano a un ritiro spirituale, ed ero ben contento di sostituirli. Anzi, mi sentivo privilegiato di poter star vicino a Hsi-Fu. Hsi-Fu è cieco, non può parlare né camminare e ha gravi deformità fisiche; è però così pieno di vita e amore che stando con lui mi riesce più facile entrare in contatto con ciò che dà un vero senso alla vita. Lavandolo, spazzolandogli i denti, pettinandogli i capelli o anche solo guidandogli la mano mentre cerca di mettere un po' di cibo sul cucchiaio e di portarselo alla bocca, si crea una grande intimità, un legame sereno, un momento di vera pace - come se fosse un'ora di meditazione. Avevo già aiutato Hsi-Fu il lunedì, martedì e mercoledì mattina di quella settimana ed ero ben contento di trovarmi di nuovo con lui anche il giovedì.

Hsi-Fu abita nella cosiddetta 'Corner House' nel centro di Richmond Hill, a cinque minuti di macchina da dove abito io. Quel giovedì mattina mi svegliai di buonora e guardando fuori della finestra vidi che il terreno era diventato tutto una lastra di ghiaccio. Ovviamente, era impossibile percorrere in macchina gli ottocento metri fino a Y onge Street. La strada in terra battuta andava bene come pista di pattinaggio, ma se avessi voluto usare la macchina sarei andato a finire in un fossp. Stavo per uscire quando incontrai la mia amica Sue che andava in chiesa a pregare. «Non prendere la macchina», mi disse. «Non ce la fai». «Pazienza!», risposi. «Andrò a piedi. Sono appena le sei, e per le sette arriverò certamente da Hsi-Fu». Ma Sue continuò: «Henri, non uscire! È troppo pericoloso. Da' un colpo di telefono a Corner House, e una soluzione in un modo o nell' altro la troveranno». Ormai però avevo deciso. «Ma sì che posso farcela! E poi, ho promesso di andare e ci andrò». E così uscii di casa e cominciai a strascicare un piede dopo l'altro sulla strada ghiacciata in direzione di Yonge Street. Camminare non era facile e a un certo punto scivolai e caddi lungo disteso per terra. Eppure continuavo a dire a me stesso: «Tira avanti! Puoi farcela. Non lasciarti scoraggiare da un po' di ghiaccio!». Ormai non ero più motivato da spirito di servizio, ma dal desiderio di dimostrare a me stesso che ero in grado di fare quanto avevo promesso, e dal desiderio ancora più forte di non permettere che qualcuno mi portasse via Hsi-Fu, almeno per quella settimana.

Arrivai finalmente a Yonge Street e vidi che avevo impiegato ben quindici minuti. Attraversai la strada e cominciai a camminare verso sud in direzione di Richmond Hill. Mentre camminavo, provavo una grande ansietà. Le macchine mi sfrecciavano accanto e, sebbene il fondo stradale sembrasse libero dal ghiaccio, i margini della strada erano molto pericolosi. Continuavo a inciampare, col rischio di cadere. Quando finalmente arrivai alla stazione di servizio, mi accorsi che erano già le sei e mezza e che ormai era impossibile arrivare a Corner House per le sette.
Proprio allora un camioncino con due uomini a bordo si fermò nella stazione. Decisi di chiedere aiuto. Bussai al finestrino del camioncino, e quando l'uomo seduto vicino all'autista abbassò il vetro, dissi: «Non potreste farmi il favore di portarmi in centro? Devo essere là per le sette, e con tutto questo ghiaccio non ci riesco. Con la macchina, in tre minuti si arriva». L'autista si sporse verso di me e disse: «No, non possiamo aiutarla. Siamo qui per aprire la stazione di servizio. Non abbiamo tempo». Decisi di provare una seconda volta. «Senta, è solo questione di qualche minuto. Sono troppo nervoso per camminare sul ghiaccio. Non potrebbe darmi una mano?». Ma anche questa volta l'autista rispose: «Mi dispiace, ma non abbiamo tempo». Cominciavo a provare un sentimento di rabbia e uno strano desiderio di costringere quei due uomini ad aiutarmi. Insistetti dunque: «Devo proprio essere là - indicai con la mano - dove si vede quel campanile, e se non mi aiutate non arrivo in tempo. Per adesso qui non c'è nessuno che abbia bisogno di voi». Ma l'autista cominciò a parcheggiare il suo camioncino dicendo: «Mi dispiace, ma non abbiamo tempo. Abbiamo il nostro lavoro da fare». Intanto il suo compagno chiuse il finestrino e mi
piantò in asso. D'un tratto fui preso da una grande rabbia. Quei due sconosciuti mi erano diventati nemici. Traboccavo di bile. Ero stato frainteso, respinto, e lasciato al mio destino. Provavo gli stessi sentimenti di un bambino abbandonato da tutti. Mi rimisi in cammino lungo il margine della strada. Sapevo che rischiavo grosso e che dovevo stare bene attento, ma non ci riuscivo. Mi trascinavo con fatica, accecato dai fari delle macchine che mi passavano accanto in una fila interminabile. Eppure ero deciso a ogni costo ad arrivare in tempo. Volevo far vedere a quei due benzinai che potevo fare a meno di loro, che non ne avevo affatto bisogno, che c'era molta gente più. compassionevole di quei due signori e che - a dirla breve - io avevo ragione, e loro torto.

A un certo punto mi voltai verso le macchine che mi venivano incontro con i fari accesi e alzai la mano per indicare che volevo andare verso il centro di Richmond Hill. Macchina dopo macchina sbucavano tutte dalla nebbia mattutina e mi passavano vicino senza fermarsi. E intanto pensavo a quegli autisti che se ne andavano comodi al lavoro, soli nelle loro macchine, e provavo un sentimento di stizza al vedere che nessuno sembrava accorgersi di me o mostrasse la minima voglia di fermarsi a darmi un passaggio per quelle poche centinaia di metri fino a Corner House. Sembrava che tutti - non solo i due benzinai - mi fossero diventati nemici
Ero in preda a una strana ambiguità. Da un lato comprendevo benissimo che in simili condizioni era del tutto irrealistico sperare che un autista mi vedesse, si rendesse conto che avevo bisogno di aiuto e si fermasse a darmi una mano. Erano cose che io stesso non avrei mai potuto fare, se mi fossi recato al lavoro in macchina alle sei e mezza di una gelida mattina d'inverno. D'altro lato, sentivo in cuore una specie di rabbia interiore, una sensazione sempre più forte di essere respinto, e nel mio intimo gridavo: «Perché mi passate tutti accanto, senza curarvi di me, ignorando le mie suppliche, e lasciandomi tutto solo sul margine della strada?». Capivo benissimo l'assurdità delle mie aspettative, eppure mi sentivo traboccare di bile.

Alla fine dovetti concludere che l'unico modo per arrivare a Corner House era di andare a piedi. Intanto, però, era passato un bel po' di tempo, e non potevo certamente trovarmi con Hsi-Fu per le sette. E così, arrabbiato, confuso, nervoso e consapevole di fare una grande sciocchezza, mi misi a correre per Yonge Street, mentre mi risuonavano all' orecchio le parole di Sue: «Henri, è troppo pericoloso...».
Fu allora che avvenne il disastro. Sentii una grossa botta che mi trafisse dalla testa ai piedi e provai un dolore atroce alla schiena, poi inciampai e caddi per terra lungo disteso invocando aiuto. A un certo punto pensai: «Chissà se l'autista che mi ha colpito se n'è accorto, o se invece ha tirato avanti come se nulla fosse?». Poi mi venne un altro pensiero, molto più profondo e importante: «È cambiato tutto! I miei piani non hanno più senso. È una cosa dolorosa, spaventosa, ma forse è per il mio bene». Mi risuonarono all' orecchio le parole di Sue: «È troppo pericoloso, è troppo pericoloso!». Poi più nulla. Ero là bocconi al margine della strada, bisognoso di aiuto. Non riuscivo quasi a muovermi, dipendevo completamente dagli altri, eppure tutto ciò non mi spaventava. Avevo quasi l'impressione di essere stato afferrato da una mano forte che m'avesse costretto a una specie di capitolazione, necessaria per ilmio bene.

Cercavo di attirare l'attenzione dei due benzinai, ma erano troppo lontani per potermi vedere o sentire. Ed ecco, con mia sorpresa, venirmi incontro di corsa un giovanotto che si curvò su di me dicendo: «Lei è stato ferito. Lasci che l'aiuti!». Aveva una voce molto dolce e amichevole. Sembrava un angelo che volesse proteggermi. «Devo essere stato colpito da una macchina che mi è passata accanto», gli dissi. «Non so nemmeno se l'autista se n'è accorto». «Sono io l'autista», mi disse. «L'ho urtata io col retrovisore destro del camioncino, ma poi mi sono fermato per prestarle soccorso... Riesce ad alzarsi?». «Spero di sì», risposi, e col suo aiuto mi rimisi in piedi. «Faccia attenzione», mi disse, «faccia molta attenzione», e insieme ci avviammo verso la stazione di servizio. «Mi chiamo Henri», dissi. E lui: «E ioJon. Vediamo se riesco a far venire un' ambulanza». Entrammo nella stazione di servizio. Jon mi aiutò a sedermi e andò a telefonare. I due benzinai guardavano da lontano senza dir nulla. Dopo un po', Jon cominciò a preoccuparsi. Alla fine mi disse: «Non riesco a mettermi in contatto con nessuna ambulanza. Forse è ancora meglio che la porti io stesso allo York Central Hospital». Andò a prendere il suo camioncino e intanto telefonai a Sue per informarla dell'incidente. Poi salii sul camioncino e partimmo subito per l'ospedale. Guardando fuori dal finestrino, vidi lo specchietto retrovisore tutto contorto e mi resi conto della botta tremenda che avevo preso. Jon era ancora visibilmente sotto shock. A un certo punto mi domandò: «Cosa faceva sul bordo della strada?». Non mi sentivo di dare troppe spiegazioni e mi limitai a dire: «Sono un prete. Vivo in una comunità di handicappati mentali. Stavo andando in una delle nostre case». Tutto costernato, esclamò: «Mio Dio, ho colpito un prete! Mio Dio». Provai simpatia per Jon e cercai di consolarlo dicendo: «Le sono tanto riconoscente perché mi porta all' ospedale. Quando starò meglio, deve venire a trovarmi e a visitare la nostra comunità». «Sì, mi piacerebbe», rispose; ma i suoi pensieri erano altrove.

1 Novembre: Solennità di Tutti i Santi - Testi e commenti

Di seguito i testi della Solennità del 1 Novembre prossimo, con la seconda lettura dell'Ufficio e qualche commento.


1 NOVEMBRE
TUTTI I SANTI
Solennità

Affrettiamoci verso i fratelli che ci aspettano

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate (Disc. 2; Opera omnia, ed. Cisterc. 5 [1968] 364-368)
A che serve dunque la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità? Perché ad essi gli onori di questa stessa terra quando, secondo la promessa del Figlio, il Padre celeste li onora? A che dunque i nostri encomi per essi? I santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. E' chiaro che, quando ne veneriamo la memoria, facciamo i nostri interessi, non i loro.
Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri.
Il primo desiderio, che la memoria dei santi o suscita o stimola maggiormente in noi, è quello di godere della loro tanto dolce compagnia e di meritare di essere concittadini e familiari degli spiriti beati, di trovarci insieme all'assemblea dei patriarchi, alle schiere dei profeti, al senato degli apostoli, agli eserciti numerosi dei martiri, alla comunità dei confessori, ai cori delle vergini, di essere insomma riuniti e felici nella comunione di tutti i santi.
Ci attende la primitiva comunità dei cristiani, e noi ce ne disinteresseremo? I santi desiderano di averci con loro e noi e ce ne mostreremo indifferenti? I giusti ci aspettano, e noi non ce ne prenderemo cura? No, fratelli, destiamoci dalla nostra deplorevole apatia. Risorgiamo con Cristo, ricerchiamo le cose di lassù, quelle gustiamo. Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipano con i voti dell'anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l'aspirazione più intensa a condividerne la gloria. Questa bramosia non è certo disdicevole, perché una tale fame di gloria è tutt'altro che pericolosa.
Vi è un secondo desiderio che viene suscitato in noi dalla commemorazione dei santi, ed è quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro, e noi pure facciamo con lui la nostra apparizione nella gloria. Frattanto il nostro capo si presenta a noi non come è ora in cielo, ma nella forma che ha voluto assumere per noi qui in terra. Lo vediamo quindi non coronato di gloria, ma circondato dalle spine dei nostri peccati.
Si vergogni perciò ogni membro di far sfoggio di ricercatezza sotto un capo coronato di spine. Comprenda che le sue eleganze non gli fanno onore, ma lo espongono al ridicolo.
Giungerà il momento della venuta di Cristo, quando non si annunzierà più la sua morte. Allora sapremo che anche noi siamo morti e che la nostra vita è nascosta con lui in Dio.
Allora Cristo apparirà come capo glorioso e con lui brilleranno le membra glorificate. Allora trasformerà il nostri corpo umiliato, rendendolo simile alla gloria del capo, che è lui stesso.
Nutriamo dunque liberamente la brama della gloria. Ne abbiamo ogni diritto. Ma perché la speranza di una felicità così incomparabile abbia a diventare realtà, ci è necessario il soccorso dei santi. Sollecitiamolo premurosamente. Così, per loro intercessione, arriveremo là dove da soli non potremmo mai pensare di giungere.

MESSALE

Antifona d'Ingresso
Rallegriamoci tutti nel Signore
in questa solennità di tutti i Santi:
con noi gioiscano gli angeli
e lodano il Figlio di Dio.



Colletta

Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un'unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l'abbondanza della tua misericordia. Per il nostro Signore...



LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura
Ap 7,2-4.9-14
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.

Dal libro dell'Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».


Salmo Responsoriale
Dal Salmo 23
Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.

Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.


Seconda Lettura 1 Gv 3,1-3
Vedremo Dio così come egli è.

Dalla lettera prima lettera di san Giovanni apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.


Canto al Vangelo
Mt 11,28
Alleluia, alleluia.

Venite a me,
voi tutti che siete affaticati e oppressi,
e io vi darò ristoro.

Alleluia.


Vangelo
Mt 5,1-12a
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Parola del Signore.


* * *





Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio?
Per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie,
né possedere carismi eccezionali.
E' necessario innanzitutto ascoltare Gesù
e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà.
"Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo.
Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26).
Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità,
come il chicco di grano sepolto nella terra,
accetta di morire a sé stesso.
Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde,
e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita.
L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità,
pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce,
la via della rinuncia a se stesso.
L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento
a seguire le stesse orme,
a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio,
perché l'unica vera causa di tristezza
e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.

Benedetto XVI, 1 Novembre 2006



IL COMMENTO


Una speranza invincibile. La forza infinita d'una chiamata. La santità è un'elezione, un esser messi a parte per qualcosa di speciale: per abitare la Terra. I santi sono gli eredi della Terra dove scorre latte e miele. Il Cielo. Tra le pieghe della festa di oggi, dietro la santità si scorge la storia di un Popolo. Ad ogni beatitudine si odono le eco dei passi degli umili, dei piccoli, di un resto. I riscattati che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello. E' Lui che, vittorioso sul peccato e sulla morte, precede i suoi nella Galilea che è il mondo in attesa del Regno. E' Lui il Santo che ci fa santi. Oggi siamo tutti dinanzi alla Terra. Come Giosuè. Le parole del Signore ci invitano a non aver paura, ad essere coraggiosi e forti, a non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà, ai popoli che abitano la nostra eredità. Non aver paura di noi stessi, dei nostri peccati, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri difetti. Sono tanti e numerosi come i Popoli che abitavano la Terra che si dischiudeva dinanzi agli occhi di Giosuè. "Forza e coraggio" gli ripeteva il Signore sull'erta di quel monte, "perchè il Signore è con te ovunque tu vada". Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà. Solo chi ha conosciuto davvero, come Giacobbe, la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia in Colui che lo chiama. E' la fede che coniuga nei santi la forza e il coraggio. Israele, il Popolo da cui proveniamo, significa proprio "Forte con Dio". Il santo è il forte con il Più forte. Vive aggrappato a Colui che ha legato il demonio, ha sconfitto uno ad uno i Popoli che usurpavano l'eredità, e con Lui entra a prenderne possesso. Un Popolo santo, separato, consacrato in Colui che lo ha amato di un amore unico, gratuito, infinito.


Della Terra ci parla oggi il Signore, della beatitudine di chi abita, felice, nella sua Terra. Della Chiesa, il mistero d'amore e comunione che supera ogni nostro limite carnale, l'amore che trafigge le nostre opere morte per trasformarle in opere di vita eterna. Anche oggi, come ad ogni mattino che si apre dinanzi a noi, ci troviamo sul monte con il Signore. E su quel monte ammantato dalla rugiada d'ogni alba della nostra vita, Lui ci chiama ad entrare nella Sua eredità. Ogni aurora che ci accoglie ci dona il Suo Spirito Santo che ci fa figli, coeredi di un Destino meraviglioso. Lo Spirito di fortezza perchè non cediamo al timore dinanzi alla Croce che ci attende. Ecco la nostra vita santa che ci fa santi. Ogni evento in cui ci imbattiamo è la Terra preparata per noi, la nostra eredità. Ogni fatto della nostra vita ci fa dunque santi perchè in ciascuna ora che segna le nostre esistenze Lui ci precede, combatte per noi come già ha fatto innumerevoli volte nel passato, anche quando eravamo schiavi del peccato in Egitto dove ci ha salvati, redenti, amati d'un amore eterno. Come un Padre che porta sulle spalle il Suo figlio, così Lui ci conduce al possesso della nostra eredità, la Sua stessa santità. Lui, il Santo, ci ha scelti, eletti, e ci chiama. Questa speranza purifica i nostri cuori e le nostre menti e ci fa come Lui. Santi. Poveri con Lui, afflitti con Lui, miti con Lui, affamati e assetati con Lui, puri, operatori di pace, perseguitati con Lui. Piccoli, deboli, pieni di difetti e di contraddizioni. Eppure santi. Nella Chiesa, immersi in un mistero d'amore che ci fa concittadini dei santi del Cielo, familiari di Dio, pellegrini verso la dimora che il Padre ci ha preparato.


Celebriamo oggi la santità di tutti coloro che ci hanno preceduto in questo cammino, che hanno gustato le primizie della Terra promessa nelle pieghe dell'esistenza quotidiana. I santi, testimoni veraci della Patria che ci attende, ci chiamano oggi ad entrare nel riposo preparato per noi. Qui, ora come siamo e dove siamo, anticipo di quello che, in pienezza, gusteremo con chi ha terminato la corsa prima di noi. Affrettiamoci dunque ad entrare oggi nella Terra santa che è questa nostra vita. Affrettiamoci ad accogliere il Santo, a lasciarci amare, e che Lui ci faccia santi sulle orme che che il Suo Popolo ci ha lasciato. La nostra vita, il nostro corpo, tutto di noi tempio santo per la Sua santità. Santi perchè consegnati, donati al mondo. Non v'è altra beatitudine, altra felicità, altro Cielo sulla terra che l'amore che si fa vita che non muore in noi. Che il Padre illumini gli occhi della nostra mente per comprendere a quale speranza siamo chiamati, "quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi".










DALL'OMELIA PASQUALE DI MELITONE DI SARDI


"Il Signore pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole e, sepolto per chi è sepolto, suscitò dai morti e gridò questa grande parola: "Chi è colui che mi condannerà? Si avvicini a me" (Is 50,8). Io, dice, sono Cristo che ho distrutto la morte, che ho vinto il nemico, che ho messo sotto i piedi l'inferno, che ho imbrigliato il forte e ho levato l'uomo alle sublimità del cielo; io, dice, sono il Cristo.
Venite, dunque, o genti tutte, oppresse dai peccati e ricevete il perdono. Sono io, infatti, il vostro perdono, io la Pasqua della redenzione, io l'Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra.
Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.
Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e l le membra del nostro corpo con il suo sangue.
Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.
Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.
Egli è colui che prese su di se le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè e nell'agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.
Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione
Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro".





CAPPELLA PAPALE PER LA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI


OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° novembre 2006


Il Santo Padre ha introdotto la Celebrazione e l'atto penitenziale con le seguenti parole:


Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell'amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.


Cari fratelli e sorelle,


la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l'esortazione "Rallegriamoci tutti nel Signore". La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.
Quest'oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di "madre dei santi, immagine della città superna" (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l'autore del libro dell'Apocalisse li descrive come "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Questo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l'impulso dell'eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo.
Ma "a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?". Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: "I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri" (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell'odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.


Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All'interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà. "Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (Cfr Gv 12, 24-25). L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, "sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (v. 14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.


La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell'uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). Nella seconda Lettura, l'apostolo Giovanni osserva: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi.


Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.


Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all'annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5, 3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell'ago (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5, 48).


Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.




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SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

Omelia


La liturgia odierna si apre con l'esortazione: «Rallegriamoci tutti nel Signore» (Ant. ingr.). Siamo così invitati a condividere il gaudio celeste dei santi e ad assaporarne la gioia, contemplando il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande schiera di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo resi santi dallo Spirito Santo. La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. A questa gioia ci invita la liturgia!

La Chiesa festeggia la propria dignità di Madre dei santi. È nei santi che essa principalmente si riconosce ed essi ne riflettono peculiarmente i tratti caratteristici; nei santi tutta la Chiesa assapora la gioia più profonda. L’Apocalisse li descrive come «Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9). I santi non sono, infatti, “un’esigua minoranza privilegiata”, ma una folla senza numero, verso la quale la Chiesa esorta a levare lo sguardo. A tale moltitudine non appartengono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e luogo, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.

Questo nuovo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la gioia e la volontà stabile di essere amici di Dio.

Come possiamo anche noi essere santi e amici di Dio?

La santità è anzitutto dono del Signore. L'apostolo Giovanni osserva: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore.

Come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero?

Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti?

In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina e per essere realisticamente uniti a Gesù dobbiamo essere uniti alla Chiesa da Lui fondata. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio questo rende felici.

È necessario seguire Cristo, così come Egli stesso ci indica: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà» (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé. L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo strade differenti, passa sempre per la Via Crucis, la via del preferire il Signore a se stessi. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato prove, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, «sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello» (Ap 7,14). L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguirne le orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano dal proprio Creatore.

Nel Vangelo proclamato in questa splendida Solennità, il Signore Gesù afferma: «Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia» (cfr Mt 5, 3-10).

In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero personale; nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle proprie circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine ed essergli realmente “amici”. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino «un cammello passa per la cruna dell'ago» (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto, ci è dato di «diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste» (cfr Mt 5, 48).

Guardando al luminoso esempio dei santi risvegliamo in noi il grande desiderio di essere come loro: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere santi significa vivere nella “prossimità con Dio”, vivere nella sua famiglia. Entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica: tra poco si farà presente Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli sulla terra ed i santi del cielo, pertanto la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria è resa ancora più intensa nella celebrazione eucaristica. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità, Regina degli Angeli e di tutti i Santi. Lei, la Tutta Santa, ci faccia autentici fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo!


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Omelia 1 p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.


Da tempo gli scienziati mandano segnali nel cosmo in attesa di risposte da parte di esseri intelligenti esistenti in qualche pianeta sperduto. La Chiesa da sempre intrattiene un dialogo con abitanti di un altro mondo, i santi. Questo è ciò che proclamiamo dicendo: “Credo nella comunione dei santi”. Se anche esistessero abitanti al di fuori del sistema solare, la comunicazione con essi sarebbe impossibile perché tra la domanda e la risposta dovrebbero passare milioni di anni. Qui invece la risposta è immediata perché c’è un centro di comunicazione e di incontro comune che è il Cristo risorto.

Forse anche per il momento dell’anno in cui cade, la festa di Tutti i santi, ha qualcosa di particolare che spiega la sua popolarità e le numerose tradizioni ad essa legate in alcuni settori della cristianità.

Il motivo è in ciò che dice Giovanni nella seconda lettura. In questa vita, “noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo ancora non appare”; siamo come l’embrione nel senso della madre che anela a nascere. I santi sono quelli che sono “nati” (la liturgia chiama “giorno natalizio”, dies natalis, il giorno della loro morte); contemplarli è contemplare il nostro destino. Mentre intorno a noi la natura si spoglia e cadono le foglie, la festa di Tutti i santi ci invita a guardare in alto; ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra per sempre come le foglie.

Il brano evangelico è quello delle Beatitudini. Una beatitudine in particolare ha ispirato la scelta del brano: “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”. I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure.

Ci aiuta a capire chi sono i santi la prima lettura della festa. Essi sono “coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello”. La santità si riceve da Cristo; non è di produzione propria. Nell’Antico Testamento essere santi voleva dire “essere separati” da tutto ciò che è impuro; nell’accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè “essere uniti”, s’intende a Cristo.

I santi, cioè i salvati, non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell’albo dei santi. Vi sono anche i “santi ignoti”: quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i “santi laici”, come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell’Agnello, se hanno hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli.

Una domanda viene spontanea: “Cosa fanno i santi in paradiso? La risposta è, anche qui, nella prima lettura: i salvati adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: “Lode, onore, benedizione, azione di grazia…”. Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere “lode della gloria di Dio” (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: “L’anima mia magnifica il Signore”. È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: “Il mio spirito esulta in Dio”. L’uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità.

Un giorno un santo, S. Simeone il Nuovo Teologo, ebbe una esperienza mistica di Dio così forte che esclamò tra sé: “Se il paradiso non è che questo, mi basta!”. Ma la voce di Cristo gli disse: “Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La gioia che hai provato in confronto a quella del paradiso è come un cielo dipinto sulla carta rispetto al cielo vero”.


Omelia 2 p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.


La festa di Tutti i Santi e la commemorazione dei fedeli defunti hanno una cosa in comune e per questo sono poste l’una di seguito all’altra. Anche il brano evangelico è lo stesso ed è la pagina delle beatitudini. Ambedue le ricorrenze ci parlano dell’aldilà. Se non credessimo in una vita dopo la morte, sarebbe vano celebrare la festa dei Santi e ancora più vano recarci al cimitero. Chi andremmo a visitare e perché accendiamo una candela o portiamo un fiore?

Tutto dunque in questo giorno ci invita a una riflessione sapienziale: “Insegnaci a contare i nostri giorni –dice un salmo – e giungeremo alla sapienza del cuore”. “Si sta come d’autunno sull’albero le foglie” (G. Ungaretti). L’albero a primavera torna a fiorire, ma con altre foglie; anche il mondo continuerà dopo di noi, ma con altri abitanti. Le foglie non hanno una seconda vita, marciscono dove cadono. È così anche di noi? Qui l’analogia qui si interrompe. Gesù ha promesso: “Io sono la risurrezione e la vita, chi vive e crede in me anche se muore, vivrà”. È la grande sfida della fede, non solo dei cristiani, ma anche degli ebrei e degli islamici, di tutti coloro che credono in un Dio personale.

Quelli che hanno visto il film Dottor Zivago ricordano la celebre canzone di Lara che fa da colonna sonora. Nella versione italiana essa dice: “Dove non so, ma un posto ci sara' da dove noi non torneremo mai...”. La canzone esprime bene il senso del celebre romanzo di Pasternac da cui è tratto il film: due innamorati che si incontrano, si cercano, ma che la sorte (siamo all’epoca tempestosa della rivoluzione bolscevica) ogni volta crudelmente separa, fino alla scena finale in cui le loro strade tornano a incrociarsi, senza però riconoscersi.

Ogni volta che mi capita di ascoltare le note di quella canzone, la mia fede mi fa quasi gridare tra me: Sì un posto c’è da dove noi non torneremo –e non vorremo tornare – mai. Gesù è andato a prepararcelo, ci ha aperto la via con la sua risurrezione e ci ha indicato la strada per seguirlo con la pagina delle beatitudini. Un posto in cui il tempo si fermerà su di noi per cedere il passo all’eternità; dove l’amore sarà pieno e totale. Non solo l’amore di Dio e per Dio, ma anche ogni amore onesto e santo vissuto sulla terra.

La fede non esenta i credenti dall’angoscia di dover morire, essa però la tempera con la speranza. Il prefazio della Messa di domani dice: “Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la speranza dell’immortalità futura”. A questo proposito c’una testimonianza sconvolgente situata anch’essa in Russia. Nel 1972 su una rivista clandestina fu pubblicato un testo. Si tratta di una preghiera trovata nel taschino della giubba del soldato Aleksander Zacepa, composta pochi istanti prima della battaglia in cui perse la vita nella seconda guerra mondiale. Dice:

Ascolta, o Dio! Non una volta nella mia vita ho parlato con te, ma oggi mi vien voglia di farti festa.
Sai, fin da piccolo mi hanno sempre detto che non esisti... io stupido ci ho creduto.
Non ho mai contemplato le tue opere,
ma questa notte ho guardato dal cratere di una granata al cielo di stelle sopra di me
e affascinato dal loro scintillare,
ad un tratto ho capito come possa esser terribile 1'inganno... Non so, o Dio, se mi darai la tua mano,
ma io ti dico e tu mi capisci...
Non e strano che in mezzo a uno spaventoso inferno mi sia apparsa la luce e io abbia scorto te?
Oltre a questo non ho nulla da dirti. Sono felice solo perché ti ho conosciuto. A mezzanotte dobbiamo attaccare,
ma non ho paura, tu guardi a noi.
E il segnale! Me ne devo andare. Si stava bene con te. Voglio ancora dirti, e tu lo sai, che la battaglia sarà dura: può darsi che questa notte stessa venga a bussare da te. E anche se finora non Sono stato tuo amico,
quando verrò, mi permetterai di entrare?
Ma che succede, piango?
Dio mio, tu vedi quello che mi e capitato, soltanto ora ho incominciato a veder chiaro... Salve, mio Dio, vado... difficilmente tornerò. Che strano, ora la morte non mi fa paura.

(Edito in di V. Cattana, Le più belle preghiere del mondo, Mondadori 2006, p. 188).