venerdì 28 ottobre 2011

Il Dono del Compimento - Meditazione su come morire e aiutare a morire

Ancora una lettura utile per i prossimi giorni...


H.J.M.Nouwen
IL DONO DEL COMPIMENTO

meditazione su come morire e aiutare a morire
quinta edizione
Editrice Queriniana

Ringraziamenti

Questo libretto non sarebbe mai stato scritto senza la calda amicizia e la generosa ospitalità dei miei amici tedeschi Franz e Reny Johna. Nella loro casa ho trovato non soltanto un luogo tranquillo dove scrivere, ma anche la stimolante compagnia che mi ha per- messo di discutere i miei pensieri e di confrontare le mie idee. La mia gratitudine per loro è profonda e duratura.

Penso anche a tutti gli amici ricordati in questo libro. Non solo mi hanno permesso di scrivere di loro, ma molti si sono presi la briga di leggere criticamente il mio manoscritto e di darmi dei suggerimenti in vista di cambiamenti e aggiunte.

Una speciale parola di ringraziamento va alla mia segretaria, Kathy Christie, che ha battuto e ribattuto il testo e mi ha offerto l'incoraggiamento e il sostegno di cui avevo grande bisogno durante le fasi finali della stesura di questo libro. Sono anche grato a Conrad Wieczorek e a Terri Goff per il loro accurato lavoro redazionale.

Voglio infine esprimere la mia profonda gratitudine a Peggy McDonnell, alla sua famiglia e ai suoi amici. Il loro costante incoraggiamento e il loro generoso aiuto finanziario in memoria di Murray McDonnell mo hanno consentito di trovare il tempo e lo spazio necessario per scrivere Il dono del compimento.

Prologo

Farsi amica la morte

Il 31 dicembre 1992, alle tre del pomeriggio, moriva Maurice Gould. È deceduto nello York CentraI Hospital. di Richmond Hill, presso Toronto, in Canada, dopo una lunga lotta contro il morbo di Alzheimer.

Maurice- ."Moe" , come lo chiamavano -era membro dell'Arche. Fondata nel 1964 dal canadese Jean Vanier, L'Arche è una rete mondiale di comunità, do- ve persone mentalmente disabili e i loro assistenti edificano una casa gli uni per gli altri. Per 14 anni Maurice aveva fatto della comunità Daybreak dell'Arche di Toronto la sua casa. Era noto per la sua allegria, la sua gentilezza e il suo amore per la casa. Le innumerevoli persone che l'hanno incontrato nel corso degli anni parlano di lui con molto affetto. In qualche modo la sua condizione -la sindrome di Down -sembrava soltanto l'altra faccia del suo grande dono: dare e ricevere amore.

Negli ultimi giorni di vita di Moe io mi trovavo a Friburgo, in Germania. La comunità di Daybreak aurora) mi aveva inviato qui per un periodo di alcuni mesi, lontano dal mio lavoro pastorale nella comunità, al fine di concentrarmi esclusivamente sulla stesura di questo libro. Quando Nathan Ball, direttore della comunità, mi chiamò per comunicarmi la morte di Moe, seppi subito che dovevo tornare a Toronto il più presto possibile, per stare accanto alla famiglia di Moe e ai tanti suoi amici, per vivere con loro il dolore per la sua dipartita, ma anche la gioia r i suoi cinquantotto anni di esistenza, pienamente vissuti.

Il giorno seguente, durante il volo verso casa, riflettei molto sulla vita e la morte e cominciai a chiedermi in che maniera il nostro morire può essere altrettanto nostro del nostro vivere.

Mentre l' aereo delle linee canadesi mi trasportava da Francoforte, in Germania, sorvolando l'Olanda, Inghilterra, l'oceano Atlantico e la Nuova Scozia e Canada, fino a Toronto, ebbi ampio agio di pensare al morire: il morire di Maurice, il mio proprio morire e il morire di tanti ogni giorno, in tutto il mondo.

La morte è forse qualcosa di così tremendo e assurdo che è meglio non pensarci e non parlarne? La morte è forse una parte così indesiderabile della nostra esistenza che è meglio agire come se non fosse reale? La morte è forse una fine così assoluta di tutti i nostri pensieri e di tutte le nostre azioni che semplicemente non possiamo affrontarla? O è possibile farci gradualmente amica la nostra morte e vivere aperti ad essa, confidando che non abbiamo nulla da temere? È possibile prepararci alla nostra morte con la medesima cura che i nostri genitori hanno avuto nel preparare la nostra nascita? Possiamo attendere la nostra morte come se fosse un amico che vuole accoglierci a casa?

Durante le otto ore e mezzo di volo pensai non sol- tanto a Maurice e a queste domande, ma anche agli altri miei amici morenti e a mio padre che sta invecchiando. Appena un mese prima, il 24 novembre, ero stato con Rick alla Bethany House, la casa del lavoratore cattolico a Oakland, in California. La Bethany House era stata fondata di recente da Michael Haranvi per offrire un luogo in cui prendersi cura delle persone ammalate di AIDS. Rick ha l' AIDS e sa di avere solo poco tempo da vivere. Mentre sedevo presso il suo letto tenendogli la mano, mi disse: «Che cosa posso fare ancora nei mesi che mi rimangono? Il mio amico, che amo molto, può fare ogni sorta di progetti per il suo futuro, ma io non ho più un futuro», e le lacrime gli rigavano il volto mentre mi stringeva più forte la mano.

Poi pensai a Marina, mia cognata, che aveva lottato per cinque anni contro un cancro intestinale ed era sopravvissuta a tre terribili interventi chirurgici; e al- la fine, quando ogni altra terapia si era rivelata inutile, aveva lasciato che le cose seguissero il loro corso naturale- Marina aveva parlato apertamente della sua morte con i suoi dottori, con le infermiere, con i tanto .amici, con sua madre, con suo marito, Paolo, e con me. Nelle sue poesie aveva espresso i suoi sentimenti verso la morte che si stava avvicinando, anche quando coloro che la circondavano non osavano menzionarla in sua presenza. E intanto mio padre, in Olanda, avrebbe celebrato tra dieci giorni il suo novantesimo compleanno. È pieno di energia, scrive ancora, dà tuttora conferenze e fa progetti. Ma a me ha detto: «Figliolo, il mio corpo è esausto, i miei occhi non riescono più a mettere a fuoco, il mio stomaco non tollera più molto cibo, e il mio cuore è molto, molto debole». La gente muore. Non solo i pochi che conosco, ma innumerevoli persone ovunque, ogni giorno, ogni ora. Morire è l'evento umano più generale, qualcosa che tutti dobbiamo sperimentare. Ma moriamo bene? La nostra morte è qualcosa di più che un destino inevitabile, qualcosa che semplicemente non vorremmo esistesse? Può diventare in qualche modo l'atto di una realizzazione, forse più umana di ogni altro atto umano?

Quando quel giorno di dicembre arrivai al Terminal II dell’aeroporto internazionale Pearson di Toronto, Nathal Ball mi aspettava. In automobile mi parlò della morte di Moe. La famiglia e gli amici gli erano stati accanto nelle ultime ore, e vi era stata sia tristezza che gioia. Un buon amico ci aveva lasciato, una lunga sofferenza era giunta a una dolce fine. «Moe era tanto amato da tutti», disse Nathan. «Ci mancherà, ma per lui era tempo di andare».

I giorni che seguirono furono ricolmi di dolore e di gioia, Moe era morto, ma sembrava che una nuova vita fosse diventata improvvisamente visibile. Si telefonò agli amici lontani; si scrissero delle lettere. Più di ogni cosa, la gente si riuniva per pregare, per mangiare insieme, narrare delle storie, guardare delle fotografie: per ricordare con sorrisi e lacrime. Di tutti i giorni che ho trascorso a Daybreak, quelli dopo la morte di Moe appartengono ai più intimi, i più uni- ti, e in uno strano modo i più sacri. Un uomo che ci aveva aiutato, attraverso la sua fragilità e la sua debolezza, a creare una comunità durante la sua vita, lo faceva ancora di più attraverso la sua morte. Riunendoci nella nostra cappella, visitando la camera ardente, cantando ed esprimendo la nostra gratitudine nella chiesa anglicana di Richmond Hill, portando la bara alla tomba del cimitero di King City, condividevamo il senso profondo che non solo la vita conduce alla morte, ma che la morte conduce a una nuova vita. Lo spirito di dolcezza e di bontà che circondava e pervadeva le nostre conversazioni, lo spirito di perdono e di guarigione che toccava ciascuno di noi, e più di tutto lo spirito di unità e di comunione che ci legava in modo nuovo, quello spirito fu ricevuto con riconoscenza come un dono di Moe che era morto, eppure era così vivo.

La sera prima del mio ritorno in Europa per festeggiare di compleanno di mio padre e per tornare poi a scrivere a Friburgo, pranzai con Nathan, un amico, da lungo tempo membro di Daybreak, e Sue Mosteller. Durante il pasto Nathan mi chiese: «Dove e come vuoi morire?». Aveva posto la domanda con dolcezza, era una domanda che sorgeva dalla nostra consapevolezza che, come Moe, saremmo presto morti anche noi. La nostra consapevolezza ci spingeva a chiederci: ci prepariamo per la nostra morte o ignoriamo morte tenendoci occupati? Ci aiutiamo morire, o presumiamo semplicemente che saremo sempre presenti l'uno per l'altro? La nostra morte darà nuova vita, nuova speranza e nuova fede ai nostri amici, o non sarà altro che un'ulteriore causa di tristezza? La domanda essenziale non è: «Quanto saremo capaci di fare durante i pochi anni che a vivere», ma piuttosto: «Come possiamo prepararci alla nostra morte così che il nostro morire sia per noi un nuovo modo di inviare il nostro spirito e lo spirito di Dio a quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato?».

La domanda di Nathan, «dove e come vuoi morire?», mi ha posto faccia a faccia con una grande sfida: non soltanto vivere bene, ma anche morire bene.

Il giorno successivo, mentre andavamo in macchina all'aeroporto, Nathan mi ringraziò per essere tornato per il funerale di Moe e mi augurò una bella festa per il compleanno di mio padre e un mese creativo di lavoro a Friburgo. Mentre volavamo verso Amsterdam, mi resi conto che sapevo meglio di prima che cosa avrei scritto. Volevo scrivere di come farmi amica la morte, affinché possa diventare il mio dono migliore al mondo che amo così tanto.

Ora, dopo molte feste in Olanda e un lungo viaggio in treno attraverso la Germania, sono di nuovo solo nel mio piccolo, tranquillo e solitario apparta- mento di Friburgo. Quale posto migliore per farsi amica la morte?

Introduzione

La grazia nascosta nell'impotenza

Non è mai stato facile per me trovare un posto tranquillo per scrivere. Sono andato in conventi, monasteri e ritiri, e ho anche provato a rimanere a casa con la porta chiusa; ma dovunque ho cercato la solitudine sono stato ben presto riafferrato dagli eventi quotidiani intorno a me. La mia stessa inquietudine, il mio bisogno di compagnia e la mia paura di essere respinto e abbandonato mi hanno fatto fuggire la solitudine appena l'ho trovata. La mia resistenza alla solitudine si dimostrava altrettanto forte del desiderio che ne avevo. Ho trovato sempre di nuovo delle scuse per parlare con la gente, tenere conferenze, predicare sermoni, presiedere liturgie, partecipare a celebrazioni, o vagare nelle biblioteche. Ho insomma trovato delle scuse per non essere solo.

Eppure, ho sempre saputo che un giorno avrei dovuto trovare il coraggio di andare oltre le mie paure, avrei dovuto aver fiducia di poter scoprire nella, solitudine il mio vero maestro, che mi avrebbe suggerito le parole da scrivere.

Ora ho la mia occasione. Franz e RenyJohna, i miei amici di Friburgo, mi hanno offerto il terzo piano, che è l'ultimo della loro casa nella Schubert Strasse. Ai primi piani abitano loro e il terzo viene tenuto libero di solito per i due figli, Robert e Irene. Robert si è però trasferito negli Stati Uniti, dove si sta specializzando in medicina interna, e Irene abita a Francoforte, dove lavora presso la Bundesbank. «Puoi sistemarti al terzo piano», mi avevano detto Franz e Reny. «È un vero eremo, lontano dalla gente e dagli avvenimenti di ogni giorno, assolutamente a prova di rumore e impenetrabile alla luce». Il terzo piano della casa di Franz e Reny è davvero il luogo ideale per un eremo in città. C'è tutto quello che una persona solitaria può desiderare: uno studio, una camera da letto, un piccolo soggiorno che ho trasformato in cucina, e una stanza da bagno.

Così adesso ho tutto quello che ho sempre sognato di avere: completo silenzio, completa solitudine. Quando abbasso le tende, la mia stanza da letto è nera come la pece e non si sente neppure passare un'automobile. Tutto diventa assolutamente quieto.

Questa quiete è purificatrice. Per quanto strano possa sembrare, la tranquillità esteriore rivela ben presto l'inquietudine interiore. Che cosa fare quando non c'è nulla da fare? Che cosa fare quando non c'è nessuno a richiedere la mia attenzione, o a invitarmi, o a farmi sentire che sono importante? Senza telefonate, lettere e incontri i minuti, le ore, i giorni si stendono in un deserto di solitudine privo di orizzonti. Non è forse questo il posto più propizio in cui farsi amica la morte? Non è forse il luogo in cui il silenzio esterno a poco a poco mi porta al silenzio interiore, dove posso abbracciare la mia propria mortalità? Sì, il silenzio e la solitudine mi invitano a lasciar svanire a poco a poco le voci esterne che mi danno un senso di benessere tra gli altri umani, a confidare nella voce interiore che mi rivela il mio vero nome. Il silenzio e la solitudine mi invitano a liberarmi dall'impalcatura della vita quotidiana e a scoprire che cosa rimane a se stante quando i tradizionali sistemi di sostegno sono venuti meno.

Standomene solo nel mio piccolo eremo mi rendo conto di quanto sia impreparato a morire. Il silenzio e la solitudine di questo confortevole appartamento sono sufficienti a rendermi consapevole che non sono disposto ad abbandonare la vita. Eppure, presto dovrò morire. I dieci, venti o trent'anni che mi rimangono voleranno via rapidamente. Un po' alla volta il mio corpo perderà la sua forza e la mia mente la sua flessibilità; familiari e amici verranno a mancare; sarò via via meno importante per la società e sarò dimenticato dai più; dovrò dipendere sempre più dall'aiuto degli altri e, alla fine, dovrò abbandonare ogni cosa ed essere trasportato nell'ignoto assoluto.

Sono pronto per questo viaggio?

Sono pronto ad abbandonare qualunque potere mi sia rimasto, ad aprire la mano e a confidare nella grazia nascosta nella completa impotenza? Non lo so. Veramente non lo so. Sembra impossibile, dato che tutto quello che in me è vivo protesta contro questo viaggio nel nulla. So però che il silenzio e la solitudine del mio appartamentino di Friburgo mi offrono l'opportunità migliore che mai abbia avuto di interrogarmi sulla mia capacità di arrendermi alla morte.

Credo che in qualche modo questo compito solitario di farmi amica la morte non sia un compito utile soltanto per me, ma possa anche servire agli altri. Ho vissuto la mia vita intera col desiderio di aiutare gli altri nel loro cammino, ma mi sono sempre reso conto che avevo poco altro da offrire tranne il mio, il cammino che io stesso sto percorrendo. Come posso annunciare gioia, pace, perdono e riconciliazione se esse non fanno parte della mia carne e del mio sangue? Ho sempre voluto essere un buon pastore per gli altri, ma ho anche sempre saputo che i buoni pastori depongono la propria vita - le loro pene e le loro gioie, i loro dubbi e le loro speranze, le loro paure e il loro amore - per i loro amici.

Ormai sessantenne, cercando di venire a patti con la mia propria mortalità, ho fiducia che il mio tentativo di farmi amica la morte, come tutto ciò che ho vissuto, sarà buono non solo per me, ma anche per gli altri che affrontano una sfida analoga. Voglio morire bene, ma desidero anche aiutare gli altri a morire bene. In questo modo, non sono solo nel mio appartamentino nella Schubert Strasse di Friburgo. Sono in realtà circondato da persone che muoiono e che sperano di morire bene. Voglio che il mio silenzio e la mia solitudine siano per i miei amici e per gli amici dei miei amici. Voglio che il mio desiderio di abbracciare la mia propria mortalità aiuti altri ad abbracciare la loro. Voglio che il mio piccolo eremo sia veramente nel mondo e per il mondo.

Ho cinque settimane davanti a me in questo rifugio: cinque settimane per pregare, pensare e scrivere sul morire e sulla morte: la mia e quella degli altri. Il mio compito ha due aspetti: primo, devo scoprire che cosa significa farmi amica la mia propria morte. Secondo, devo scoprire come posso aiutare altri a farsi amica la loro. Quando sarò capace di farmi amica la morte potrò anche aiutare gli altri a fare lo stesso. È questo il compito di questo piccolo libro. Scriverò prima del morire bene, e poi di come aiutare gli altri a morire.

parte prima

MORIRE BENE

Vicino al cuore

Quando siamo bambini abbiamo bisogno di genitori, insegnanti e amici che c'insegnino il significato della nostra vita. Una volta cresciuti, camminiamo con le nostre gambe; allora diventiamo noi stessi la fonte principale della conoscenza e ciò che diciamo agli altri sulla vita e sulla morte deve scaturire da ciò che è veramente nostro. Grandi pensatori e grandi santi hanno scritto e parlato del morire e della morte, ma quelle parole rimangono unicamente loro. Io devo trovare le mie proprie parole, affinché ciò che dico venga dal profondo della mia esperienza. Quantunque molte persone abbiano influenzato tale esperienza, nessun altro l'ha vissuta: in questo sta il suo potere, ma anche la sua debolezza. Devo avere fiducia che la mia esperienza della mortalità mi dia parole che possano parlare a coloro che lottano per dare significato alla propria vita e alla propria morte; devo anche accettare che molti non siano in grado di accogliere quello che ho da dire, semplicemente perché non possono vedere quello che ho da dire, semplicemente perché non possono vedere il nesso tra la loro vita e la mia.

Nei primi tre capitoli di questo libro parlerò del morire bene. Scandaglierò nelle fibre più intime del mio essere ciò che significa che noi esseri umani siamo figli di Dio, fratelli e sorelle ciascuno dell'altro e padri e madri delle generazioni che verranno.

Starò vicino al mio stesso cuore, ascoltando attentamente ciò che ho udito e sentito. Starò anche vicino al cuore di quelli che con le loro gioie e le loro pene mi toccano in questo periodo della mia vita. Più di tutto, starò vicino al cuore di Gesù, la cui vita e la cui morte sono la fonte essenziale per comprendere e vivere la mia vita e la mia morte.

1

Siamo figli di Dio

Quando ho compiuto sessant'anni la comunità di Daybreak ha dato per me una grande festa. Più di cento persone si sono riunite per festeggiarmi. John Bloss era lì, sempre ansioso di avere un ruolo da protagonista. John è pieno di buoni pensieri, ma il suo handicap gli rende penosamente difficile esprimere in parole questi pensieri; e tuttavia egli ama parlare, specialmente quando ha un uditorio interessato.

Eravamo tutti seduti in un grande cerchio e Joe, che fungeva da maestro delle cerimonie, disse: «Bene, John, che cosa hai da dire a Henri oggi?». John, che ama fare spettacolo, si alzò, si mise al centro del cerchio, mi indicò e cominciò a cercare le parole: «Tu... tu...sei, ehm... ehm». Tutti lo guardavano con grande curiosità mentre cercava di trovare le parole e indicava sempre più direttamente verso di me. «Tu... tu... sei... ehm, ehm». E poi, come una esplosione, le parole vennero fuori: «Un vecchio!». Tutti scoppiarono a ridere e John si crogiolò nel successo della sua esibizione.

Non c'era altro da dire: ero diventato «un vecchio». Poche persone lo direbbero in modo così diretto e continuerebbero a fare riserve dicendo che sembri giovane, pieno di energia, e così via. John l'aveva detto semplicemente e sinceramente: «Sei un vecchio».

Sembra giusto dire che le persone di età tra uno e trent' anni sono considerate giovani, quelle tra trenta e sessant'anni di mezz'età e quelle dopo il loro sessantesimo compleanno sono considerate vecchie. Ma poi tu, proprio tu, hai improvvisamente sessant'anni, e non ti senti vecchio. Almeno io non mi sento così. Gli anni della mia adolescenza mi sembrano appartenere a un passato recente, gli anni dello studio e del- l'insegnamento sembrano soltanto ieri e i miei sette anni a Daybreak paiono come sette giorni. Non mi viene spontaneo pensare a me come a un «vecchio»; bisogna che me lo si annunci chiaramente e a voce alta.

Qualche anno fa uno studente universitario mi parlò così di suo padre: «Papà non mi capisce», mi disse. «È così autoritario, e vuole sempre avere ragione; non lascia mai spazio alle mie idee, ed è difficile vivere con lui». Cercando di confortarlo, gli dissi: «Mio padre non è molto diverso dal tuo, sai, è la vecchia generazione!». Allora, con un sospiro, lui replicò: «Sì, papà ha già quarant'anni!». Mi resi allora conto al- l'improvviso che stavo parlando a qualcuno che avrebbe potuto essere mio nipote.

In verità, in qualche modo continuo a dimenticare che sono diventato vecchio e che i giovani mi considerano una persona anziana. Ogni tanto mi è di aiuto guardarmi allo specchio. Fissando il mio volto, rivedo mio padre e mia madre quando avevano sessant' anni, e ricordo che li consideravo vecchi.

Essere vecchio significa essere vicino alla morte. In passato cercavo spesso di figurarmi se avrei ancora raddoppiato gli anni che avevo vissuto. Quando avevo vent'anni ero sicuro che avrei vissuto almeno altri vent'anni; quando ne ebbi trenta, avevo fiducia che avrei raggiunto facilmente i sessanta. Quando ne ebbi quaranta mi chiedevo se avrei raggiunto gli ottanta. E quando ne ho avuti cinquanta mi sono reso conto che soltanto poche ,persone raggiungono i cento anni. Ma ora, a sessant’anni, sono certo che sono andato al di là della linea di mezzo e che la mia morte mi è molto più vicina della mia nascita.

Gli anziani, uomini e donne, devono prepararsi alla morte, ma come prepararvisi bene? Per me, il primo compito è quello di tornare bambino, di reclamare la mia infanzia. Questo potrebbe apparire opposto al nostro desiderio naturale di mantenere il massimo d'indipendenza, e tuttavia diventare un bambino -entrare in una seconda infanzia -è essenziale per morire di una buona morte.. Gesù parlava di questa seconda infanzia quando diceva: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3 ).

Che cos'è che caratterizza questa seconda infanzia? Per i primi vent' anni di vita dipendiamo dai genitori, dagli insegnanti e dagli amici. Quarant'anni dopo diventiamo di nuovo sempre più dipendenti. Più tenera è la nostra età e più sono le persone di cui abbiamo bisogno per vivere; più diventiamo vecchi e, di nuovo, più sono le persone di cui abbiamo bisogno per vivere. La vita viene vissuta passando da una dipendenza a un'altra dipendenza.

È questo il mistero che Dio ci ha rivelato in Gesù: la sua vita è stata un cammino dalla mangiatoia alla croce. Nato in completa dipendenza da coloro che lo circondavano, Gesù morì come la vittima passiva del- le azioni e delle decisioni degli altri. Il suo è stato un cammino dalla prima alla seconda infanzia. È divenuto come un bambino ed è morto come un bambino, e ha vissuto la sua vita affinché noi potessimo pretendere e reclamare la nostra propria infanzia e fare così della nostra morte -come lui ha fatto -una nuova nascita.

Sono stato benedetto da un'esperienza che mi ha reso chiaro tutto questo. Alcuni anni fa fui investito da un'automobile mentre camminavo lungo una strada e fui portato all'ospedale con la milza spappolata. La dottoressa mi disse che non era sicura se sarei sopravvissuto all'operazione. In realtà la superai, ma le ore vissute prima e dopo l'intervento mi hanno permesso di entrare in contatto con la mia infanzia come non era mai avvenuto prima.

Legato con delle cinghie a un tavolo che sembrava una croce, circondato da figure mascherate, sperimentai la mia totale di- pendenza. Mi resi conto non soltanto che dipendevo dalle capacità di una equipe di medici sconosciuti, ma anche che il mio essere più profondo era un essere dipendente. Seppi, con una certezza che non aveva niente a che fare con una particolare intuizione umana, fossi sopravvissuto o meno all'intervento, che ero al sicuro in un divino abbraccio e sarei certamente vissuto.

Quello strano incidente mi ha ridotto a una condizione infantile, in cui dovevo essere accudito come un bambino impotente, un'esperienza che mi ha dato un grande senso di sicurezza: l'esperienza di essere un figlio di Dio. Seppi all'improvviso che tutte le dipendenze umane sono inserite in una dipendenza divina e che la dipendenza divina fa parte di un modo molto più grande e ampio di vivere. Questa esperienza fu così reale, così fondamentale e così incisiva che cambiò radicalmente il senso del mio io e influenzò profondamente il mio stato di coscienza. Vi è qui uno strano paradosso: la dipendenza dalle persone spesso porta alla schiavitù, ma la dipendenza da Dio porta alla libertà. Quando sappiamo che Dio ci tiene in salvo - qualunque cosa accada - non abbiamo da temere nulla e nessuno e possiamo camminare nella vita con immensa fiducia. È.una prospettiva radicale: siamo abituati a pensare ai modi in cui la gente viene oppressa e sfruttata come ai segni della loro dipendenza, e quindi percepiamo la vera libertà soltanto come il risultato dell'indipendenza. Quando affermiamo la nostra più intima dipendenza da Dio non come una maledizione, ma come un dono, allora possiamo scoprire la libertà dei figli di Dio. Questa profonda libertà interiore ci permette di affrontare i nostri nemici, di scuotere il giogo dell'oppressione e di costruire delle strutture sociali ed economiche che ci permettano di vivere come fratelli e sorelle, come figli dell'unico Dio, il cui nome è amore. Questo io credo, è il modo in cui Gesù ha parlato della libertà. È la libertà radicata nell' essere figli di Dio.

Siamo gente che ha paura: abbiamo paura del conflitto, della guerra, di un futuro incerto, della malattia e, più di tutto, della morte. Questa paura ci toglie la nostra libertà e dà alla nostra società il potere di manipolarci con minacce e promesse. Quando possiamo andare al di là dei nostri timori, verso Colui che ci ama con un amore che era là prima che fossimo nati e sarà là dopo la nostra morte, allora l'oppressione, la persecuzione e anche la morte non potranno toglierci la nostra libertà. Quando siamo giunti alla profonda conoscenza interiore - una conoscenza più del cuore che della mente -che siamo nati dall'amore e moriremo nell' amore, che ogni parte del nostro essere è profondamente radicata nell'amore e che quest'amore è il nostro vero Padre e la nostra vera Madre, allora tutte le forme del male, della malattia e della morte perdono il loro potere ultimo su di noi e diventano segni dolorosi ma pieni di speranza della nostra vera figliolanza divina. L'apostolo Paolo esprimeva tale esperienza della totale libertà quando scriveva: "Io sono infatti persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rom 8,38-39).

Il primo compito, nel prepararci alla morte, è quindi quello di reclamare la libertà dei figli di Dio e, così facendo, spogliare la morte di ogni ulteriore potere su di noi. La parola bambino presenta dei problemi: suggerisce piccolezza, debolezza, ingenuità e immaturità. Ma quando dico che dobbiamo crescere verso una seconda infanzia, io non intendo una seconda immaturità. Al contrario, penso alla maturità dei figli e delle figlie di Dio, dei figli e delle figlie scelti per ereditare il Regno. Non vi è nulla di piccolo, di debole o di ingenuo nell'essere figli di Dio. Questa elezione ci permette in realtà di mantenere alta la testa alla presenza di Dio, anche quando camminiamo attraverso un mondo che si disgrega da ogni parte. Come figli e figlie di Dio possiamo oltrepassare i cancelli della morte con la fiducia degli eredi. Di nuovo, Paolo lo proclamava ad alta voce quando diceva: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli [e figlie] di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi .per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ' Abbà, Padre! '. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8,14-17).

Questa non è la voce di un bambino, piccolo e timido. È la voce di una persona spiritualmente matura, che sa di essere alla presenza di Dio e per la quale la completa dipendenza da Dio è diventata la fonte della forza, la base del coraggio e il segreto della vera libertà interiore.

Di recente un amico mi ha raccontato la storia di due gemelli che si parlavano nell'utero materno. La sorella diceva al fratello: «lo credo che vi sia una vita dopo la nascita». il fratello protestava violentemente: «No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre». La sorellina insisteva: «Dev'esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Dev'esserci qualcos'altro, un luogo di luce, dove c'è la libertà di muoversi». Ma non riusciva a convincere il fratello.

Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: «Ho qualcos'altro da dire, e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che vi sia una madre». il fratello s'infuriò: «Una madre?», gridò. «Ma di che cosa parli? Non ho mai visto una madre, e nemmeno tu. Chi ti ha messo in testa questa idea?

Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sempre qualcosa di più? non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, accontentiamoci, dunque».

La sorella fu ridotta al silenzio dalla risposta del fratello e per un po' di tempo non osò dire più nulla. Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri, e dato che aveva soltanto il fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: «Non senti ogni tanto degli spasimi? Non sono piacevoli e qualche volta fanno male». «Sì», rispose lui. «Che cosa c'è di particolare in questo?». «Bene», disse la sorella, «io penso che questi movimenti ci siano per prepararci a un altro luogo, molto più bello di questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra meraviglioso?». Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente ignorarla e sperare che l'avrebbe lasciato in pace.

Questa storia può insegnarci a pensare alla morte in modo nuovo. Possiamo vivere come se la vita fosse tutto ciò che abbiamo, come se la morte fosse assurda e noi faremmo meglio a non parlarne; oppure possiamo scegliere di reclamare la nostra divina infanzia e figliolanza e confidare che la morte è il passaggio doloroso ma benedetto che ci porterà faccia a faccia col nostro Dio.

2.

Siamo fratelli e sorelle l’uno per l’altro

Due delle gioie più grandi che sperimentiamo sono la gioia di essere diversi dagli altri e la gioia di essere uguali agli altri. Ho assistito alla prima di queste gioie guardando alla televisione le Olimpiadi dell'estate 1992 a Barcellona. Quelli che stavano sulla tribuna per ricevere le loro medaglie di bronzo, d' argento e d'oro sperimentavano la gioia come diretto risultato della loro capacità di correre più veloci, di saltare più in alto o di lanciare più lontano degli altri. La differenza poteva essere molto piccola, ma aveva grande significato: era la distinzione tra la sconfitta e la vittoria, tra la tristezza delle lacrime e l'estasi della gioia. È la gioia dell'eroe e del divo, la gioia che proviene da una competizione superata con successo, dal vincere il premio, ricevendo gli onori e incedendo nelle luci della ribalta.

Conosco anch'io questa gioia. L'ho conosciuta ricevendo un premio a scuola, essendo scelto come capo della mia classe, ottenendo un incarico all'università, vedendo pubblicati i miei libri e ricevendo lauree ad honorem. Conosco l'immensa soddisfazione che viene dall'essere considerati diversi dagli altri. Questo tipo di successo disperde i dubbi interiori e alimenta la fiducia in se. È la gioia d' «avercela fatta», la gioia di essere riconosciuti come chi ha fatto qualcosa d'importante. Tutti noi ci aspettiamo questa gioia, in qualche luogo o in qualche modo; ma resta la gioia di colui che disse: «Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini» (Lc 18,11).

L' altro tipo di gioia è più difficile da descrivere, ma più facile da trovare. È la gioia di essere fratello e sorella di tutti. Nonostante questa gioia sia più a portata di mano -più accessibile -della gioia di essere diversi, non è altrettanto ovvia e solo poche persone la trovano veramente. È la gioia di far parte di quel- la grande varietà di esseri umani - di tutte le età, i colori e le religioni - che insieme formano la famiglia umana. È l'immensa gioia di essere un membro della razza umana.

In vari momenti della mia vita ho gustato questa gioia. L'ho sentita nel modo più forte ne11964, mentre camminavo con migliaia di persone in Alabama, da Selma a Montgomery, nella marcia per i diritti civili guidata da Martin Luther King, Jr. Non dimenticherò mai la gioia che ho provato in quella marcia. Ero venuto da solo, nessuno mi conosceva -nessuno aveva mai sentito parlare di me - ma mentre camminavamo insieme, mettendo il braccio sulla spalla dell'altro e cantando «We shall overcome one day», ho sperimentato una gioia che non avevo mai provato nella mia vita. Mi dicevo: «Sì, appartengo a questa gente, sono il mio popolo. Forse hanno un colore diverso di pelle, una religione diversa, un diverso stile di vita, ma sono i miei fratelli e le mie sorelle. Mi amano e io li amo. I loro sorrisi e le loro lacrime sono i miei sorrisi e le mie lacrime; le loro preghiere e le loro profezie sono le mie preghiere e le mie profezie; la loro angoscia e la loro speranza sono la mia angoscia e la mia speranza. Sono uno di loro».

In un attimo tutte le differenze parvero sciogliersi come neve al sole. Tutti i miei tentativi di fare paragoni scomparvero e mi sentii circondato dalle braccia accoglienti dell'intera umanità. Ero consapevole che alcune delle persone che tenevo per mano avevano passato anni in prigione, erano drogati o alcolizzati, soffrivano di solitudine e di depressione, vivevano esistenze radicalmente diverse dalla mia, ma tutti mi sembravano dei santi, raggianti dell' amore di Dio. Erano veramente il popolo di Dio, immensamente amato e radicalmente perdonato. Tutto quel che sentivo era una profonda identificazione, una profonda comunione con tutti, un esaltante senso di fraternità e di sorellanza.

Sono convinto che è questa gioia - la gioia di essere come gli altri, di appartenere all'unica famiglia umana - che ci consente di morire bene. Non so come io, o chiunque altro di noi, potrebbe essere preparato a morire se ci si preoccupasse soprattutto dei trofei raccolti durante i nostri anni migliori. Il grande dono nascosto nel nostro morire è il dono dell'unità con tutti. Per quanto differenti, siamo tutti nati impotenti, e tutti moriremo impotenti, e le piccole differenze che viviamo tra questi due fatti svaniscono alla luce di questa immensa verità. Spesso questa verità umana viene presentata come una ragione di tristezza. Non di rado la si chiama una «triste verità».

La nostra grande sfida e scoprire in questa verità una immensa fonte di gioia, che ci lascerà liberi di abbracciare la nostra mortalità con la consapevolezza che compiremo il nostro passaggio alla nuova vita in solidarietà con tutte le genti della terra.

Una buona morte è una morte in solidarietà con gli altri. Per prepararci a una buona morte, dobbiamo sviluppare o approfondire questo senso di solidarietà. Se andiamo verso la morte come verso un evento che ci separa dalla gente, la morte non può essere altro che un evento triste e doloroso; ma se cresciamo nella consapevolezza che la nostra mortalità, più di qualsiasi altra cosa, ci condurrà alla solidarietà con gli altri, allora la morte può diventare la celebrazione della nostra unità con la razza umana. Anziché separarci dagli altri, la morte può unirci agli altri; anziché essere triste, può far sorgere una nuova gioia; anziché porre semplicemente termine alla vita, può iniziare qualcosa di nuovo.

A prima vista potrebbe sembrare assurdo. Come può la morte creare unità anziché separazione? La morte non è forse la separazione ultima? Lo è, se viviamo secondo le norme di una società competitiva, sempre preoccupata della domanda: chi è il più forte? Ma quando reclamiamo la nostra divina figliolanza e impariamo a confidare nel fatto che appartenevamo a Dio prima di nascere e gli apparterremo dopo la nostra morte, allora sperimenteremo che tutti su questo pianeta sono i nostri fratelli e sorelle e tutti compiamo insieme il nostro viaggio attraverso la nascita e la morte verso una nuova vita. Non siamo soli; al di là delle differenze che ci separano, condividiamo una comune umanità e quindi ci apparteniamo a vicenda. Il mistero della vita è che scopriamo questo nostro essere insieme non quando siamo potenti e forti, ma quando siamo vulnerabili e deboli.

La conoscenza esperienziale che tutti morremo ci riempie di una profonda gioia e ci rende possibile affrontare la morte liberamente e senza paura. Possiamo dire non soltanto: «È bello vivere come chiunque altro», ma anche: «È bello morire come chiunque altro». Alcuni di noi muoiono presto, altri più tardi; alcuni dopo una breve esistenza, altri dopo una lunga vita; alcuni dopo una malattia, altri improvvisamente e in modo inatteso. Ma tutti noi morremo e parteciperemo alla stessa fine. Alla luce di questa grande uguaglianza umana le tante differenze in cui viviamo e moriamo non sono più un motivo per separarci, ma al contrario, possono approfondire il nostro senso di comunione vicendevole. Questa comunione con l'intera famiglia umana, questo profondo senso di appartenersi a vicenda, toglie alla morte il suo pungiglione e ci fa volgere lo sguardo molto al di là dei limiti della nostra cronologia. In qualche modo sappiamo che il nostro vincolo reciproco è più forte della morte.

Tocchiamo qui il centro del messaggio di Gesù. Gesù non è venuto semplicemente a distoglierci da questo mondo, promettendoci una nuova vita dopo la morte. È venuto a renderci coscienti che come figli del suo Dio siamo tutti fratelli e sorelle, tutti fratelli e sorelle 1'uno dell'altro; possiamo quindi vivere la nostra vita insieme senza paura della morte. Egli vuole non soltanto che partecipiamo alla sua divina figliolanza, ma anche che godiamo pienamente la fraternità e la sorellanza che emerge da questa figliolanza condivisa. Egli ci dice: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi» (Gv 15,9), e «amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato» (Gv 13,34).

L' autore del vangelo di Giovanni, scrivendo molti anni dopo la morte di Gesù, indicava chiaramente l'intimo nesso tra il nostro essere figli di Dio e il nostro essere fratelli e sorelle gli uni degli altri. Egli diceva: «Noi ci amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: "lo amo Dio" le odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1 Gv 4,19-21).

La gioia di questa fraternità e sorellanza ci permette di morire bene, perché non dobbiamo più morire soli, ma possiamo morire in intima solidarietà con tutti gli esseri umani di questo pianeta. Questa solidarietà offre speranza.

In modo misterioso, coloro che muoiono in tutto il mondo a causa della fame, dell'oppressione, della malattia, della disperazione, della violenza e della guerra diventano i nostri maestri. In Somalia e in Etiopia muoiono dei bambini. Come loro fratelli e sorelle dobbiamo aiutarli a vivere, ma dobbiamo anche comprendere che moriremo come loro. In Bosnia muoiono musulmani, croati e serbi. Come loro fratelli e sorelle dobbiamo fare di tutto per impedire che si uccidano a vicenda, ma dobbiamo anche rimanere consapevoli che moriremo come loro. In Guatemala muoiono gli indios. Come loro fratelli e sorelle dobbiamo impegnarci per fermare i loro oppressori nella loro opera omicida, ma dobbiamo anche affrontare il fatto che moriremo come loro. In molti paesi giovani e vecchi muoiono di cancro e di AIDS. Come loro fratelli e sorelle dobbiamo prenderci cura di loro nel miglior modo possibile e continuare a cercare nuove cure, ma non dobbiamo mai dimenticare che moriremo come loro. Innumerevoli uomini e donne muoiono per la povertà e l'abbandono. Come loro fratelli e sorelle dobbiamo offrir loro le nostre risorse e il nostro sostegno, ma dobbiamo ricordare continuamente a noi stessi che moriremo come loro.

Nella loro immensa pena e nel loro dolore queste persone chiedono solidarietà, non solo nella vita, ma anche nella morte. Solo quando saremo disposti a la- sciare che il loro morire ci aiuti a morire bene potremo aiutare loro a vivere bene. Quando possiamo affrontare la morte con speranza, possiamo vivere la vita con generosità.

Tutti moriamo poveri. Quando giungiamo alla nostra ultima ora, niente può aiutarci a sopravvivere, nessuna quantità di denaro o di influenza possono salvarci dal morire. Questa è vera povertà. Ma Gesù diceva: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Vi è una benedizione nascosta nella povertà del morire. È la benedizione che ci fa sorelle e fratelli nello stesso regno. È la benedizione che riceviamo da quelli che muoiono. È la benedizione che diamo agli altri quando il nostro momento di morire è venuto. È la benedizione che viene dal Dio la cui vita è eterna. È la benedizione che va molto al di là della nostra nascita e della nostra morte. È la benedizione che ci porta in salvo di eternità in eternità.

Un'amica, che era molto malata, aveva una grande devozione per Maria, la madre di Gesù, e decise di fare un pellegrinaggio a Lourdès, in Francia, per chiedere la guarigione. Quando partì, temevo che sarebbe rimasta delusa se non avveniva nessun miracolo, ma al suo ritorno mi disse: «Non avevo mai visto tanta gente malata. Quando mi sono trovata faccia a faccia con quella sofferenza umana non ho più desiderato un miracolo. Non volevo più essere una eccezione, e ho sperimentato un profondo desiderio di essere una di loro, di appartenere a questa gente ferita. Anziché pregare per la mia guarigione, ho pregato per avere la grazia di portare la mia malattia in solidarietà con loro. E ho fiducia che la madre di Gesù porterà la mia preghiera a suo Figlio».

Fui profondamente commosso da questo mutamento radicale nelle preghiere della mia amica. Lei che aveva sperato di essere diversa da tutti coloro che sono malati, voleva ora essere come loro e vivere la sua pena come loro sorella nella sofferenza.

Questa storia rivela il potere risanatore dell'esperienza della solidarietà umana. Questo potere di guarigione ci aiuta non soltanto a vivere bene la nostra malattia, ma anche a morire bene. In verità possiamo essere guariti dalla nostra paura della morte, non da un evento miracoloso che ci impedisca di morire, ma dall'esperienza di guarigione dell'essere fratello o sorella di tutti gli esseri umani - passati, presenti e futuri - che condividono con noi la fragilità della nostra esistenza. In questa esperienza possiamo gustare la gioia di essere umani e pregustare la nostra comunione con tutti.

3.

Siamo padri e madri delle generazioni future

Marina, mia cognata, ha solo quarantotto anni, e sta morendo. Cinque anni fa il suo dottore le disse che ha un cancro, e da allora la sua vita è stata un lungo e doloroso tentativo di combattere la malattia e di sopravvivere ai tanti interventi medici. Con tre gravi interventi chirurgici e molta chemioterapia i medici hanno cercato di rimuovere il cancro e di prolungare la vita di Marina.

Mio fratello Paolo ha fatto tutto il possibile per offrire a sua moglie la speranza che vi era una possibilità di sconfiggere il nemico. Mentre scrivo, Marina si sta preparando a morire.

Negli ultimi cinque anni ho avuto spesso l'opportunità di parlare con Marina della sua malattia, e anche della sua morte. Marina è una donna forte e senza sentimentalismi. Le piace guardare alle cose come sono e non ha tempo per chi cerca di confortarla o consolarla con povere bugie. Pur avendo collaborato pienamente con i dottori e le infermiere che l’hanno aiutata a combattere il cancro, non vuole che nessuno prenda decisioni alle quali non possa partecipare pienamente, e non vuole nessun sostegno religioso basato su convinzioni religiose che non siano le sue. Spesso discute le mie vedute spirituali e ha forti idee sulla vita e la morte: la sua morte e la morte degli altri.

Col passare degli anni e il peggiorare della sua malattia, Marina si è espressa sempre più attraverso la pittura e la poesia. Queste attività, iniziate come un passatempo, sono diventate gradualmente per lei la sua attività principale. Più diventava debole fisicamente e più forte, più diretto e meno adorno diventava il suo stile. Le sue poesie sono il risultato diretto della sua lotta per farsi amica la morte.

Marina ha avuto una esistenza attiva e produttiva. Come insegnante e condirettrice di una scuola di lingue, si è costruita una carriera e ha introdotto con creatività nuovi metodi didattici; ma la malattia ha crudelmente interrotto tutto questo e l'ha costretta ad abbandonare il mondo che amava tanto. Da quando è cominciata la sua malattia, l'arte ha sostituito le sue molte attività educative ed è diventata per lei una nuova fonte di vita. Spesso, quando sono con lei, mi recita a memoria le sue poesie e mi chiede cosa ne penso. Molte di esse hanno un tono scherzoso e sono scritte con umorismo, ma tutte esprimono la sua crescente consapevolezza che ogni giorno deve abbandonare qualcosa

e che sta entrando in un tempo di molteplici addii.

Vedendo Marina prepararsi alla sua morte, mi sono reso conto gradualmente che sta facendo del suo morire un dono per gli altri: non soltanto per mio fra- tello Paolo, non soltanto per la sua famiglia e gli amici, ma anche per le infermiere e i dottori e per tutta la cerchia di persone con le quali ha parlato e ha condiviso la sua poesia. Avendo insegnato tutta la vita, ora insegna attraverso la sua preparazione alla morte. Mi colpisce il fatto che i suoi successi e le sue realizzazioni saranno probabilmente presto dimenticati, ma i frutti del suo morire potranno invece durare per lungo tempo. Marina non ha figli e si è spesso chiesta quale avrebbe potuto essere il suo apporto specifico alla nostra società. Non avendo avuto le gioie della maternità, è diventata genitrice di molti attraverso il cammino che sta vivendo verso la sua morte. Forse si vedrà che gli ultimi cinque anni appartengono al periodo più fecondo della sua vita. Mi ha mostrato, in modo completamente nuovo, che cosa significa morire per gli altri: significa diventare madre delle generazioni future.

Poche delle parole di Gesù mi hanno personalmente colpito quanto le parole sulla sua morte che si approssimava. Gesù parlò in modo molto diretto della fine ai suoi amici più intimi, e pur sapendo quale dolore e tristezza avrebbe portato, continuò ad annunciare la sua morte come qualcosa di buono, pieno di benedizioni e di promesse, pieno di speranza. Poco prima della sua morte, disse: «Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò... Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da se, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,5-7 e 13).

Sulle prime queste parole possono sembrare strane, poco familiari, persino lontane dalla nostra lotta quotidiana con la vita e la morte. Ma dopo le mie conversazioni con Marina e con molti altri amici prossimi alla morte, le parole di Gesù mi colpiscono in modo nuovo ed esprimono il significato più profondo dell'esperienza di queste persone. Forse siamo inclini a considerare il modo in cui Gesù preparò se stesso e i suoi amici alla sua morte come un modo unico, molto al di là di qualsiasi modo umano «normale». Ma in realtà il modo di morire di Gesù ci dà un esempio pieno di speranza. Anche noi possiamo dire ai nostri amici: «È per il vostro bene che me ne vado, perché se me ne.vado posso mandarvi lo Spirito, e lo Spirito vi rivelerà le cose future». Non è forse questo che Marina vuole dire quando scrive poesie e dipinge quadri che daranno nuova vita a coloro che piangeranno la sua morte? «Mandare lo Spirito» non è forse l' espressione più bella per dire che non lasci coloro che ami, ma offri loro un nuovo legame, più profondo del legame che esisteva in vita? «Morire per gli altri» non significa forse morire in modo che altri possano continuare a vivere, fortificati dallo Spirito del nostro amore?

Alcuni potrebbero protestare, dicendo: «Gesù, il Figlio unigenito del Padre, ci ha mandato il suo Spirito ...ma noi non siamo Gesù, e non abbiamo uno Spirito Santo da mandare!». Ma se ascoltiamo profondamente le parole di Gesù comprenderemo che siamo chiamati a vivere come lui, a morire come lui, a risorgere come lui, perché ci è stato dato lo Spirito: l'Amore Divino, che rende Gesù uno col Padre. Non solo la morte di Gesù, ma anche la nostra morte, è destinata a essere un bene per gli altri. Non solo la morte di Gesù, ma anche la nostra morte è intesa a portare frutto nella vita degli altri. Non solo la morte di Gesù, ma anche la nostra morte porterà lo Spirito di Dio a coloro che lasciamo dietro di noi. Il grande mistero è che tutti coloro che sono vissuti nello Spirito di Dio e con esso, partecipano con la loro morte all'invio dello Spirito. Lo Spirito di amore di Dio continua quindi a esserci mandato, e la morte di Gesù continua a portare frutto attraverso tutti coloro la cui morte, come la sua morte, è una morte per gli altri.

Morire diventa in questo modo la via verso una fecondità eterna. È questo l'aspetto della morte che più ci dà speranza. La nostra morte può essere la fine del nostro successo, della nostra produttività, della nostra fama, della nostra importanza in mezzo alla gente, ma non è la fine della nostra fecondità. È vero anzi l' opposto: la fecondità della nostra vita si mostra nella sua pienezza soltanto dopo la nostra morte. Noi stessi vediamo o sperimentiamo raramente la nostra fecondità. Spesso siamo preoccupati delle nostre realizzazioni, e non abbiamo occhi per la fecondità di ciò che viviamo; ma la bellezza della vita è che essa porta frutto molto tempo dopo che la vita stessa è giunta al suo termine. Gesù ha detto: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo: se invece muore, produce molto frutto» ( Gv 12,24 ) .

È questo il mistero della morte di Gesù e della morte di tutti quelli che sono vissuti nel suo Spirito. La loro vita produce frutto molto al di là dei limiti del- la loro breve esistenza, spesso limitata. Anni dopo la sua morte, mia madre continua a portare frutto nella mia vita. Sono profondamente consapevole che molte delle mie decisioni più importanti dopo la sua morte sono state guidate dallo Spirito di Gesù, che lei continua a mandarmi.

Gesù ha vissuto meno di quarant'anni; non ha viaggiato al di fuori del suo paese, la gente che l'ha conosciuto durante la sua vita l'ha scarsamente compreso e, quando è morto, soltanto pochi dei suoi seguaci sono rimasti fedeli. Sotto ogni aspetto la sua vita è stata un fallimento. Il successo l'aveva abbandonato, la popolarità era svanita e tutto il suo potere se n'era andato. Eppure, poche vite sono state così feconde; poche vite hanno influenzato in modo così profondo i pensieri e i sentimenti di altre persone; poche vite hanno così profondamente plasmato le culture future; poche vite hanno influenzato in modo così radicale il modello dei rapporti umani. Gesù stesso si riferì costantemente alla fecondità della sua vita che sarebbe diventata manifesta soltanto dopo la sua morte. Spesso sottolineò che i suoi discepoli non comprendevano quello che diceva o faceva, ma che un giorno l'avrebbero compreso. Quando lavò i piedi di Pietro, Gesù disse: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7). Quando parlò del suo ritorno al Padre, Gesù disse: «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi, ma ...lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,25-26). Il pieno significato della vita di Gesù si rivelò pienamente soltanto dopo la sua morte.

Non è forse vero anche per molti dei grandi uomini e delle grandi donne della storia? Per molti di essi il significato della loro vita è diventato chiaro soltanto lungo tempo dopo la loro morte. Alcuni erano scarsamente conosciuti durante la loro vita, e alcuni erano noti per cose completamente diverse da quelle per le quali sono ricordati oggi. Alcuni hanno avuto successo e sono diventati famosi; altri hanno sofferto innumerevoli fallimenti e rifiuti. Ma tutti gli uomini e le donne veramente grandi che hanno formato il nostro modo di pensare e di agire hanno portato frutti che loro stessi non potevano prevedere o predire.

Frate Lorenzo è uno dei tanti esempi di questa verità. Questo semplice fratello laico visse come cuoco e calzolaio in una casa carmelitana francese di studi dal 1614 al 1691. Dopo la sua morte, le sue lettere e le sue riflessioni sul «camminare alla presenza di Dio» sono state rese pubbliche, e continuano ancora oggi a influenzare la vita spirituale di molti. La vita di frate Lorenzo non fu spettacolare, ma feconda; egli non pensò mai molto a influenzare la vita degli altri; il suo solo desiderio era quello di fare tutto quello che poteva alla presenza di Dio.

La vera domanda dinanzi alla nostra morte non è dunque: «quanto posso ancora realizzare», o «quanta influenza posso ancora esercitare?», ma: «come posso vivere in modo da continuare ad essere fecondo quando non sarò più con la mia famiglia e gli amici?». Questa domanda sposta la nostra attenzione dal fare all'essere. Il nostro fare porta successo, ma il nostro essere porta frutto. Il grande paradosso della nostra vita è che ci preoccupiamo spesso di quello che facciamo o possiamo ancora fare, ma è molto verosimile che saremo ricordati invece per quello che siamo. Se lo Spirito guida la nostra vita - lo Spirito dell'amore, della gioia, della pace, della bontà, del perdono, del coraggio, della perseveranza, della speranza e della fede - quello Spirito non morrà, ma continuerà a crescere di generazione in generazione.

Riflettendo sulla morte di Marina, e sulla mia, comprendo la grande sfida della vita. Mentre la società in cui vivo continua a chiedermi quali sono i risultati tangibili della mia esistenza, devo gradualmente imparare a credere che quei risultati possono dimostrarsi significativi, ma anche no. Ciò che conta realmente sono i frutti che porta la mia vita. Diventando più vecchio e più debole, potrò fare sempre meno cose. Il mio corpo e la mia mente s'indeboliranno, i miei occhi dovranno accostarsi sempre di più al libro che voglio leggere e i miei orecchi sempre di più al prossimo che mi sforzo di capire. La mia memoria in declino mi condurrà a ripetere più spesso le mie face- zie, e la mia decrescente capacità di riflettere criticamente mi trasformerà in una persona dalla conversazione meno piacevole. Nondimeno, ho fiducia che lo Spirito di Dio si manifesterà nella mia debolezza e agirà a suo piacimento, traendo frutto dal mio corpo e dalla mia mente in declino.

La mia morte sarà in realtà una rinascita. Qualcosa di nuovo nascerà, qualcosa di cui non posso dire o pensare gran che; sta al di là della mia cronologia; è qualcosa che durerà e continuerà di generazione in generazione. In questo modo divento un nuovo genitore, un genitore del futuro.

Penso ogni giorno ai miei amici malati di AIDS. Alcuni li conosco personalmente, altri li conosco come amici di amici, molti li conosco da ciò che scrivono o che si scrive di loro. Fin dal principio di questa orrenda epidemia mi sono sentito vicino ai tanti giovani, uomini e donne, che vivono con l'AIDS. Tutti sanno che non potranno vivere a lungo e che morranno di una morte difficile e spesso dolorosa. Vorrei tanto aiutarli, essere con loro, consolarli e confortarli. Mi strazia il fatto tragico che nel loro disperato bi - sogno di essere abbracciati e amati molti hanno trovato invece la malattia e la morte. Grido al cielo, dicendo: «Perché, o Dio, la ricerca umana della comunione e dell'intimità conduce alla separazione e all'angoscia? Perché tanti giovani che semplicemente vogliono essere amati languono in ospedali e stanze solitarie? Perché l'amore e la morte sono così vicini l'uno all'altra?». Forse il perché non è importante. Importanti sono gli uomini e le donne con i loro bei nomi e i loro bei volti, che si chiedono perché non hanno trovato l'amore a cui anelavano. Mi sento vicino a loro perché il loro dolore non è lontano dal mio.

Anch'io voglio amare ed essere amato. Anch'io devo morire. Anch'io conosco il misterioso nesso tra l'anelito del mio cuore all’amore e l' angoscia del mio cuore. Nel mio cuore voglio abbracciare e tenere strette tutte queste persone che stanno morendo affamate di amore.

Ho letto di recente Borrowed rime (Tempo in prestito), il libro di Paul Monette, così profondamente commovente. Egli vi descrive con dettagli pieni di dolore la lotta contro l' AIDS del suo amico George Horowitz. L'intero libro è un grido di battaglia: «Batteremo il nemico. Non lasceremo che questa forza del male distrugga la nostra vita». È una battaglia eroica, in cui viene provato ogni mezzo di sopravvivenza. Ma la battaglia è perduta. George muore e Paul rimane solo. La morte, alla fine, è più forte dell'amore? Siamo tutti alla fine dei perdenti? Tutta la nostra lotta per sopravvivere, alla fine, è una lotta risibile, risibile come la .1otta di una volpe che cerca di liberarsi coi denti dalla tagliola in cui è intrappolata la sua zampa.

Molti devono pensarla così. Soltanto il profondo rispetto umano che hanno per se stessi di fronte al potere invincibile della morte li induce a impegnarsi nella lotta a viso aperto. lo ammiro profondamente il modo in cui Paul e George hanno combattuto la loro dura battaglia; ma dopo una vita di riflessione sulla morte di Gesù e di molti dei suoi seguaci, voglio credere che al di là della battaglia fatale per la sopravvivenza vi sia una battaglia piena di speranza per la vita. Voglio credere - anzi, credo - che alla fine l'amore è più forte della morte. Non ho argomenti da presentare. Ho soltanto la storia di Gesù e la storia di coloro che hanno fiducia nella verità vivificante della sua vita e della sua parola. Queste storie mi indicano un modo nuovo di vivere e un nuovo modo di morire, e ho un desiderio profondo di mostrarlo agli altri.

Quando sono stato a trovare Rick alla Bethany House - la casa del lavoratore cattolico per gli ammalati di AIDS a Oakland, in California - volevo dirgli qualcosa che Paul non aveva potuto dire a George. Nell'esperienza di Paul le chiese non avevano nulla di significativo da dire alle persone malate di AIDS; vedeva nelle chiese soltanto un atteggiamento ipocrita, oppressivo, di rifiuto, e trovava più conforto nella mitologia greca che nella storia cristiana; ma mentre tenevo la mano di Rick e fissavo i suoi occhi pieni di paura, sentii nel profondo di me stesso che il breve tempo che aveva ancora da vivere poteva essere qualcosa di più che una coraggiosa ma perdente battaglia per la sopravvivenza. Volevo che conoscesse e credesse che il significato del tempo che gli rimaneva non stava in quello che poteva ancora fare, ma nei frutti che poteva ancora portare quando non vi era i più nulla da fare. Mentre eravamo insieme, Rick disse: «I miei amici avranno un futuro; io non ho che da aspettare la morte». Non sapevo cosa dire e sapevo che le parole non potevano dargli alcun sollievo. Presi invece la sua mano nella mia e misi l'altra mano sulla sua fronte. Fissai i suoi occhi pieni di lacrime e dissi: «Rick, non avere paura. Non avere paura. Dio è vicino a te, molto più vicino di quanto non ti sia io. Ti prego, abbi fiducia che il tempo che ti sta dinanzi sarà il tempo più importante della tua vita, non so lo per te, ma per tutti noi che tu ami, e che ti amano». Mentre dicevo queste parole sentii che il corpo di Rick si rilassava e un sorriso si fece strada tra le lacrime. Mi disse: «Grazie, grazie», poi stese le braccia e mi strinse forte a se mormorandomi all'orecchio: «Voglio crederti. Lo voglio veramente, ma è così difficile».

Pensando a Rick e ai tanti giovani che muoiono come lui, ogni cosa in me insorge e protesta. So che è una tentazione pensare alle persone con l' AIDS come a persone che combattono una battaglia perduta. Ma con tutta la fede che riesco a racimolare, io credo che la loro morte sarà feconda e che sono chiamati veramente a essere padri e madri delle generazioni che verranno.

Scegliere una buona morte .

Per farci amica la morte dobbiamo proclamare che siamo figli di Dio, sorelle e fratelli di tutti e padri e madri delle generazioni che verranno. Così facendo liberiamo la nostra morte dalla sua assurdità e ne facciamo l'ingresso in una nuova vita.

Nella nostra società, in cui la fanciullezza è qualcosa da cui ci allontaniamo crescendo, in cui le guerre e i conflitti etnici irridono continuamente alla fraternità e alla sorellanza tra le persone, e in cui l'accento è posto essenzialmente sull'avere successo nei pochi anni che abbiamo, sembra quasi impossibile che la morte possa essere l'ingresso verso qualcosa.

Ma Gesù ha aperto questa via per noi. Quando scegliamo il suo modo di vivere e di morire, possiamo affrontare la morte con la domanda derisoria dell'a- postolo Paolo: «Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15,55). È una scelta, ma una scelta difficile. I poteri delle tenebre che ci circondano sono forti e ci tentano facilmente a lasciare che la paura della morte domini i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni.

Ma noi possiamo scegliere di farci amica la nostra morte, come Gesù ha fatto. Noi possiamo scegliere di vivere come figli diletti di Dio, in solidarietà con tutti, confidando nella nostra fecondità ultima. Così facendo possiamo anche diventare persone che si preoccupano degli altri. Come uomini e donne che hanno affrontato la propria mortalità, possiamo aiutare i nostri fratelli e sorelle a disperdere l'oscurità della morte e a guidarli verso la luce della grazia di Dio.

Passiamo ora al secondo tema: come aver cura degli altri.

parte seconda

AVER CURA DEGLI ALTRI

Al cuore della nostra umanità

Farsi amica la propria morte è un compito spirituale che dura tutta la vita, ma è un compito che con tutte le sue profonde sfumature influenza profondamente i nostri rapporti con gli altri esseri umani. Ogni passo che compiamo verso una più profonda comprensione di noi stessi ci porta più vicino a coloro con i quali condividiamo la nostra esistenza. Imparando a vivere nel corso del tempo la verità che la morte non ha un pungiglione troviamo dentro noi stessi il dono di condurre gli altri a scoprire la medesima verità. Non che facciamo prima una cosa e poi l'altra: farci amica la nostra morte e aiutare gli altri a farsi amica la loro sono due cose inseparabili. Nel campo dello Spirito di Dio vivere e aver cura degli altri sono una cosa sola.

Per la nostra società curarsi degli altri e vivere sono due cose completamente separate e l'assistenza agli altri spetta soprattutto ai professionisti che hanno ricevuto una formazione particolare. Certamente la formazione è importante e alcuni hanno bisogno di preparazione per praticare con competenza la loro professione; ma curarsi dell'altro è privilegio di ogni persona e sta al cuore della nostra umanità. Quando consideriamo il significato originale del termineprofessione, e ci rendiamo conto che il termine si riferisce prima di tutto al professare le nostre più profonde convinzioni, allora l'essenziale unità spirituale tra vivere e aver cura dell'altro diventa chiara.

I tre capitoli seguenti sono una riflessione sulla cura dei morenti. Considero la cura dei morenti essenzialmente come l'aiuto che diamo ai nostri compagni in umanità perché si facciano amica la propria morte. Spero che appaia chiaramente da queste riflessioni che nella misura in cui ci facciamo amica la nostra morte diventiamo delle persone veramente capaci di curarci degli altri. In parallelo con i primi tre capitoli di questo libro, intendo il prendersi cura degli altri come l'aiuto che offriamo loro perché possano far propria la verità spirituale che essi sono - come noi - figli di Dio, fratelli e sorelle 1'uno dell'altro e padri e madri delle generazioni che verranno.

4.

Sei un figlio di Dio

Maurice Gould, che è morto dieci giorni prima che io cominciassi a scrivere questo libro, fu una delle prime persone che incontrai a Daybreak; era membro della «Green House», la casa dove ho trascorso la prima settimana. Moe era nato con la sindrome di Down e per molti anni aveva vissuto con i genitori e la sorella, che si erano presi cura di lui con amore. Quando compì i quarant' anni venne a Daybreak. Due anni fa Maurice ha cominciato a manifestare i sintomi del morbo di Alzheimer e da allora fino alla sua morte la comunità si è impegnata a prestargli le cure richieste da chi è colpito da quel genere di malattia. I dottori ci dissero che Maurice non avrebbe potuto vivere a lungo e che dovevamo preparare lui, e anche noi stessi, alla sua morte.

Per quelli che erano vicino a Moe - la sua famiglia, gli amici, e quelli che vivevano con lui nella Green House - prendersi cura di lui divenne una grande sfida, una sfida dolorosa e gioiosa a un tempo. Man mano che perdeva la memoria, la capacità di riconoscere le persone, il senso dell'orientamento e la capacità di nutrirsi da solo, Moe divenne sempre più ansioso e non pote più essere la persona allegra che era stata prima. Fu difficile vederlo scivolare in uno stato di completa dipendenza, bisognoso di maggiore aiuto di quanto noi potessimo dargli. Alla fine Moe fu ricoverato nel vicino ospedale, dove un personale efficiente, insieme con i membri della Green House, si prese cura di lui durante gli ultimi mesi della sua esistenza.

Tra le cose che più ricordo di Moe vi sono i suoi generosi slanci. Spesso camminava verso di me con le mani tese, pronto per un grande abbraccio, e mentre mi teneva stretto, mi mormorava all'orecchio, «Amazing Grace», grazia meravigliosa, il suo modo di suggerirmi che cantassimo insieme il suo inno prediletto. Mi ricordo anche il suo amore per la danza, per il cibo, e il suo amore per far ridere la gente con le sue imitazioni. Quando imitava me si metteva gli occhiali al contrario sul naso e faceva strani gesti.

Mentre me ne sto qui a Friburgo, lontano dalla mia comunità, e penso a Moe, mi rendo conto più che mai che Moe era, ed è diventato sempre di più, un figlio di Dio. Potendo stare così vicino alla sua «seconda infanzia», i suoi amici erano in grado di prendersi cura di lui con grande pazienza e prodiga generosità.

Le malattie di Moe - la sindrome di Down e il morbo di Alzheimer ci hanno indicato in modo drammatico il cammino che noi tutti, in qualche luogo, in qualche modo, dobbiamo percorrere; ma che cosa vediamo alla fine di questo cammino? Vediamo una persona che ha perso tutte le capacità umane ed è diventato un peso per tutti, oppure una persona che è diventata sempre più un figlio di Dio, un puro strumento di grazia? Non posso fare a meno di pensare alle innumerevoli volte in cui Moe mi ha fissato negli occhi e mi ha detto, «Amazing Grace». Non ero sempre disposto a cantare di nuovo con lui il vecchio inno, e spesso gli dicevo: «La prossima volta, Moe». Ora che Moe se ne è andato, continuo a sentire le parole insistenti -«Amazing Grace, Amazing Grace» - come il modo in cui Dio mi annuncia il mistero della vita di Moe e di tutti noi.

Molte delle persone ospiti di Daybreak non possono fare ciò che fa la maggior parte delle persone al di fuori della comunità. Alcuni non possono camminare, altri non possono parlare, altri non possono mangiare da soli, altri non possono leggere, altri non possono contare, altri non possono vestirsi da soli, e qualcuno non può fare nessuna di queste cose. Nessuno si aspetta la guarigione. Noi sappiamo soltanto che le cose peggioreranno man mano che l' età avanza e che le differenze tra le persone disabili e quelle non disabili diventeranno sempre meno visibili. Verso che cosa stiamo andando, in ultima analisi? Stiamo semplicemente diventando persone meno capaci, per restituire il nostro corpo alla polvere da cui è stato tratto, o cresciamo come indicatori viventi di quella grazia di cui Moe voleva sempre cantare?

Dobbiamo scegliere tra questi due punti di vista radicalmente diversi. La scelta di vedere le nostre declinanti capacità e quelle delle altre persone come l'ingresso verso la grazia di Dio è una scelta di fede. È una scelta fondata sulla convinzione che sulla croce non vediamo soltanto il fallimento di Gesù, ma anche la sua vittoria, non solo la distruzione, ma anche una nuova vita, non solo la spoliazione, ma anche la gloria. Quando Giovanni, il discepolo amato, guardò a Gesù e vide sangue e acqua fluire dal suo costato trafitto, vide qualcosa di diverso dalla prova che tutto era finito. Vide il compimento della profezia: «Guarderanno a colui che hanno trafitto», un barlume della vittoria di Dio sulla morte, e un segno della meravigliosa grazia di Dio. Giovanni scriveva: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera, ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35).

Questa è la scelta della fede. È la scelta che facciamo quando diciamo che Moe, col corpo e la mente distrutti dal morbo di Alzheimer, ci ha portato, at- traverso il suo morire e la sua morte, una grazia meravigliosa. È la scelta che facciamo quando ci prendiamo cura di chi muore con tutta la tenerezza e la bontà che meritano i diletti figli di Dio. È la scelta che ci consente di vedere il volto di Gesù nei poveri, nei drogati e in coloro che convivono con l' AIDS e con il cancro. È la scelta del cuore umano che è stato toccato dallo Spirito di Gesù e che è capace di riconoscere quello Spirito ovunque delle persone muoiono.

Ho partecipato di recente a un incontro dei dirigenti di alcune istituzioni cristiane responsabili della supervisione delle case per persone mentalmente disabili. Nella nostra economia di libero mercato, mi hanno detto, si parla delle cure umane in termini di domanda e di offerta. In questo contesto la persona sofferente diventa l'acquirente delle terapie e i professionisti dell'assistenza ne diventano i mercanti. Mi sembra che questo linguaggio e la visione che vi soggiace riduca la persona umana a null'altro che a una merce nel mondo competitivo dell'alta finanza. In questo linguaggio è stata scelta una visione che non c'incoraggia più a celebrare il morire e la morte delle persone come Maurice Gould. La «grazia meravigliosa» è stata sostituita da considerazioni commerciali, non così meravigliose !

La cura per gli altri, come la intendo qui, è l'attenzione amorevole prestata a un'altra persona: non perché quella persona ne abbia bisogno per rimanere viva, non perché quella persona o una compagnia di assicurazione paghi per questo, non perché l'assistenza provveda posti di lavoro, non perché la legge vieti di affrettare la morte, e non perché quella persona possa essere usata per la ricerca medica, ma perché quella persona è un figlio di Dio, proprio come noi.

Prendersi cura degli altri quando diventano più deboli e più vicini alla morte significa consentire loro di adempiere alla loro più profonda vocazione, quella di diventare sempre più pienamente ciò che già sono: figlie e figli di Dio. Significa aiutarli a proclamare, specialmente nell'ora della morte, la loro divina figliolanza e lasciare che lo Spirito di Dio gridi dal loro cuore: «Abbà, Padre» (GaI 4,9). Prendersi cura dei morenti significa continuare a dire: «Tu sei la diletta figlia di Dio, tu sei il diletto figlio di Dio».

Come lo diciamo? I modi sono innumerevoli: attraverso le parole, le preghiere, le benedizioni; attraverso un tocco amorevole e una stretta di mano; lavandoli e nutrendoli, ascoltandoli, o semplicemente essendo presenti. Alcune di queste forme di assistenza possono aiutare, altre no; ma sono tutti modi di esprimere la nostra fede che coloro di cui ci prendiamo cura sono preziosi agli occhi di Dio. Attraverso la sollecitudine di questa presenza noi continuiamo ad annunciare questa sacra verità: morire non è un evento dolce e sentimentale, è una grande lotta per la resa completa della nostra vita. Questa resa non è una risposta umana ovvia; al contrario, noi vogliamo rimanere attaccati a quanto ci rimane; ed è per questa ragione che i morenti provano tanta angoscia. Come Gesù, i morenti sperimentano troppo spesso la loro totale impotenza come reiezione e abbandono. Sovente il grido angoscioso: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,4) rende difficile dire: «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito» (Lc 23,46 ).

A Moe non è stata risparmiata questa lotta. Man mano che il morbo di Alzheimer gli toglieva le capacità già così limitate dì tenere sotto controllo la sua vita, una grande angoscia cresceva in lui. Spesso gridava con angoscia e sperimentava la crescente paura della solìtudìne. Sovente, durante la notte, voleva alzarsì e andare a lavorare. Tra le ultime parole che poté dìre vi sono state queste: «Chiamami... Chiamami... Chiamami...

La paura dì Moe non era diversa dalla mia. Era la paura dì essere rìfìutato o lasciato solo; dì essere considerato un peso o una seccatura; dì essere deriso o considerato ìnutìle. Era la profonda paura dì non appartenere a nessuno, la paura della fine dì ogni comunìcazìone, dell'estremo abbandono. Più arrivo a conoscere ìntìmamente delle persone mentalmente dìsabìli, pìù mì convìnco che la loro sofferenza pìù profonda non è la loro ìncapacìtà dì leggere, dì stu- dìare, dì parlare o di camminare, ma, nella loro profonda paura del rìfìuto, dì essere un peso; a questo riguardo essi non sono dìversì da me. La nostra sofferenza più grande viene dal perdere contatto con la coscienza dì essere amati e dal pensare a noi stessi come a una presenza ìnutìle e ìndesìderatìl.

Prender sì cura degli altrì sìgnìfìca prìma dì tutto aìutarlì a superare l'ìmmensa tentazione del rìfìuto dì se: ricchi o poveri, famosi o sconosciuti, disabili o in piena forma, tutti noi condividiamo la paura di essere lasciati soli e abbandonati una paura che rimane nascosta sotto la superficie dell'autocontrollo. Ha radici molto più profonde della semplice possibilità di non piacere o di non essere amati dalla gente. La sua radice più profonda sta nella possibilità di non essere amati affatto, di non appartenere a nulla che duri, di essere inghiottiti da un oscuro nulla: sì, di essere abbandonati da Dio.

Prendersi cura delle persone significa quindi essere presenti mentre combattono questa estrema battaglia, una battaglia che diventa sempre più reale e intensa man mano che la morte si avvicina. Il morire e la morte richiamano sempre, con forza rinnovata, la paura di non essere amati e di essere ridotti, alla fine, in vana cenere. Prendersi cura di un morente significa stargli accanto come un segno vivente che quella persona è veramente il diletto figlio di Dio.

Maria sotto la croce è l'espressione più commovente di questa sollecitudine. Il figlio moriva nell'angoscia, e lei era là: senza parlare, senza lamentarsi, senza piangere. Era là, ricordando al figlio con la sua silenziosa presenza che lei non poteva tenerlo per se stessa, ma che la sua vera figliolanza apparteneva al Padre, che non l'avrebbe mai lasciato solo. Lo aiutava a ricordare le sue medesime parole: «Ecco verrà l'ora... in cui... mi lascerete solo. Ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,32). Maria incoraggiava Gesù ad andare al di là della sua esperienza di abbandono e ad arrendersi all'abbraccio del Padre. Era là per fortificare la sua fede che anche in mezzo alle tenebre, dove non possiamo trovare altro che perdita e reiezione, egli rimane il Figlio diletto di Dio, che non lo lascerà mai solo. Fu questa sollecitudine materna che alla fine permise a Gesù di vincere la battaglia contro i poteri demoniaci della reiezione, di respingere la tentazione dell'abbandono e di arrendere il suo intero essere a Dio, con le parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito»(Lc 23,46).

Possiamo comportarci come Maria? Non credo che possiamo farlo da soli. Anche Maria non era sola. Giovanni, il discepolo amato, era con lei sotto la croce. Ricordare alle persone nella loro agonia la loro divina figliolanza non è qualcosa che possiamo fare da noi. I poteri delle tenebre sono forti e possiamo essere sospinti noi stessi nell'oscurità e precipitare in dubbi sconfinati. Stare presso una persona che muore significa partecipare alla immensa lotta della fede. È una lotta che nessuno può intraprendere da solo. Prima che ce ne rendiamo conto, l'angoscia dell'amico morente diventa la nostra angoscia e noi diventiamo vittima degli stessi poteri che il nostro amico combatte. Ci lasciamo sopraffare da sentimenti di impotenza, di solitudine, di dubbio e anche di colpa, legati al nostro desiderio spesso inconscio che tutto finisca presto.

No, non dobbiamo cercare di agire da soli. Il prendersi cura degli altri non è un test di sopportazione. Ogni volta che ciò è possibile, dobbiamo farlo insieme ad altri; È la cura della comunità che ricorda al morente di essere amato o amata. Sono Mary e John, Lori e Carlo, Loretta e David, Carol e Peter, Janice e Cheryl, Geoff e Carrie, Lorenzo e tanti altri che insieme possono stare ai piedi della croce e dire: «Tu sei il diletto figlio di Dio, ora e sempre». Questa cerchia di amore che circonda i nostri amici morenti ha il potere di scacciare i demoni del rifiuto di se e dell'abbandono e di portare luce nell'oscurità. L'ho visto accadere intorno a Moe, e lo vedo accadere nella comunità dei malati di AIDS e nella rete di sostegno dei malati di cancro. Insieme, come un corpo di amore, come una comunità sollecita, possiamo avvicinarci al morente e scoprirvi una nuova vita, una nuova forza di vivere. Possono esservi sorrisi e racconti, nuovi incontri e nuova sapienza nei modi di aiutare, nei momenti di silenzio e di preghiera. Insieme possiamo creare il luogo in cui i nostri amici morenti possono sentirsi al sicuro e possono a poco a poco abbandonarsi, e superare la soglia sapendo di essere amati.

Impegnarsi insieme è la base della vita comunitaria. Non ci ritroviamo insieme soltanto per consolarci l'un l'altro, o anche per sostenerci l'un l'altro: per quanto importanti siano queste cose, a lungo termine la vita comunitaria si apre a nuove dimensioni. Insieme andiamo verso gli altri, insieme volgiamo lo sguardo verso coloro che hanno bisogno delle nostre cure, insieme conduciamo i nostri fratelli e le nostre sorelle sofferenti verso il luogo del riposo, della guarigione e della sicurezza.

Mi ha sempre colpito il pensiero che una persona è disposta a impegnarsi verso l'altra soltanto quando non si concentra più sul rapporto reciproco, ma quando i due guardano insieme al mondo più vasto al di là di loro stessi. Innamorarsi significa guardarsi a vicenda con ammirazione e tenerezza. Impegnarsi 1'uno verso l'altro nell'amore ci fa guardare insieme verso coloro che hanno bisogno della nostra attenzione: il bambino, lo straniero, il povero, il morente. Questo impegno sta al centro di ogni comunità.

Quando rifletto sulla mia propria comunità, la Comunità Daybreak dell'Arche di Toronto, mi rendo sempre più conto che ciò che sostiene la nostra fedeltà reciproca è il nostro comune impegno a prenderci cura di persone che hanno disturbi mentali. Siamo chiamati a preoccuparcene insieme. Nessuno della nostra comunità potrebbe occuparsi da solo di uno dei nostri membri disabili; non soltanto sarebbe impossibile fisicamente, ma porterebbe rapidamente all'esaurimento emotivo e psicologico. Insieme possiamo invece creare uno spazio che è positivo non soltanto per quelli che ricevono le nostre cure, ma anche per chi le dispensa. In questo spazio il confine tra ricevere e dare svanisce e può cominciare a esistere la vera Comunità. È essenziale per i membri più deboli della Comunità che coloro che si occupano di loro lo facciano insieme. Questi membri ci dicono: «Perché io viva non dovete amare soltanto me, ma dovete anche amarvi l'un l'altro».

Quando rifletto sulla vita comunitaria attraverso il tempo vedo chiaramente che i momenti «alti» sono strettamente connessi all'intensità con cui agiamo insieme e i momenti «bassi» all'essere assorbiti da questioni interne. Anche la comunità più contemplativa e apparentemente nascosta ha potuto rimanere vivente e prosperare soltanto quando la sua vita è rimasta aperta al di là dei confini della comunità. Anche una vita consacrata alla meditazione e alla preghiera ha bisogno di mantenere la dimensione della preoccupazione comune per gli altri. Il mistero di questa attenzione comune è che non soltanto richiede la comunità, ma la crea.

Quelli che si sono presi cura di Moe hanno capito dopo la sua morte che egli li aveva resi più vicini di quanto fossero mai stati prima. Come il Gesù morente ha avvicinato Maria e Giovanni, dando ciascuno all'altro come madre e come figlio, così Moe ha portato i suoi amici più vicini gli uni agli altri come figli e figlie del medesimo Dio. Ogni vera cura per una persona morente porta con se una nuova coscienza dei legami che creano una comunità di amore.

I Flying Rodleighs sono dei trapezisti che si esibiscono nel circo tedesco Simoneit-Barum. Quando il circo è venuto a Friburgo, due anni fa, i miei amici Franz e Reny hanno invitato me e mio padre ad andare a vedere il loro

Aver cura degli altri 77 ~ ~:

spettacolo. Non dimenticherò mai il fascino da cui fui preso quando vidi per la prima volta i Rodleighs che si muovevano nel vuoto, volteggiando e afferrandosi come in una danza piena di eleganza. Il giorno successivo tornai al circo per vederli di nuovo e mi presentai esprimendo la mia grande ammirazione. Mi invitarono ad assistere alle loro prove, mi dettero dei biglietti gratis e mi invitarono a pranzo, proponendo che li accompagnassi in viaggio per una settimana di lì a breve tempo. Accettai e diventammo amici.

Un giorno, mentre stavo seduto con Rodleigh, il capo della troupe, nella sua roulotte e parlavamo del suo esercizio, lui mi disse: «Devo avere completa fiducia nel mio compagno, che mi deve afferrare al termine del mio volteggio. Il pubblico potrebbe pensare che io sia la grande stella del trapezio, ma la vera stella è il mio compagno, Joe. Lui deve essere pronto ad afferrarmi con precisione, spaccando il secondo, e deve acchiapparmi attraverso il vuoto quando io arrivo con la mia lunga rincorsa». «Come funziona?», chiesi. «II segreto», mi disse Rodleigh, «è che il trapezista che volteggia non fa nulla, mentre chi fa tutto è il compagno che lo afferra. Quando volo verso Joe devo semplicemente tendere le braccia e le mani e aspettare che lui mi afferri e mi tragga al sicuro sulla piattaforma dietro la sbarra».

«Lei non fa nulla!», dissi sorpreso. «Nulla», ripete:, Rodleigh. «La cosa peggiore che il trapezista possa fare nel suo volteggio è cercare di afferrare il compagno. Non è previsto che io afferri Joe, ma è compito di Joe afferrare me. Se afferrassi i polsi di Joe potrei spezzarglieli, o lui potrebbe spezzare i miei, e questo vorrebbe dire la fine per tutti e due. Uno deve volare e l'altro deve afferrare, e il primo deve avere fiducia, stendendo le braccia verso il compagno che è là pronto ad afferrarlo».

Mentre Rodleigh mi parlava con tanta convinzione, mi balenarono in mente le parole di Gesù: «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito». Morire significa avere fiducia in chi è pronto ad accoglierci, e aver cura del morente significa dirgli: «Non avere paura, ricordati che sei il figlio diletto di Dio ed egli sarà là quando farai il grande balzo. Non cercare di afferrarlo, lui afferrerà te. Stendi soltanto le braccia e le mani, e abbi fiducia, fiducia, fiducia».

5.

Siete fratelli e sorelle gli uni degli altri

Un giorno Sally, una mia buona amica, mi ha detto: «Sono cinque anni che Bob, mio marito, è morto e vorrei visitare la sua tomba con i bambini. Ci accompagneresti?». Quando io dissi: «Ma certo, con grande piacere», lei mi raccontò quello che era accaduto. Bob era morto improvvisamente per un attacco di cuore e lei si era trovata tutto a un tratto di fronte al difficile compito di aiutare i suoi bambini, Mitchell e Lindsay, che a quel tempo avevano quattro e cinque anni, a far fronte alla morte del padre. Allora aveva ritenuto che sarebbe stato troppo difficile per i suoi figli vedere seppellire il padre sotto la terra e la sua bara ricoperta di sabbia: «Sono troppo giovani per capire», aveva pensato. Per Sally, Lindsay e Mitchell il cimitero era diventato col passare degli anni un luogo di paure e Sally intuiva che c'era in questo qualcosa che non andava. ( Per questo mi aveva invitato ad andare con lei alla tomba di Bob.

Per Lindsay sarebbe stata un'esperienza ancora troppo inquietante, perché aveva dei ricordi molto concreti di Bob, così venne soltanto Mitchell.

Era una bella giornata di sole e trovammo presto la tomba di Bob: una semplice pietra su cui erano incise le parole: «Un uomo buono e gentile». Ci sedemmo sull'erba intorno alla lapide e Sally e Mitchell si misero a raccontare episodi della loro vita con Bob. Mitchell si rammentava che il papà aveva giocato a palla con lui, e quando i suoi ricordi diventavano confusi Sally riempiva i vuoti. Io mi limitai a fare delle domande.

Cominciando a sentirci più a nostro agio, io dissi: «Non sarebbe bello fare un picnic qui? Forse un giorno potremmo tornare qui tutti insieme, portare con noi da mangiare e da bere, e celebrare la vita di Bob proprio qui, su questa tomba. Potremmo mangiare insieme in memoria di lui». Sulle prime Sally e Mitchell furono sconcertati da questa idea, ma poi Mitchell disse: «Sì, perché no? Sono sicuro che verrà anche Lindsay».

Quando Sally e Mitchell tornarono a casa dissero a Lindsay che non era stato per niente triste e che tutto era andato bene. Pochi giorni dopo Lindsay chiese a Sally di condurla alla tomba del padre, e infatti vi andarono e parlarono insieme di Bob. A poco a poco Bob divenne meno un estraneo e sempre più un nuovo amico, e fare un picnic sulla sua tomba sembrava un'ottima idea. Dopo tutto, anche Gesù aveva chiesto ai suoi amici di ricordarlo mangiando insieme. Questo racconto mostra quanto facilmente prendiamo le distanze da coloro che sono morti e li trattiamo come estranei di cui aver paura, che ci rammentano cose che non vorremmo ricordare, specialmente la nostra mortalità. Ma mostra anche quanto è facile riportare coloro che sono morti nella cerchia dei viventi e farne dei buoni amici che possono aiutarci ad affrontare la nostra propria morte.

Quanto spesso vediamo qualcuno morire? Quanto spesso vediamo una persona morta? Quanto spesso gettiamo una manciata di sabbia su una bara calata nella tomba? Quanto spesso andiamo in un cimitero e rimaniamo inginocchiati o seduti di fronte al luogo in cui il nostro coniuge, i nostri genitori, fratelli, sorelle, zie e zii, o amici sono stati sepolti? Siamo ancora in contatto con coloro che sono morti, o viviamo la nostra vita come se quelli che hanno vissuto prima di noi non fossero mai realmente esistiti?

A Geysteren, il piccolo villaggio dove vive mio padre, nel sud dell'Olanda, i morti fanno ancora parte della vita quotidiana della gente. Il cimitero, vicino alla piazza del villaggio, è un giardino ben curato, il cancello è dipinto di fresco, le siepi sono ben potate, i sentieri sono ben tenuti e ogni tomba è accudita con cura. Molte delle croci e delle pietre sono decorate con fiori freschi e piante sempre verdi. Il cimitero appare un luogo dove i visitatori sono benvenuti e dove è cosa buona sostare.

Gli abitanti del villaggio amano il loro cimitero, vi vanno spesso per pregare e per ritrovarsi con i familiari e gli amici che li hanno lasciati. Durante i servizi religiosi nella chiesa del villaggio «quelli che riposano nel cimitero» sono sempre ricordati e inclusi nelle preghiere della comunità.

Quando visito mio padre a Geysteren vado sempre in quel piccolo cimitero. Vicino all'ingresso, a sinistra, c'è la tomba di mia madre, segnata con una semplice croce di legno scuro, su cui sono dipinte in bianco le date della nascita e della morte. Di fronte alla croce delle piante sempreverdi delimitano il luogo in cui giacciono le sue spoglie e al centro vi sono delle viole piantate di recente. Quando sto dinanzi a questa semplice tomba, guardo la croce e ascolto il vento che stormisce tra le fronde dei grandi pioppi che circondano il cimitero, so di non essere solo. Mia madre è qui e mi parla. Non vi sono apparizioni, ne voci misteriose, ma vi è la semplice consapevolezza interiore che colei che è morta quattordici anni fa è ancora con me. Circondato dalla solitudine del bel cimitero, sento la sua voce dirmi che devo essere fedele al mio cammino e di non aver paura di riunirmi un giorno con lei nella morte.

Mentre sto dinanzi alla tomba di mia madre, la cerchia dei morti che mi circonda si allarga sempre più. Sono circondato non soltanto dagli abitanti del villaggio sepolti qui, ma anche dai familiari e dagli amici. Ancora più vasta è la cerchia di coloro che con le loro azioni hanno influenzato la mia vita e i miei pensieri. Al di là di questa vi è la cerchia degli innumerevoli uomini e donne di cui non conosco il nome, ma che nella loro maniera unica hanno compiuto il mio stesso cammino e hanno condiviso i dolori e le gioie dell'esistenza umana.

I pioppi del piccolo cimitero di Geysteren mormorarono il loro canto per tutte queste persone sepolte all'intorno. Alcuni sono stati sepolti dolcemente come mia madre, altri semplicemente messi lì e dimenticati, altri ancora gettati in fosse comuni di cui pochi conoscono il luogo e dove nessuno viene mai a pregare. Per tutta questa gente cantano i pioppi e stando in quel cimitero io provo riconoscenza perché sono umano, come sono state umane tutte queste persone, e perché sono chiamato a morire come loro.

Quale dono sapere nel profondo di noi stessi che siamo tutti fratelli e sorelle di un'unica famiglia umana, e che pur essendo diversi per cultura, lingua, religione, stile di vita o lavoro, siamo tutti esseri mortali, chiamati a rimettere la nostra vita nelle mani di un Dio d' amore. Quale dono sentirsi legati ai tanti che sono morti e scoprire la gioia e la pace che scaturiscono da questo legame. Sperimentando questo dono comprendo in modo nuovo che cosa significhi prendersi cura dei morenti: significa collegarli ai tanti che sono morenti o sono morti e far loro scoprire l'intimo legame che va molto al di là dei confini della nostra breve vita.

Andare con Sally e Mitchell alla tomba di Bob o sostare in silenzio nel cimitero di Geysteren, di fronte al luogo in cui è sepolta mia madre, ha reso più forte la mia convinzione che tutti quelli che stanno morendo dovrebbero essere a conoscenza della profonda comunione tra tutti gli uomini e le donne di questo pianeta. Noi esseri umani ci apparteniamo a vicenda, sia che viviamo adesso o che siamo vissuti tanto tempo fa, che viviamo vicino o lontano, che abbiamo o meno legami biologici tra di noi. Siamo fratelli e sorelle, e il nostro morire è veramente un morire in una comunione reciproca.

Ma quando guardiamo al mondo intorno a noi sorge la domanda: viviamo veramente come fratelli e sorelle? Ogni giorno i giornali e la televisione ci ricordano che gli esseri umani si combattono tra loro, si torturano e si uccidono a vicenda. In tutto il mondo vi sono vittime della persecuzione, della guerra, della fame. In tutto il mondo c' è odio, violenza, abusi. Abbiamo vissuto per qualche tempo nell'illusione che l'epoca dei campi di concentramento fosse dietro le nostre spalle, che un olocausto come quello avvenuto durante la seconda guerra mondiale non sarebbe più stato umanamente possibile; ma ciò che accade oggi mostra quanto poco abbiamo imparato. Il vero peccato dell'umanità è che uomini e donne creati per essere fratelli e sorelle diventino sempre di nuovo nemici uno dell'altro, pronti a distruggere la vita dell'altro.

Dio ha inviato Gesù per ristabilire il vero ordine umano. Gesù è chiamato il Redentore; egli è venuto per redimerci dai nostri peccati e per ricordarci la verità che siamo figli e figlie di Dio, fratelli e sorelle gli uni degli altri. In che modo Gesù ci ha redento dai nostri peccati? Diventando uno di noi: nascendo come noi nasciamo, vivendo come noi viviamo, soffrendo come noi soffriamo, e morendo come noi moriamo. Gesù è diventato veramente nostro fratello, il «Dio con noi». Quando l'angelo di Dio è venuto a Nazareth e ha parlato a Giuseppe in sogno, ha detto: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 1'evangelista Matteo, che così scriveva, aggiungeva: «Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa 'Dio con noi '» (Mt 1,20-23). Dio è divenuto «Dio con noi», nostro fratello, affinché noi potessimo reclamare per noi stessi la fratellanza e la sorellanza con tutti. Questa è la storia di Gesù, la storia della nostra redenzione. Il fulcro di quella storia è che in Gesù e attraverso di lui Dio ha voluto condividere non soltanto la nostra vita, ma anche la nostra morte. La morte di Gesù è l'espressione più radicale del desiderio di Dio di essere «Dio con noi».

Nulla rende così simili l'uno all'altro gli esseri umani quanto la loro mortalità. La nostra comune mortalità smaschera l'illusione delle nostre differenze, la falsità delle molte divisioni tra noi e i peccati della nostra reciproca inimicizia. Morendo con noi e per noi, Gesù ha voluto disperdere le nostre illusioni, guarire le nostre divisioni e perdonare i nostri peccati, affinché potessimo riscoprire che siamo fratelli e sorelle l'uno dell'altro. Divenendo nostro fratello Gesù ha voluto che diventassimo ancora una volta fratelli e sorelle 1'uno per l'altro. In nulla, se non nel peccato, egli ha voluto essere diverso da noi. Per questo è morto per noi. Come uno che era mortale come noi, Gesù ci ha chiamati a cessare di vivere nella paura l'uno dell'altro e a cominciare ad amarci a vicenda. E questo era qualcosa di più di un suo desiderio: era il suo comandamento, perché appartiene all'essenza del nostro essere umani. Gesù disse: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre 1'ho fatto conoscere a voi... Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12-17).

n grande mistero di Dio che diviene «Dio con noi» ha conseguenze radicali per il modo in cui ci occupiamo dei morenti.

Se Dio vuole morire con noi e per noi, anche noi dobbiamo morire con l'altro e per l'altro. È tragico che pensiamo invece alla morte soprattutto come a un evento che ci separa dagli altri: significa partire, significa lasciarsi dietro gli altri, è la fine di preziosi rapporti, l'inizio della solitudine. Per noi la morte è veramente prima di tutto una separazione e, peggio ancora, una separazione irreversibile.

Ma Gesù è morto per noi affinché la nostra morte non debba più essere soltanto separazione. La sua morte ci ha aperto la possibilità di rendere la nostra morte una via all'unione e alla comunione. È questa la svolta radicale che la nostra fede ci permette di compiere, ma questo non accade spontaneamente: richiede un' attenzione particolare.

Prendersi cura dei morenti significa aiutarli a vivere il loro morire come un modo per raccogliere intorno a se non soltanto quelli che vengono a visitarli, non soltanto i familiari e gli amici, ma tutta l'umanità, sia i vivi che i morti. Quando diciamo che non è bene per un essere umano morire solo, noi tocchiamo un profondo mistero. Nella nostra morte, più che mai, abbiamo bisogno di essere in comunione con gli altri. Il transito da questa nostra vita è il passaggio che ha bisogno, più di ogni altro, di essere compiuto con altri.

Vi è qualcosa di così ovvio in questo che nessuno metterebbe in dubbio l'importanza di essere presenti nel momento in cui qualcuno muore. Una delle nostre peggiori paure riguardo al morire è che potrebbe accadere senza che nessuno sia al nostro fianco. Vogliamo che qualcuno ci tenga per mano, ci tocchi e ci parli dolcemente, preghi con noi. Ed è questo che vogliamo fare per gli altri.

Ma vi è qualcosa di più - molto di più - e che è meno ovvio. Prendersene cura significa anche incoraggiare dolcemente 1'amico morente a morire con gli altri e per gli altri. In qualche modo noi che lo assistiamo dobbiamo avere il coraggio di portare insieme intorno ai nostri amici morenti i santi e i peccatori di tutti i tempi: i bambini che muoiono di fame, i prigionieri torturati, i senza casa, i vagabondi, i malati di AIDS e i milioni di persone che sono morte o stanno morendo. Sulle prime questo può sembrare duro, persino crudele, ma è vero il contrario: toglie i nostri amici morenti dal loro isolamento e li rende partecipi del più umano di tutti gli eventi umani. Quando coloro che stanno morendo cominciano a rendersi conto che ciò che stanno sperimentando, per quanto doloroso, li unisce alla famiglia vecchia di secoli dell'umanità in tutto il mondo, essi possono a poco a poco abbandonarsi e lasciare che la famiglia umana li conduca attraverso le porte della morte.

Per questa ragione i morenti, lungo il corso della storia cristiana, sono stati invitati a contemplare la croce. Nel famoso Altare Isenheimer del sedicesimo secolo a Colmar, in Francia, Cristo è ritratto appeso alla croce in una indicibile agonia; il suo corpo è ricoperto delle ulceri provocate dalla peste nera.

Quando coloro- che morivano di peste guardavano quel Cristo sofferente, essi vedevano non soltanto Gesù, che era morto per loro e con loro tanto tempo fa, ma anche tutti i loro fratelli e sorelle morenti, e vi trovavano consolazione, comprendendo che come Cristo era morto per loro, essi anche potevano morire per i loro fratelli e sorelle, e fare così del loro morire un atto di solidarietà umana.

Ho visto di recente a San Francisco una croce sul- la quale Gesù moriva di AIDS. Anche qui erano raffigurati tutti gli uomini, le donne e i bambini del mondo malati di AIDS, ma per offrire speranza. La gente che muore nel nostro secolo può contemplare questa croce e trovare speranza.

Prendersi cura dei morenti è quindi diverso dal proteggerli perché non vedano un quadro più ampio. Al contrario, significa aiutare queste persone a crescere nella consapevolezza che la loro dolorosa condizione individuale è inserita nella condizione fondamentale della mortalità umana e, come tale, può essere vissuta in comunione con gli altri.

Si può constatare questo tipo di attenzione in molte comunità di malati di AIDS. Nelle città nordamericane dei giovani si sostengono a vicenda, vivendo la loro malattia in solidarietà tra loro e con gli altri che stanno morendo. Forse penseranno raramente a questa solidarietà e ne parleranno raramente come di un'espressione della solidarietà di Dio con noi, ma anche così si aiutano l'un l'altro a morire nel medesimo spirito in cui Gesù è morto, lo spirito della comunione con la più ampia famiglia umana.

Ha un qualche senso concreto parlare in questa prospettiva della cura dei morenti? Forse soltanto che i morenti possono affrontare molto meglio la realtà della vita di quanto coloro che li assistono spesso immaginano. Abbiamo la tendenza a tenere nascoste le «cattive notizie» del nostro mondo a coloro che muoiono. Vogliamo offrire a queste persone una fine tranquilla, senza turbamenti, «pacifica», e per farlo tendiamo a evitare di parlare loro di altre persone che sono malate o che muoiono, o delle vittime della guerra e della fame in altri luoghi del mondo. Vogliamo tenerli separati dalle terribili realtà della vita. Ma, così facendo, rendiamo loro un servizio? O invece gli impediamo di vivere la loro malattia in solidarietà con i loro compagni in umanità e di fare della loro morte una morte con gli altri e per gli altri?

La malattia, e specialmente una malattia terminale, tende a restringere le prospettive della persona, perché questa tende rapidamente a preoccuparsi degli alti e bassi della malattia e degli eventi quotidiani connessi alla propria salute. La domanda spesso ripetuta: «Come stai?» incoraggia la gente adire e ridire la propria storia, spesso contro il proprio desiderio.

Penso che molti desiderino rimanere partecipi del mondo più ampio e sarebbero contenti di ascoltare e parlare a proposito delle cose che avvengono al di fuori della loro casa o dell'ospedale.

Ricordo vivamente quanto mi sentissi riconoscente, durante il soggiorno in ospedale dopo il mio incidente, perché i visitatori non chiedevano e non parlavano di me, ma attiravano la mia attenzione su qualcosa al di là di me. Ero davvero grato di non essere separato dal mondo; mi sentivo incoraggiato e fortificato dal presupposto dei miei amici che la mia malattia non mi impedisse di essere veramente interessato alle lotte degli altri. n fatto di sentirmi costantemente richiamato e ricollegato alle sofferenze più ampie dei miei fratelli e sorelle della famiglia umana non mi paralizzava; al contrario, questo legame aveva un effetto ristoratore. La guarigione non è venuta dal fatto di essere trattato come un bambino, ma come un adulto maturo, capace di vivere il dolore insieme con gli altri.

Non propongo che ci curiamo dei morenti semplicemente parlando loro di tutte le miserie del mondo; sarebbe poco saggio e inutile. Non intendo dire che dobbiamo causare ansietà ai nostri amici morenti per le sofferenze degli altri: ma intendo dire che quando ci saremo noi stessi fatta amica la nostra mortalità non avremo più bisogno di isolare i nostri amici morenti e sapremo per intuito come mantenere la comunione con la più ampia e sofferente famiglia umana. Quando noi che ci curiamo dei morenti non abbiamo paura di morire, siamo meglio in grado di preparare il morente alla morte e di approfondire la sua comunione con gli altri, anziché separarlo da loro.

Qualche anno fa la IMAX ha prodotto un breve film dal titolo The Blue Planet (Il pianeta azzurro), ripreso da una navetta spaziale. La parte più notevole di questo film è che essa ci consente di vedere ciò che vedono gli astronauti: il nostro pianeta. Per la prima volta nella storia umana possiamo vedere la terra da lontano. Contemplando la nostra terra ci rendiamo conto che la bella sfera azzurra che si muove nell'universo è la nostra casa. Possiamo dire: «Guarda ! È qui che viviamo, qui che lavoriamo, che abbiamo la nostra famiglia. È questa la nostra casa. Non è forse un bel luogo dove vivere?».

Guardando a quel pianeta azzurro, nella sua maestosità e bellezza, come alla nostra casa, abbiamo improvvisamente una nuova comprensione della parolanostro. Nostro significa di tutti, di ogni continente, di ogni colore, religione, razza ed età. Viste dalla navetta spaziale, le molte differenze tra la gente, che causano odio, violenza, guerra, oppressione, fame e reciproca distruzione, sembrano ridicole. Dalla distanza della navetta spaziale è chiaro come il sole che abbiamo la medesima casa, ci apparteniamo a vicenda, dobbiamo prenderci cura insieme del nostro bel pianeta azzurro per potervi vivere, non soltanto oggi, ma nel lontano futuro. L'era dello spazio ha reso possibile la crescita in noi di una nuova coscienza della fondamentale unità di tutti gli esseri umani sulla terra e della comune responsabilità di tutti di prendersi cura l'uno dell'altro e, insieme, della nostra casa.

Vedendo da lontano il nostro pianeta azzurro possiamo dire in modo nuovo: «Siamo veramente fratelli e sorelle, come Gesù ci ha detto tanto tempo fa. Siamo tutti nati come esseri fragili; morremo tutti come esseri fragili. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro e della nostra casa così ben fatta, per vivere bene e morire bene».

La visione a distanza della nostra casa può aiutarci a vivere e a morire con una più profonda coscienza del nostro essere figli dell'unico Dio e fratelli e sorelle gli uni degli altri, e a saperci curare veramente degli altri.

6

Siete padri e madri

delle generazioni che verranno

L' anno scorso, durante la Settimana Santa, mentre cenavo con alcuni amici nel centro di Toronto, ricevetti una telefonata: Connie Ellis, che da sei anni era la mia segretaria nonché una mia cara amica, si era improvvisamente ammalata ed era stata ricoverata in ospedale. Fino al pomeriggio inoltrato aveva cercato di portare a termine il lavoro su un testo che dovevo portare con me in Europa dopo Pasqua, poi, stanca, era andata a casa, e all'improvviso era stata colta dal- lo stordimento e dall'ansia. Per fortuna era ancora riuscita a telefonare a Carmen, sua nuora. Quando Carmen udì il discorso confuso e quasi incomprensibile di Connie si preoccupò e si precipitò a casa sua.

Gli esami del giorno successivo mostrarono che Connie aveva subito un trauma provocato da un esteso tumore cerebrale. Venerdì Santo fu sottoposta a un grave intervento chirurgico; l'operazione ebbe «successo», ma lasciò Connie paralizzata dal lato sinistro, incapace di camminare da sola e col costante pericolo di una caduta. Dopo una lunga radioterapia i medici dissero a Connie che il cancro era in remissione, ma lei rimaneva fragile, senza molte prospettive che le cose sarebbero tornate «normali» per lei.

Per anni Connie era stata famosa per la sua grande vitalità, la sua competenza e la sua capacità di fare molte cose in poco tempo. Era diventata la mia mano destra e la mia mano sinistra. Conosceva tutte le persone che venivano in ufficio, telefonavano o scrivevano, e aveva stabilito un rapporto affettuoso con molti di loro. L'aiuto, il sostegno e il consiglio che aveva dato a innumerevoli persone nei sei anni in cui avevamo lavorato insieme l'aveva resa amica di molti; il suo ministero era diventato altrettanto importante del mio.

Ed ecco, in un attimo tutto questo era finito. Lei, che era sempre stata pronta ad aiutare gli altri, ora aveva bisogno dell'aiuto degli altri. In un solo giorno una donna forte, sana, attiva ed efficiente era diventata totalmente dipendente dalla famiglia e dagli amici. Era doloroso per me vedere la mia intima amica e collaboratrice perdere improvvisamente la capacità di fare tante cose e di aiutare tanta gente; speravo però anche di poter constatare che questo cambiamento radicale non aveva incrinato il suo atteggiamento fiducioso e aperto. Connie, infatti, mi ha detto spesso: «Provo una profonda pace interiore. Sono sicura che Dio farà un miracolo per me, ma se non lo farà sono pronta a morire. Ho avuto una bella vita».

Riflettendo su questo evento drammatico nella vita di Connie, e rendendomi conto che in realtà lei non è che una delle tante persone che hanno vissuto esperienze analoghe, mi chiedo che significato dargli. Qualunque cosa ci accada noi chiediamo: «Perché accade a me? Che cosa significa?».

Nella vita di Connie una parte importante del suo significato le è derivato dal rapporto con i suoi due figli, John e Steve, e con le loro famiglie. La sua stret- ta amicizia con la moglie di Steve, Carmen, e specialmente con i due nipotini, Charles e Sarah, le hanno dato grande gioia e soddisfazione. Una delle gioie di Connie, prima della sua malattia, era quella di portare Charles a giocare a hockey e di offrirgli il suo incoraggiamento dai margini del campo. Potevo criticare chiunque in presenza di Connie, ma non «Carmen e i bambini», che erano, semplicemente, al di là di ogni critica. La vita di Connie ha ricevuto grande significato anche dal suo lavoro in ufficio. Fino all'ultimo minuto della sua vita lavorativa ha goduto immensamente di quello che faceva, e lo faceva con una dedizione instancabile. Ricordo com'era felice di aver potuto trascrivere tutte le mie interviste con i cinque trapezisti del circo, sosteneva con fervore la mia «folle» idea di scrivere un libro su di loro e voleva essere sicura che avessi in mano tutti i testi necessari prima di tornare in Germania per fare altre interviste. Il nostro lavoro insieme, vario quanto febbrile, ha dato significato alla sua vita. Poche persone si rendevano conto che aveva più di settant' anni e che a volte si sentiva stanca.

Quando, all'improvviso, ogni cosa è cambiata, la questione del significato è tornata in tutta la sua forza. Per un po' di tempo la preoccupazione fu quella di stare meglio e di diventare di nuovo indipendente. «Quando potrò guidare di nuovo l'automobile non sarò più così dipendente da John, Steve e Carm e i bambini, e potrò gestirmi di nuovo da sola». Poco alla volta comprese però che questo non sarebbe mai stato possibile; per il resto della sua vita avrebbe probabilmente avuto bisogno dell'aiuto degli altri.

Aver cura di Connie e delle tante persone che non possono più aspettarsi di tornare alloro lavoro, che non possono più essere di utilità alla famiglia o agli amici, vuole dire cercare un nuovo significato, un significato non più legato alle attività e alle cose da fare. In qualche modo il significato deve nascere dalle «passività» dell'attesa.

Gesù è passato nella sua vita dall'azione alla passione. Per alcuni anni è stato estremamente attivo, predicando, insegnando, aiutando, sempre circondato da grandi folle e sempre spostandosi di luogo in luogo. Ma nell'Orto del Getsemani, dopo la sua ultima cena con i discepoli, fu consegnato nelle mani di coloro che erano esasperati da lui e dalle sue parole. Fu dato nelle loro mani per essere oggetto dell'azione degli altri. Da quel momento Gesù non prese più iniziative, non fece più nulla: fu arrestato, messo in prigione, deriso, torturato, condannato e crocifisso. Non ci fu più nessuna azione. Il mistero della vita di Gesù è che egli ha compiuto la sua missione non attraverso l'azione ma divenendo oggetto dell' azione di altri. Quando alla fine disse: «È compiuto» (Gv19,30), egli intendeva non soltanto: «Ho fatto tutto quello che dovevo fare», ma anche: «Tutto quello che mi doveva essere fatto mi è stato fatto». Gesù ha portato a termine la sua missione sulla terra essendo oggetto passivo di quello che altri gli hanno fatto.

Anche noi siamo chiamati a vivere quello che Gesù ha vissuto. La nostra vita, quando è vissuta nello spirito di Gesù, troverà il suo adempimento in un ge- nere analogo di dipendenza. Gesù lo ha espresso chiaramente quando ha detto a Pietro: «Quand'eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove vo- levi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Anche noi dobbiamo passare dal- l'azione alla «passione», dal dominio sulla nostra vita alla dipendenza, dall'iniziativa all'attesa, dal vivere al morire.

Per quanto questo passaggio appaia doloroso e quasi impossibile, è in questo movimento che si nasconde la nostra vera fecondità. I nostri anni di attività sono anni di successi e di realizzazioni; in quegli anni facciamo cose di cui possiamo parlare con orgoglio. Ma molti di quei successi e di quelle realizzazioni staranno presto dietro alle nostre spalle. Potremo ancora far loro riferimento sotto forma di trofei, medaglie od oggetti artistici, ma che cosa vi è al di là del nostro successo e della nostra produttività? La fecondità sta al di là di questo, ed essa viene attraverso la passione, la sofferenza. Come il suolo può portare frutto solo quando è frantumato dall'aratro, così la nostra vita può portare frutto soltanto quando è arata dalla passione. Soffrire è precisamente «subire» l'azione di altri, un'azione che non possiamo controllare. Morire è sempre soffrire, perché il morire ci colloca sempre 1à dove altri ci fanno ciò che decidono di fare, bene o male che sia.

Non è facile aver fiducia che la nostra vita porti frutto soltanto attraverso questo tipo di dipendenza perché, in generale, .noi stessi sperimentiamo la di- pendenza come qualcosa di inutile e di gravoso. Spesso proviamo sconforto, fatica, confusione, disorientamento e dolore, ed è difficile pensare che da questa vulnerabilità possa venire frutto. Vediamo soltanto un corpo e una mente ridotti in frantumi dall'aratro che altri tengono nelle loro mani.

Credere che la nostra vita si adempia nella dipendenza richiede un enorme salto di fede. Tutto quello che vediamo o sentiamo, e tutto quello che la nostra società ci propone attraverso i valori e le idee che afferma, indica la direzione opposta. È il successo che conta, e non la fecondità: e certamente non la fecondità che si ottiene attraverso la passività. Ma la passione è la via che Dio ci indica attraverso la croce di Gesù. È la via che cerchiamo di evitare a tutti i costi, e nondimeno è la via della salvezza. Questo spiega perché è così importante prendersi cura dei morenti. Prendersi cura dei morenti significa aiutare il morente a compiere quel difficile passo dall'azione alla passione, dal successo alla fecondità, dal chiedersi quanto potrà ancora fare, a fare della sua stessa vita un dono per gli altri. Significa aiutare il morente a scoprire che la forza di Dio diviene visibile nella sua crescente debolezza. Le ben note parole dell'apostolo Paolo: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i. forti» (1 Cor 1,17) assumono qui un nuovo significato, perché i deboli non sono soltanto i poveri, i disabili e i malati mentali, ma anche i morenti: tutti noi morremo un giorno. Dobbiamo credere che è anche in questa debolezza che Dio confonde i forti e rivela la vera fecondità umana. È questo il mistero della croce. Quando Gesù fu messo in croce la sua vita di- venne infinitamente feconda: qui la debolezza più grande e la forza più grande si sono incontrate. Noi possiamo partecipare a questo mistero attraverso la nostra morte. Aiutarci l'un l'altro a morire significa aiutarci l'un l'altro a reclamare fecondità nella nostra debolezza. Così il nostro morire ci rende capaci di abbracciare la nostra croce con la fiducia che ne emergerà nuova vita. Gran parte di questo diventa concreto quando siamo vicini a persone che devono venire a patti con la morte che si sta avvicinando.

Dopo l' operazione al cervello Connie ha espresso sempre un duplice desiderio: il desiderio di un «miracolo», come lo chiamava - guarire completamente ed essere in grado di riprendere una vita normale - e il desiderio di morire in pace, senza causare troppo dolore ai suoi figli e nipoti. Quando divenne chiaro che una completa guarigione era improbabile, cominciò a pensare e a parlare di più della sua morte e a come prepararvi se stessa e la sua famiglia.

Ricordo nitidamente quel che mi disse un giorno: «Non ho paura di morire. Mi sento sicura nell'amore di Dio. So che tu e tanti altri pregate per me ogni giorno e che nulla di male può accadermi. Ma mi preoccupo per i bambini». Dicendo questo, cominciò a piangere. Sapevo quanto si sentisse legata ai suoi nipotini, Charles e Sarah, e quanto l'interessasse la loro vita, la loro felicità e il loro futuro. Le chiesi: «Che cosa pensi?». Mi rispose: «Non voglio che i bambini soffrano a causa mia. Non voglio che diventino tristi e afflitti vedendomi morire. Mi hanno sempre visto come la loro forte nonna sulla quale potevano contare; non mi conoscono come una donna paralizzata, a cui cadono i capelli a causa della radioterapia. Mi preoccupo quando guardo i loro visetti e li vedo ansiosi e tristi; voglio che siano dei bambini felici, ora e dopo che me ne sarò andata». Connie non pensava a se: voleva essere sicura che avrei trovato una persona capace che prendesse il suo posto in ufficio; voleva essere sicura che la sua malattia non avrebbe interrotto la vita dei bambini e delle loro famiglie e, più di tutto, voleva che i suoi nipotini fossero bambini felici, e si preoccupava che la sua malattia e la sua morte potessero impedirlo.

Vedendo la sua pena, ho compreso più che mai quale persona straordinaria, generosa e sollecita sia Connie: si preoccupa profondamente per tutti quelli che fanno parte della sua vita; il loro benessere, le loro gioie, i loro sogni le interessano più dei propri. In questa società, dove la gente pone quasi sempre al centro se stessa, Connie è un vero raggio di luce.

E tuttavia, volevo che Connie andasse oltre le sue ansie e avesse fiducia che il suo amore per la famiglia e gli amici sarebbe stato fecondo. Volevo che si con- vincesse che l'importante non era soltanto quello che faceva o avrebbe potuto ancora fare per gli altri, ma anche - e ancora di più - ciò che viveva nella sua malattia, e come lo viveva. Volevo che giungesse a capire che, nella sua crescente dipendenza, dà più ai suoi nipotini che non nel tempo in cui poteva accompagnarli in automobile a scuola, nei negozi o sui campi di gioco. Volevo che scoprisse che i momenti in cui ha bisogno di loro sono altrettanto importanti dei momenti in cui loro hanno bisogno di lei. In realtà, nella sua malattia, è diventata la loro vera maestra. Parla loro della sua gratitudine per la vita, della sua fiducia in Dio e della sua speranza in una vita dopo la morte; mostra loro una vera riconoscenza per tutte le piccole cose che fanno per lei, e non tiene nascoste le sue lacrime e le sue paure quando non può dominarle, ma ritorna sempre al sorriso.

Connie stessa non può vedere tutta la sua bontà e il suo amore, ma io e le tante persone che le fanno visita possono farlo. Ora, nella sua crescente debolezza, lei che ha vissuto una vita così lunga e produttiva, dà ciò che non poteva dare nella sua forza: un barlume della verità che l'amore è più forte della morte. I suoi nipotini matureranno pienamente i frutti di tale verità.

Nel nostro morire diventiamo padri e madri delle generazioni che verranno. Come è stato vero questo per tante sante persone. Nella loro debolezza esse ci hanno dato la visione della grazia di Dio, e sono ancora vicine a noi: Francesco di Assisi, Martin Lutero, John Henry Newmann, Teresa di Lisieux, il Mahatma Gandhi, Thomas Merton, Giovanni XXIII, Dag Hammarskjold, Dorothy Day e tante persone che hanno fatto parte della nostra cerchia di familiari e amici. I nostri pensieri e i nostri sentimenti, le nostre parole e i nostri scritti, i nostri sogni e le nostre visioni, non sono soltanto nostri, appartengono anche ai tanti uomini e donne che sono già morti e vivono ora con noi. La vita e la morte di queste persone porta ancora frutto nella nostra vita. La loro gioia, la loro speranza, il loro coraggio, la loro apertura e fiducia non sono morti con loro,

ma continuano a fiorire nel nostro cuore e nel cuore dei tanti che sono vincolati a noi nell'amore. Queste persone hanno veramente continuato a inviarci lo Spirito di Gesù e a darci la forza di percorrere fedelmente il cammino che abbiamo intrapreso.

Anche noi dobbiamo fare in modo che la nostra morte diventi feconda nella vita di coloro che verranno dopo di noi. Senza sollecitudine per gli altri è tuttavia difficile, se non impossibile, che la nostra vita porti frutto nelle generazioni che verranno. Priva di questa sollecitudine, la nostra società ci fa credere che siamo quello che abbiamo, che facciamo o che la gente pensa di noi. Se abbiamo questa convinzione, la nostra morte è veramente la fine, perché quando moriamo ogni proprietà, successo e popolarità svaniscono. Se non ci curiamo l'uno dell'altro dimentichiamo chi siamo veramente: figli di Dio e fratelli e sorelle gli uni degli altri; e non possiamo quindi diventare padri e madri delle generazioni che verranno. Ma se formiamo questa comunità di persone sollecite possiamo ricordare 1'uno all'altro che porteremo frutto molto al di là dei pochi anni che abbiamo da vivere, e possiamo avere fiducia che coloro che vivranno molto tempo dopo che noi saremo morti riceveranno ancora i frutti dei semi che abbiamo seminato nella nostra debolezza e trovare in essi nuova forza. Come comunità di persone sollecite per gli altri possiamo inviarci a vicenda lo Spirito di Gesù, divenendo così quel popolo fecondo di Dio che abbraccia il passato, il presente e il futuro ed è una luce nelle tenebre.

I nostri pasti nella comunità di Daybreak indicano qualcosa della fecondità che nasce dalla debolezza. Nelle nostre case i pasti sono il momento alto della nostra vita quotidiana; sono come piccole celebrazioni. Si mangia il cibo lentamente, perché molti di noi non possono mangiare da soli e vanno aiutati. Le conversazioni intorno alla tavola sono semplici, perché molti di noi non possono parlare, e quelli che possono farlo non usano molte parole. Le preghiere sono sempre per gli altri; ogni persona viene menzionata per nome perché, per i disabili mentali, le altre persone sono quelle che contano veramente. Spesso vi sono candele e fiori, e in occasioni speciali vi sono striscioni e palloncini.

Ogni volta che partecipo a uno di questi pasti divento acutamente consapevole che i doni dello Spirito di Gesù ci sono dati nella debolezza. Persino quando molti di noi sperimentano una grave sofferenza fisica o psicologica, parecchi non possono fare un passo senza aiuto e alcuni hanno scarso modo di comunicare bisogni e desideri, i doni spirituali della pace, della gioia, della bontà, del perdono, della speranza e della fiducia sono abbondantemente presenti. La nostra vulnerabilità condivisa sembra essere l'atmosfera prediletta da Gesù per mostrarci il suo amore, perché non siamo certamente noi ad aver creato questi doni di amore: non sapremmo neppure da dove cominciare a farlo. Molti di noi sono già troppo preoccupati di sopravvivere, o di aiutare gli altri a sopravvivere. Come in tutte le famiglie e comunità, vi sono anche tensioni e conflitti. Eppure, sembra che intorno a questa tavola di povertà Gesù divenga possentemente presente, e invii generosamente il suo spirito.

Durante il momento della preghiera alla fine di ogni pasto diventa evidente che questi pasti a Daybreak hanno un carattere di memoriale. Noi eleviamo a Dio con gratitudine non soltanto la nostra vita, ma anche la vita di coloro di cui conosciamo le debolezze, e specialmente la vita di coloro che muoiono o sono morti. Facciamo quindi tutti parte della nostra «confraternita della debolezza».

Questi pasti commemorativi sono anche un modo di prenderci cura l'uno dell'altro e di prepararci a vicenda ad accettare la nostra vulnerabilità ultima. È poco probabile che qualcuno parlerà mai di questi nostri pasti serali come di «ultime cene», e nondimeno noi vogliamo dirci a vicenda: «Quando non sarò più qui, continuate a ricordarmi ogni volta che vi riunirete per mangiare, bere e celebrare, e in cambio io vi invierò lo Spirito di Gesù, che approfondirà e rafforzerà i legami di amore che vi tengono uniti». Ogni pasto in cui ricordiamo Gesù e coloro che sono morti in lui ci prepara anche alla nostra propria morte. Non solo, quindi, nutriamo noi stessi, ma ci nutriamo a vicenda, e diventiamo così ogni giorno un po' di più la comunità di sollecitudine reciproca alla quale apparterremo sempre.

La scelta di aver cura degli altri

Per occuparci in modo positivo dei morenti dobbiamo avere la profonda fiducia che queste persone sono amate quanto lo siamo noi, e dobbiamo rendere quest'amore visibile con la nostra presenza; dobbiamo aver fiducia che il loro morire e la loro morte rendono più profonda la loro solidarietà con la famiglia umana, e dobbiamo condurli a diventare parte della comunione dei santi; infine, dobbiamo avere fiducia che la loro morte, come la nostra, renderà feconda la loro vita per le generazioni future. Dobbiamo incoraggiarli ad abbandonare le loro paure e a sperare al di là dei confini della morte.

Assistere bene i morenti, così come morire bene, richiede una scelta. Quantunque tutti portiamo dentro di noi il dono di questa sollecitudine per gli altri, questo dono può diventare visibile soltanto quando lo scegliamo.

Siamo costantemente tentati di pensare che non abbiamo nulla o ben poco da offrire agli altri esseri umani. La loro disperazione ci spaventa, e spesso sembra meglio non essere loro vicini che esserlo senza essere capaci di cambiare qualcosa. Questo è vero specialmente in presenza di persone che si trovano di fronte alla morte. Allontanandoci dai morenti noi seppelliamo tuttavia il dono prezioso della sollecitudine che è in noi.

Ogni qualvolta reclamiamo questo dono e scegliamo di abbracciare non soltanto la nostra propria mortalità ma anche quella degli altri, possiamo diventare una vera fonte di guarigione e di speranza. Quando abbiamo il coraggio di lasciar esprimere il nostro bisogno di sollecitudine per gli altri, la nostra presenza può veramente guarire in modi che vanno al di là dei nostri sogni e delle nostre attese. Col dono della nostra sollecitudine possiamo condurre dolcemente i nostri fratelli e sorelle morenti sempre più nel profondo del cuore di Dio e dell'universo di Dio.

Conclusione

La grazia della risurrezione

Sono trascorse quasi tre settimane da quando ho cominciato a scrivere questo libro sul come morire bene e aver cura degli altri, e pur essendo rimasto per la maggior parte del tempo nel mio eremitaggio al terzo piano della casa di Franz e Reny, nella mia mente ho viaggiato in lungo e in largo. Sono stato con Maurice e con Connie in Canada, con Richard negli Stati Uniti e con Marina in Olanda. Ho «fatto visita» a innumerevoli persone in Europa, Asia, Africa e America Latina, che stanno morendo a causa della guerra, della fame e dell'oppressione, e ho cercato di abbracciare col cuore quelli che sono vissuti e sono morti, ma continuano a guidarmi e a ispirarmi con le loro azioni e con le loro parole.

In tutti questi ampi itinerari mentali ho cercato di riaffermare per me stesso e per gli altri che siamo figli di Dio, sorelle e fratelli gli uni degli altri e padri e madri delle generazioni future. Ho cercato di scandagliare in che senso questa identità spirituale ci offra una prospettiva non solo sul come morire bene noi stessi, ma anche sul come aver cura degli altri che stanno morendo.

Ora che me ne sto seduto alla scrivania a scrivere questa conclusione mi rendo conto dell'interrogativo che può essere sorto a chi legge queste parole: «E la risurrezione?». Mi sorprende che finora io non abbia scritto della risurrezione, ne abbia sentito il bisogno di farlo. Semplicemente, mentre scrivevo non mi pareva una questione urgente; ma il fatto che la risurrezione non si sia presentata in tutta la sua urgenza non significa che non sia importante. Al contrario, la risurrezione è più importante di ogni altra cosa che ho scritto finora, perché la risurrezione è il fondamento della fede. Scrivere sul morire e sulla morte senza menzionare la risurrezione è come scrivere di un veliero senza menzionare il vento. Sono la risurrezione di Gesù e la speranza della nostra risurrezione che mi hanno reso possibile scrivere nel modo in cui ho scritto del morire e della morte. Oso dire con l'apostolo Paolo: «Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? ...ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (lCor 15,12-19).

Sembra davvero difficile avere sulla risurrezione una opinione più forte di quella che Paolo esprime con queste parole, e io voglio far mie le parole di Paolo. Eppure, io non ho scritto sulla risurrezione di Gesù e sulla nostra. Penso che la mia esitazione a scriverne sia legata alla mia convinzione che la risurrezione di Gesù è un evento nascosto. Gesù non è risorto dai morti per provare a quelli che l'avevano crocifisso che si erano sbagliati, o per confondere i suoi avversari; ne è risorto per impressionare i governanti del suo tempo o per costringere chiunque a credere. La risurrezione di Gesù è stata la piena affermazione dell'amore del Padre. Egli si è mostrato soltanto a coloro che sapevano di questo amore; si è fatto conoscere come Signore risorto soltanto al piccolo gruppo dei suoi intimi amici. Probabilmente nessun altro evento della storia umana è stato di tale importanza e nello stesso tempo così privo di ogni spettacolarità. Il mondo non ha preso nota della risurrezione di Gesù; soltanto pochi sapevano, coloro ai quali Gesù aveva scelto di mostrarsi e che egli voleva mandare ad annunciare l'amore di Dio al mondo, così come lui aveva fatto.

Per me il carattere nascosto della risurrezione di Gesù è importante. Sebbene essa sia la pietra angolare della mia fede, non è qualcosa da usare come una argomentazione, o per rassicurare la gente. In fondo, non si prende abbastanza sul serio la morte dicendo al morente: «Non aver paura. Dopo la tua morte sa- rai risuscitato come Gesù, incontrerai di nuovo tutti i tuoi amici e sarai felice

per sempre alla presenza di Dio». Questo fa pensare che dopo la morte ogni cosa sarà essenzialmente la stessa, tranne che le nostre difficoltà scompariranno. E non si prende abbastanza sul serio Gesù stesso, che non visse la propria morte come se fosse poco più che un passaggio necessario a una vita migliore. Infine, non si prende abbastanza sul serio il morente che, come noi, non conosce nulla di ciò che vi è al di là di questa esistenza legata al tempo e allo spazio.

La risurrezione non risolve i nostri problemi sul morire e sulla morte. Non è il lieto fine della nostra lotta per la vita, e neppure è la grande sorpresa che Dio ha tenuto in serbo per noi. No, la risurrezione è l'espressione della fedeltà di Dio a Gesù e a tutti i figli di Dio. Attraverso la risurrezione Dio ha detto a Gesù: «Tu sei il mio diletto Figlio, e il mio amore è eterno», e ha detto a noi: «Voi siete i miei diletti figli, e il mio amore è eterno». La risurrezione è il mo- do in cui Dio ci rivela che nulla di ciò che gli appartiene andrà sprecato: ciò che appartiene a Dio non andrà mai perduto, neppure i nostri corpi mortali. La risurrezione non risponde a nessuna delle curiosità sulla vita dopo la morte, quali: come sarà? che aspetto avrà? Ma ci rivela che veramente l'amore è più forte della morte. Dopo questa rivelazione dobbiamo rimanere in silenzio, dobbiamo lasciarci alle spalle i perché, i dove, i come e i quando, e semplicemente avere fiducia.

In occasione del suo novantesimo compleanno mio padre fu intervistato da una radio olandese. L'intervistatore, dopo avergli posto molte domande sulla sua vita e sul suo lavoro, e ancora di più sull'attuale sistema fiscale in Olanda - dato che era quello l'interesse professionale di mio padre - alla fine volle sapere da mio padre cosa pensava che gli sarebbe accaduto dopo la sua morte.

Mio padre e io ascoltammo insieme il programma trasmesso una settimana dopo la registrazione. Io ero naturalmente molto curioso di sapere quale sarebbe stata la risposta di mio padre a quella domanda, e lo udii dire all'intervistatore: «Ho molto poco da dire in proposito. Non credo veramente che rivedrò mia moglie o i miei amici così come ci vediamo ora. Non ho aspettative concrete. Sì, vi è qualcos'altro, ma quando non vi è più ne lo spazio ne il tempo ogni parola su quel "qualcos'altro" non avrebbe molto senso. lo non ho paura di morire, non desidero diventare centenario. Voglio solo vivere la mia vita ora il meglio che posso e... quando morirò, bene, allora vedremo!».

Forse la fede di mio padre, così come la sua mancanza di fede, è proprio riassunta in queste parole: «Bene, allora vedremo». In queste parole il suo scetticismo e la sua fede si toccano. «Bene, allora vedremo» può significare: «Bene, è tutto per aria», o «Bene, alla fine vedremo quello che abbiamo sempre voluto vedere!». Vedremo Dio, ci vedremo l'un l'altro. Gesù lo disse chiaramente: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti ...vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14,1-3). Quando Gesù apparve a Maria di Magdala accanto al sepolcro vuoto, la rinviò con le parole: «Va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17).

Il Gesù risorto, mangiando e bevendo con i suoi amici ha rivelato che l' amore di Dio per noi, il nostro amore reciproco e il nostro amore per coloro che sono vissuti prima e vivranno dopo di noi, non è soltanto un'esperienza che trascorre rapidamente, ma una realtà eterna che trascende il tempo e lo spazio. Il Gesù risorto che mostra ai suoi amici le mani e i piedi forati e il costato trafitto, ha anche rivelato che tutto quello che abbiamo vissuto nel nostro corpo durante i nostri anni sulla terra - le nostre esperienze sia gioiose che dolorose - non cadranno semplicemente dalle nostre spalle come un mantello inutile, ma segneranno il nostro modo unico di essere con Dio e con l'altro mentre compiamo il passaggio della morte.

«Bene, allora vedremo» avrà sempre probabilmente un doppio significato. Come il padre del fanciullo epilettico che chiese a Gesù di guarire suo figlio, dovremo sempre dire: «lo credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,25). Eppure, quando teniamo lo sguardo fisso sul Signore risorto, possiamo scoprire non soltanto che l'amore è più forte della morte, ma anche che la nostra fede è più forte del nostro scetticismo.

Epilogo

La morte: una perdita e un dono

Ieri pomeriggio, proprio mentre stavo finendo di scrivere la conclusione di questo libro, Jean Vanier mi ha chiamato da Trosly, in Francia, e mi ha detto con dolcezza: «Henry, Père Thomas è morto questa mattina». pere Thomas Philippe, un sacerdote domenicano francese, era stato il padre spirituale di Jean e co-fondatore dell'Arche. Era un uomo ardente d'amore per Gesù, per Maria, la Madre di Gesù, e per tutti i «piccoli» di questo mondo. Père Thomas, che aveva ispirato il suo studente e amico Jean Vanier e lo aveva incoraggiato a lasciare il suo incarico d'insegnante a Toronto per iniziare un'esistenza accanto ai disabili, questo santo e umile sacerdote domenicano adesso era morto.

Ascoltando Jean, sentii la voce di un uomo che aveva perduto la sua guida e doveva ora continuare da solo. «Quale perdita per te! », gli dissi. Egli replicò: «Sì, una grande perdita per me e per l' Arche. ..ma anche un grande dono».

La morte di Père Thomas è davvero una perdita e un dono. Una perdita, perché tante persone, me incluso, non possono più andare a fargli visita e trovare nuova speranza solo per il fatto di essere con lui. Nel periodo più difficile della mia vita, quando feci l' esperienza di una grande angoscia e disperazione, lui era là. Molte volte attirò il mio capo sul suo petto e pregò per me senza parole, ma con un silenzio ricolmo dello spirito che disperdeva i demoni della disperazione e faceva sì che mi sciogliessi dal suo abbraccio con una nuova vitalità. Innumerevoli persone sono state disposte ad attendere ore nell'anticamera della sua stanzetta per stare con lui. Gente disperata, gente con gravi sofferenze psicologiche, gente ango- sciata per le scelte che doveva fare, gente che non sapeva come pregare, gente che non poteva credere in Dio, gente che aveva rotto i rapporti con gli altri e, di recente, gente che viveva con l'AIDS e cercava qualcuno che l'aiutasse a morire bene. Abbiamo perduto il nostro buon pastore, il nostro «bastone e vincastro» in questa valle oscura e ci chiediamo come fare ad andare avanti senza di lui.

Ma, come ha detto Jean, la morte di Père Thomas è anche un dono. Ora la sua vita può portare pienamente frutto. Père Thomas ha sofferto immensamente. Ha sofferto per la chiesa che amava tanto, specialmente quando la chiesa aveva chiuso la comunità internazionale di studenti che aveva fondato e non gli aveva più consentito di proseguire la sua opera di cappellano nell'università.

Aveva sofferto di una grande solitudine quando era venuto nel piccolo villaggio di Trosly, nel nord della Francia, per iniziare il suo ministero presso un gruppo di giovani mentalmente disabili. Aveva sofferto durante le lunghe ore passate di fronte al beato sacramento nella sua piccola cappella, chiedendosi che cosa Gesù volesse da lui. E, dopo aver avviato l'Arche insieme con Jean Vanier, spesso aveva sofferto per la sensazione di essere frainteso, e anche respinto, specialmente quando vedeva profilarsi degli sviluppi molto diversi da quelli che si aspettava. Invecchiando, entrò in una comunione ancora più profonda con Gesù sulla croce, soffrendo con lui una grande angoscia e vivendo sentimenti di abbandono.

Quando, alla fine, non poté più stare con tanta gente, si ritirò nel sud della Francia, dove visse alcuni anni ignorato dai più. Qui è morto, qualche giorno dopo che Jean gli aveva fatto visita e poche ore dopo che suo fratello, Père Marie Dominique, gli aveva dato l'Eucaristia. Questo era ieri, 4 febbraio, all'una del mattino. Come aveva detto Jean, la morte di Père Thomas non è soltanto una perdita, ma anche un dono. È la fine di una grande sofferenza e il principio di una nuova fecondità nell'Arche, nella chiesa, nella società e nel cuore dei tanti .che fanno cordoglio per la sua morte.

Quando ho cominciato a scrivere questo libro non pensavo a Père Thomas, anche se egli è stato la mia guida spirituale da quando sono venuto all'Arche.Da quando aveva lasciato Trosly viveva talmente ritirato che persino io non mi ero reso pienamente conto che non aveva ancora compiuto il passaggio finale. Ora comprendo quanto immensamente solo deve essere stato in questi ultimi anni, solo come Gesù era solo sul Golgota, «il luogo del teschio» ( Gv19,17 ) .Ma dalla telefonata di Jean egli è con me. Egli è davvero il figlio diletto di Dio, fratello di tutti quelli che ha amato e padre dei tanti che riceveranno vita dall'udire di lui, ascoltando le sue registrazioni eleggendo i suoi libri. Ho incontrato raramente un uomo che amasse in modo così profondo e intenso. Era veramente infiammato d'amore. Amava tanto che osò dirmi: «Quando non puoi dormire la notte, pensa a me, e starai bene». Aveva una tale fiducia che lo Spirito di Gesù ardesse in lui che non diceva: «pensa a Dio», o «pensa a Gesù», o «pensa allo Spirito», ma diceva: «pensa a me». Era questo amore ardente che dava guarigione a tante persone e lo faceva tanto soffrire. Era questo amore che penetrava ogni parte del suo essere, facendo di lui una preghiera vivente: una preghiera con occhi, mani e bocca, che poteva soltanto vedere, toccare e parlare di Dio. Questo amore lo consumava, come aveva consumato Gesù, e consumandosi dava vita. Questo amore non poteva e non può morire, ma può solo continuare a crescere.

La morte di Père Thomas mi viene donata oggi per terminare questo libro. Père Thomas è stato un grande dono per Jean, per me e per tanti altri.

Ora è un dono per tutti: ora può inviare lo Spirito di Gesù a ognuno, e lo Spirito può soffiare dove e quando vuole.

Domani, sabato, lascerò Friburgo per andare in Francia. Non pensavo che sarei partito così presto - sono stato qui soltanto tre settimane - ma dopo la telefonata di Jean voglio essere a Trosly, dove il corpo di Père Thomas verrà trasportato e sepolto. Non voglio più starmene da solo nel mio appartamentino, a scrivere sul morire bene e l'aver cura dei morenti. Voglio essere con quella grande comunità di persone, poveri e ricchi, giovani e vecchi, forti e deboli, raccolte intorno al corpo dell'uomo che ha amato tanto ed è stato tanto amato. Viaggiando da Friburgo a Strasburgo, da Strasburgo a Parigi, da Parigi a Compiègne, e di lì a Trosly, penserò i miei pensieri e pregherò le mie preghiere in comunione con Moe, Rick, Marina, Connie e mio padre, ma mi sentirò specialmente vicino a Thomas Philippe, quest'uomo meraviglioso in cui lo Spirito di Gesù era così pienamente vivo e attivo. E in quella grande folla di persone che fanno cordoglio e rendono grazie spezzando insieme il pane in sua memoria, saprò come non mai che Dio è veramente amore.