lunedì 10 ottobre 2011

Alessandro Sauli

Oggi 11 ottobre ricordiamo:
SANT’ALESSANDRO SAULI
BARNABITA (1534-1592)
VESCOVO DI ALERIA IN CORSICA E DI PAVIA

Di seguito un articolo di
P. Filippo Lovison, B.


Sant’Alessandro Sauli è una figura davvero eccezionale di quel secolo, il Cinquecento, che, tra le
luci e le ombre della non facile vita ecclesiale e sociale del suo tempo, cercava di imboccare, con
rinnovato vigore, il cammino di fede tracciato dal Concilio di Trento, nel tentativo di superare le
pastoie poste dalla questione protestante. Proprio allora «Quando tutto sembrava perduto – rilevò
accortamente il Pastor, nella sua monumentale opera Storia dei Papi – cominciava tutto quietamente
una piega in meglio».
E così fu!
Introduzione
«Come sta, Monsignore? Expecto donec veniat immutatio mea (aspetto che arrivi la mia
trasformazione).
Lei muore per le troppe fatiche che ha fatto. Le rifarei di nuovo, e anche di più,
perché così conviene ai Prelati della Santa Chiesa».
Questo prezioso frammento del commovente
dialogo – “rubato” potremmo dire alla riservatezza del sacro momento dell’agonia – intercorso tra
mons. Alessandro Sauli e il suo fedele cappellano, Tommaso Giorgi, ci introduce bene alla
comprensione della figura di questo Vescovo barnabita, che, già ora sappiamo, non si risparmiò per il
regno di Dio. Per questo in quegli ultimi istanti di vita non aveva più bisogno di rileggere quella pagina
dell’Imitazione di Cristo, che gelosamente custodiva sotto il proprio cuscino, che si chiedeva: «A che
serve vivere a lungo? Ci correggiamo così poco».
Quell’interrogativo pare rivolto soprattutto a noi, avvertendoci che non avremo imparato nulla se
i nostri occhi non avranno visto nel Sauli altro che il trionfo di uno dei tanti Santi del XVI secolo;
avremo imparato tutto, invece, se la sua battaglia, combattuta quasi cinque secoli fa, ci avrà insegnato a
intraprendere la nostra!

Santu Lisandru
Alessandro nacque il 15 febbraio 1534, quattro anni prima di San Carlo Borromeo – le loro
vicende si intrecceranno indissolubilmente – dall’ottima, aristocratica famiglia milanese dei Sauli.
Crebbe in fretta, anche fisicamente, in altezza e nella corporatura che si fece presto massiccia, celando
bene agli sguardi superficiali il suo vero stato di salute, all’opposto cagionevole. Fin da piccolo rivelò
quella fermezza di carattere e quella nobiltà d’animo che parevano fluire armoniosamente dallo
sguardo profondo dei suoi occhi azzurri e vivaci, incastonati tra i folti capelli di gioventù, biondissimi:
piccolo indizio, anche questo, di una particolare distinzione di tratto e di valore, che a breve egli
rivelerà al mondo intero con l’assunzione coraggiosa dell’episcopato di Aleria in Corsica, dove faticò
più di tanti altri suoi illustri contemporanei, correndo come “un matto” – vero campione della Chiesa
post-tridentina – «verso Dio e verso il prossimo».
«Per lui l’ideale episcopale voluto dal Concilio di
Trento è divenuto realtà», riconoscerà, senza troppi fronzoli, il Proprio della Diocesi di Aiaccio
nell’edizione del 1986, confermandoci che il Santo è proprio così: uno di noi, come noi, ma dal passo
più veloce, in quanto sospinto dall’amore. Per questo ancora oggi Sant’Alessandro Sauli lascia attoniti
coloro che si cimentano a voler ripercorrere, seppur a parole, le tappe più significative della sua santa e
sacrificata esistenza.
La sua storia cominciò a intrecciarsi con quella dell’Ordine dei Barnabiti nel giorno in cui lo si
sentì bussare alla porta della Casa di San Barnaba in Milano – allora in aperta campagna –,
giovanissimo, non ancora diciottenne, fresco di studi, per chiedere di farsi religioso. Da quel momento
non si fermò più. Abbozzando una rapidissima panoramica a volo d’uccello, lo vediamo emettere la
tanto attesa professione religiosa il 29 settembre 1554 e ricevere l’ordinazione sacerdotale il 21 marzo
1556, a soli 22 anni (ottenendo per questo la necessaria dispensa canonica). Nel febbraio del 1557,
come prima destinazione, fu trasferito proprio a Pavia, dove aveva da poco ultimato i suoi studi
giovanili.
Giovane “padrino”, umilmente si considerava un principiante nella via di Dio: «Con parole non
potrei esprimere quanto sia grande la mia miseria e tiepidezza nel servizio del Signore», ammetteva in
quegli anni; aggiungendo poi un po’ sconsolato: «Non mi vedo buono se non per guastare l’opera del
Signore» (12 gennaio 1560). Dal carattere particolarmente riflessivo, Alessandro non osava guardare
troppo in alto, riconoscendo la sua pochezza interiore, che però voleva superare a ogni costo! Per
questo prediligeva gli studi e la loro fatica, e, grazie a una fine intelligenza e ad un’invidiabile metodica
chiarezza d’esposizione, salì nel 1562 sull’ambita cattedra di Filosofia dell’Università di Pavia, dove
poi si laureò in Teologia il 28 maggio 1563 (anno in cui Carlo Borromeo veniva ordinato prete e
vescovo, e, l’anno successivo, arcivescovo di Milano). Ma non ne fece particolare motivo di orgoglio,
anzi, ne avvertiva tutto il peso. Così, quando il celebre prof. Filippo Zaffiro gli chiese si sostituirlo
all’Università, subito, schermendosi per non sentirsene all’altezza, il 6 marzo 1562 ribadì con tono
vibrante ma fermo «che non era “Uomo suo” da poter disporre né in questo né in altro, dipendendo
dalla Santa Obbedienza». Né dimenticò, una volta cominciate quelle lezioni, di ringraziare i suoi
confratelli per le loro preghiere, «essendomi, dice, per mezzo di quelle riuscito il negozio delle lezioni
meglio di quanto aspettavo».
La solida pietà e il suo innato desiderio di nascondimento e di distacco dalle vanità del mondo, gli
permisero di abbandonare senza troppi rimpianti l’amato insegnamento, dimostrando un’invidiabile
libertà d’animo quando fu eletto – tra la sorpresa di tutti – Proposito Generale della sua Congregazione,
il 9 aprile 1567; confermata appena tre anni più tardi, quando, consacrato vescovo nel Duomo di
Milano per essere destinato a quell’aspra montagna nel mare che è la Corsica, non esitò a lasciare gli
amati studi per dedicarsi completamente alle fatiche dell’azione apostolica, iniziando un “digiuno
intellettuale” che si protrarrà per più di un ventennio. Ne risentirà una volta richiamato, nell’ultimo
scorcio della vita – contro la sua volontà –, nella dotta Pavia. Ma quel cruccio iniziale era stato via via
alleviato dalla conoscenza della ben più alta e sublime «scienza dei segreti di Dio»,
che, se poteva
apparire ben poca cosa ai suoi illustri contemporanei, che lo volevano a Pavia proprio in quanto
ritenuto “sprecato” in Corsica, lo aveva invece reso felice. La morte lo colse fedele ancora una volta al
suo umile posto di lavoro, seppur febbricitante, l’11 ottobre 1592, a Calosso d’Asti; non al tavolino
delle sudate carte, ma sulla strada polverosa di una delle sue tante, faticose visite pastorali, mentre si
spingeva fino agli estremi lembi della sua diocesi di Pavia.
La Chiesa riconoscente, dopo averlo fatto proclamare beato il 23 aprile 1741 per opera di
Benedetto XIV, riconobbe la sua santità elevandolo agli onori degli altari ad opera di S. Pio X l’11
dicembre 1904, assieme al redentorista Gerardo Maiella. Da allora in Corsica fu chiamato Santu
Lisandru. E fu dichiarato patrono degli studi e degli studenti barnabiti. Le sue spoglie mortali oggi
riposano nella magnifica cappella fatta costruire dai fratelli Pio e Angelo Bellingeri nel Duomo di
Pavia.
I primi passi
Rapida carrellata sull’esistenza unica di un Santo che possiamo, dunque, senz’altro considerare
anche “piemontese”, sufficiente però a farci intravedere la sua forte personalità, colta e poliedrica, che
a diversi livelli seppe mirabilmente esprimere la medesima passione di quando era semplice chierico
barnabita: “la rinuncia allo spirito del mondo, la totale dedizione a Dio e il servizio apostolico ai
fratelli”.
Quanto è lontana la storia di questo Santo dall’interpretazione di una certa agiografia, che
ama rileggere la vita dei Santi e dei Beati volendovi scorgere già fin quasi prima della nascita lo
splendore dell’aureola. Santi non si nasce, si diventa con l’aiuto della Grazia; piccoli semi non di rado
sparsi dalla bizzarria dello Spirito Santo in terreni in apparenza sassosi, di poco pregio, dove insieme
cresce il grano e la zizzania.
Così, quando il giovane aristocratico Alessandro, terminati gli studi a Pavia, protrattisi dal 1547 al
1551, si affacciò, elegantemente vestito, a San Barnaba, già i Padri sapevano tutto di lui. Nella prima
delle tre domande di uso, presentata il 22 aprile 1551 davanti al loro Capitolo, richiesto su che cosa
l’avesse spinto a muovere tale passo, tutto d’un fiato rispose: «Poter onorare perfettamente Gesù
Cristo, il che non potevo fare così facilmente stando nel secolo». Già da un anno gli era nato, infatti,
questo nobile desiderio e non sembrava importargli molto se la Congregazione era in quel tempo
poverissima, dal momento che era venuto solo «per rilasciarsi tutto in mano dell’ubbidienza e per non
aver mai alcuna comodità né del corpo né dell’anima». Umilmente riconosceva che la cosa che
riteneva più difficile fra quei venerandi Padri era l’alzarsi presto al mattino, il rimanere tanto tempo
nell’orazione mentale e il leggere quei libri sull’obbedienza; avrebbe preferito dedicarsi a lavori pratici,
come il cucire, dopo aver però studiato almeno un paio d’ore.
Presentata anche la “terza domanda” il 16 maggio di quel medesimo anno, i Padri preferirono
congedarlo ancora una volta, perché, data la sua giovane età e il suo prestigioso rango sociale,
temevano che la sua decisione non fosse ben ponderata, ma il classico fuoco di paglia! E lui,
determinato più che mai, all’indomani, 17 maggio 1551, non dandosi per vinto, si ripresentò esigendo
la dovuta risposta. Presi in contropiede, nell’agitazione del momento, i Padri non trovarono di meglio
che chiedergli ciò che mai si era chiesto ad alcun postulante prima di lui: recarsi nella non proprio
vicina Piazza dei Mercanti a predicare Cristo Crocifisso, portando sulle spalle quella pesante croce che
ancor oggi si conserva in San Barnaba. Lo fece, e la sua strada fu segnata per sempre! Da quel
momento entrò nei cuori e nelle speranze di tutti, per aver vinto, piccolo Davide, il gigante Golia della
stima di sé, in quella traboccante Piazza dove non pochi popolani, che lo conoscevano bene, lo avevano
allegramente schernito, iniziando così quell’azione di riforma che, grazie al fascino della sua sapienza e
al calore della sua carità, avrebbe presto affascinato i suoi contemporanei. E con un gesto dal
francescano sapore, «levatasi la spada et il pugnale, mandò l’armi per il suo servitore al padre, con
significargli che voleva per ogni modo esser religioso».
«Se sapeste quanto mi chiedete!» sospirò
proprio suo padre, Domenico, mentre i Barnabiti accoglievano il suo figliolo a San Barnaba dopo che
aveva portato quella croce, e che tanto si erano mostrati ritrosi ad unire le incerte vicende delle loro
origini a quelle della sua Casata, tanto illustre, influente, ricca di storia e di prestigio, in Milano e non
solo.
Il momento storico nel quale si dibatteva la Congregazione dei Chierici Regolari di San Paolo, era
infatti difficile, trovandosi nel bel mezzo di un improvviso temporale scoppiato con il bando dalle terre
della Repubblica di Venezia nel febbraio 1551, dopo essersi tanto prodigati con impegno e frutto
pastorale a Vicenza, Verona e Venezia, unitamente al ramo femminile dell’Ordine, le Angeliche di San
Paolo, e a quello dei laici, il Terzo Collegio, voluti entrambi dal Fondatore, S. Antonio M. Zaccaria
(1502-1539). Quel bando era forse presagio del fulmine che sarebbe caduto fra poco su San Barnaba a
causa della presenza di un Visitatore apostolico, nella persona di mons. Marini. Quest’ultimo, dopo
aver parlato con tutti i religiosi circa la sincerità delle loro intenzioni, rivolgendosi infine anche a quel
giovane novizio di nome Alessandro, con sorpresa si sentì da lui dire che non se ne sarebbe andato, ma
che ci sarebbe rimasto «sperando che il tutto si debba indrizzare».
Il saper mirare giusto
Alcune tristi vicende familiari (la morte della mamma, Tommasina Spinola, quando Alessandro
aveva appena sette anni, la morte del suo precettore, Giulio Camillo Delminio, nel maggio del 1544
nella casa paterna di piazza S. Sepolcro mentre gli spiegava Virgilio, e il coinvolgimento della zia
Caterina, presunta simpatizzante del calvinismo, in un procedimento sollevato contro di lei
dall’Inquisizione) avevano aperto la mente al giovane Alessandro, facendolo maturare in fretta: le
grandi anime si temprano nella solitudine e ivi maturano i sublimi propositi. Invece che prendere parte
alle accese dispute del momento fra le mura domestiche, preferì lasciare la confortevole dimora del suo
bel palazzo milanese di piazza San Sepolcro per entrare tra i Barnabiti. Frequentandoli, aveva scoperto
che «essi miravano giusto, puntando al rinnegamento di se stessi mediante la rinuncia alla propria
volontà: giustappunto quello che Cristo chiede per seguirlo».
Iniziato il Noviziato triennale il 15 agosto 1551, Alessandro non perse quella sua innata
spigliatezza e libertà d’animo, che lo portava a staccarsi dai condizionamenti del mondo, critico e nel
contempo riflessivo, spingendolo verso la ricerca di quelle radici delle cose che illuminano l’autenticità
delle azioni e la verità degli avvenimenti. Sapeva bene che la strada che conduce alla santità è cosparsa
dalle rovine di ciò che non è! Per questo, nonostante non approvasse nei Barnabiti quel continuo
genuflettere davanti al Superiore, quell’interminabile pregare o quell’intenso faticare nei lavori di casa,
aveva trovato l’ideale per il quale valeva la pena di spendere la propria vita. Lo rivelò pubblicamente il
giorno della sua professione religiosa, il 29 settembre 1554, con quella stupenda preghiera uscitagli di
getto dal cuore: «Esto mihi totus, totus mihi soli. Ero tibi totus, totus tibi soli (Sii tutto per me, tutto per
me solo. Sarò tutto per te, tutto per te solo)». Questa risoluta dichiarazione d’intenti verrà subito messa
alla prova.
Quando lo assegnarono all’aiuto dei sacrestani, chiese e ottenne l’incarico di svegliare la
Comunità affinché, grazie al suo alto senso di responsabilità, vincesse la sua nota pigrizia mattutina; e
per superare la sua riservatezza, chiese di essere adibito, come aiutante, alla portineria, luogo di
passaggio che gli permetteva il contatto umano con le persone di ogni ceto sociale, affinando così la
sua nota amabilità. Infine, per superare il suo smodato desiderio di studio, decise tenere in camera un
solo libro per volta. Sacrificio non da poco, visto l’inizio del suo intenso studio dei Padri, della Sacra
Scrittura e in particolare della Summa di San Tommaso, che – si racconta – arrivò a sapere tutta a
memoria. La descrizione di questo giovane novizio redatta nel verbale di un Capitolo di comunità
dell’8 maggio 1552, ce lo rivela particolarmente simpatico, nei suoi difetti e nelle sue virtù: «Gli furono
richiamate molte sue imperfezioni, come la poca riverenza dimostrata al sacramento nel fare i lavori in
Chiesa e la molta inettitudine nei lavori della sacrestia, la poca riverenza ai sacerdoti di casa, il suo
studio instabile e curioso pigliando mo’ un libro e mo’ un altro, il suo spirito borghese, la sua
tiepidezza, il suo troppo presumersi nello studio, e molte altre cose: gli fu ordinato di scriverle tutte e
di portarle al suo Maestro, cercando con ogni diligenza di emendarsi».
Novello sacerdote
Una volta ordinato sacerdote, essendo il più giovane (i Barnabiti fino a allora avevano accettato
persone già mature e professionalmente affermate) e bisognoso di esperienza pastorale, fu inviato nella
nuova comunità di Santa Maria di Canepanova, che si trovava vicino all’Università di Pavia che il
“padrino” ben conosceva, e dove, poco dopo, incominciò a insegnare, pur con grande titubanza dei suoi
Superiori, non possedendo egli i titoli per un suo inserimento a tempo pieno. Tale ritrosia alla fine
venne superata, e Alessandro si qualificò anche accademicamente, conseguendo la laurea il 28 maggio
1563 e venendo subito cooptato nel collegio dei Professori della Facoltà di Teologia. Pur insegnando
con competenza e passione, padre Alessandro ebbe l’umiltà di declinare l’invito ad assumere una
cattedra stabile e rimunerata di Filosofia Ordinaria, sia perché particolarmente impegnato nella scuola
interna del proprio Ordine, sia perché era al servizio del Vescovo di Pavia, Ippolito de Rossi, che ne
aveva fatto uno dei suoi più validi collaboratori come teologo e socio nelle visite pastorali.
E anche come teologo non disdegnò di manifestare la sua libertà di pensiero. Per esempio, si
rifiutò di sottoscrivere una dichiarazione – come già avevano fatto altri tre teologi del suo collegio –
riguardo al Vescovo di Brescia, perché non sufficientemente chiara, mandando a dire al suo Vescovo
che «in ogni cosa gli era servitore, fuori che dove andava la coscienza». Sempre di mente lucidissima,
in poche parole sapeva esprimere chiaramente il suo pensiero su ogni argomento, anche il più
complesso. Per questo collaborò anche a distanza con San Carlo Borromeo, partecipando nel 1564 al
primo Sinodo milanese e al primo Concilio provinciale. L’anno successivo fece ritorno a Milano.

Giovane Proposito Generale
Qualcosa era infatti nell’aria! A soli 33 anni, nell’aprile del 1567, fra lo stupore di molti e prima
ancor di lui stesso, fu eletto Generale dell’Ordine dei Barnabiti. Proprio non se la sentiva di accettare
quella carica tanto impegnativa, anche solo al pensiero di dover comandare a quei Padri venerandi; ma
non poté rifiutarsi quando gli venne ricordato che «chi viene eletto o confermato, entri nella sua
gestione rivestito non tanto del manto dell’umiltà, quanto piuttosto del manto della carità»!
L’opera del Sauli nel governo dell’Ordine fu improntata anzitutto alla rivisitazione dello spirito
delle origini – ancora verde – dando un notevole contributo al definitivo assestamento della
Congregazione. Dopo la già accennata visita apostolica del 1552 – che aveva visto sia ricondurre i
Barnabiti nell’alveo proprio della vita religiosa del tempo, sia le Angeliche in clausura, sia giudicare i
Laici di San Paolo non ancora maturi per l’apostolato diretto –, egli seppe guidare la Congregazione nel
delicato processo di adeguamento ai Decreti tridentini, che sfociò poi felicemente nelle Costituzioni del
1579, rimaste in vigore fino al Concilio Vaticano II.
Era l’uomo che ci voleva il quel momento! Il suo buon governo lo fece rieleggere per un secondo
mandato il 6 maggio 1568, potendo così continuare il lavoro non ancora terminato. Fu nuovamente
rieletto Proposito Generale l’anno successivo 1569. Uomo dalle chiare vedute, nel suo triennio di
generalato ebbe modo anche di occuparsi delle suore Angeliche allora residenti nel monastero di San
Paolo, tenendo loro diversi Sermoni che ancora si conservano, e intervenendo per sedare quel rancore
che ancora vi covava nei confronti della Contessa di Guastalla, Ludovica Torelli (1499-1569) che,
quando le aveva lasciate nel 1554, si era portata via tutti i capitali, anche quelli legati legalmente alla
dotazione del loro monastero. Pazientemente padre Alessandro insegnò loro a superare la durezza di
cuore: «Bisogna adonque amollirlo, questo cuore; il che ce lo insegna la natura, che non di pietra, non
di ferro, non di diamante, ma di carne ci ha fatto questo cuore… Non però vi pensate esser nostra virtù
l’intenerirlo, ma operation di Dio».
E sistemò anche la parte giuridica della vertenza.
Ma Sauli diventò soprattutto un grande amico e collaboratore del Borromeo, che particolarmente
aveva apprezzato, tra l’altro, il lavoro da lui svolto nel 1566 per la riforma dei Francescani
Conventuali, prima, e degli Umiliati, dopo. Lo volle suo confessore, e amò frequentare mensilmente
San Barnaba, certo non solo per un momento di ritiro spirituale. Lo chiamava in episcopio per ogni
cosa, dichiarando: «Del suo prudente consiglio mi valgo quasi in ogni occasione», tanto da far irritare
qualche confratello, che vedeva il proprio Proposito Generale diventato quasi il “segretario” del
Vescovo! Così, mentre il Sauli ammirava nel Borromeo il suo rigore di vita e la mano ferma nel
governare la Diocesi, l’Arcivescovo di Milano gustava nel giovane barnabita la schiettezza della sua
direzione spirituale, che sapeva illuminare con la luce della sapienza divina le pieghe più intime
dell’animo umano.
Vescovo di Aleria
Il generalato del Sauli rappresentò un momento di vera rinascita dell’Ordine, che uscì così dal
disorientamento provocato dal bando dalle terre venete nel 1551, grazie anche al grande contributo di
San Carlo Borromeo, che tanto amava i Barnabiti: «Voi sapete – scriveva all’Ormaneto – quanto
grande è il servizio che il Signore Iddio riceve in questa mia Chiesa dai Padri di San Barnaba, e quale
è la protezione che ne tengo io per la vita incolpata e i santi esercizi loro…». Si comprende pertanto il
grande sgomento che colse i Barnabiti quando se lo videro portare via come Vescovo. Lo stesso San
Carlo, che li conosceva bene, intercedette per loro scrivendo direttamente al Papa Pio V: «Non posso
mancare di sottoporre a Sua Santità l’affanno grande in cui si trovano i Padri di San Barnaba, per il
danno grande che con la perdita di quest’uomo verrà alla loro Congregazione, la quale ora dipende
dal suo prudente governo ed è aiutata assai dalla sua dottrina, nella quale – per dire il vero – egli non
ha uguale». Ma nulla poteva fermare la volontà di Dio, che attraverso il suo Vicario in terra ricercava
fra gli Ordini religiosi uomini degni da elevare all’episcopato. Alla morte di Pier Francesco Pallavicini,
Vescovo di Aleria, il Pontefice Pio V pose gli occhi proprio sul Sauli come suo capace successore in
quella non facile diocesi della Corsica: una delle più sguarnite della Chiesa, con isolani imbarbariti
dalle guerre, e il cui solo nome faceva venire la pelle d’oca! Non conosciamo i motivi della sua scelta,
dal momento che il Papa probabilmente lo aveva incontrato solo di sfuggita a Milano. Ma quello che
più importa è che egli nutriva una smisurata fiducia in lui, come testimonia il cardinale Cicada
scrivendo al Doge di Genova il 27 gennaio 1570: «Mi disse ieri Sua Santità istessa, tutta piena di
speranza, che con la virtù di questo buon Prelato si debbe introdurre in quell’isola la dottrina
cristiana, a lode di Dio et benefizio di quell’anime».
Alessandro, nel gennaio del 1570, cominciò così a prepararsi al difficile compito che lo attendeva
chiudendosi in ritiro spirituale nella Certosa di Caregnano assieme al Borromeo, chiedendo a Dio la
forza di «pigliar volentieri questa croce per amor suo». Poco dopo scriveva preoccupato a suo padre
Domenico: «Le fatiche nelle quali sono stato sino a qui come Proposito Generale mi paiono al
presente rose, in comparatione di quelle che comincio a provare come Vescovo». Fu consacrato
vescovo nel Duomo di Milano il 12 marzo 1570 dallo stesso arcivescovo Carlo Borromeo che gli prestò
pure i paramenti sacri (poi regalati), assistito dal vescovo di Pavia mons. Ippolito de Rossi e dal
vescovo di Bergamo Federico Corner. In quell’importante occasione lo si sentì sbottare in una delle
tante espressioni della sua ingenua spontaneità: «Dio perdoni chi m’ha levato dalla mia
Congregazione!»
Ma non c’era tempo da perdere! Egli doveva essere d’esempio sia per l’attuazione dell’obbligo di
residenza dei Vescovi stabilito dal Concilio di Trento, sia per la dedizione all’incarico ricevuto; per
questo il Papa volle che con lui partissero subito anche una mezza dozzina di suoi confratelli che lo
coadiuvassero nell’azione pastorale. Un po’ troppi, per i Barnabiti di allora, che comunque riuscirono a
inviare tre padri: Vincenzo Corti, Tommaso Gambali e Francesco Stauli, assieme al fratello Giovanni
Battista. Così, salutato l’anziano padre a Pavia che più non avrebbe rivisto, il 29 marzo, dal porto di
Genova si imbarcò verso il suo destino.

Apostolo della Corsica
Nella lenta traversata mons. Alessandro avrà certo avuto modo di riflettere sul perché già da
tempo i genovesi fossero odiati dai corsi, e come mai tale sentimento era aumentato quando, verso la
metà del Cinquecento, Enrico II aveva ripreso le ostilità francesi contro l’imperatore Carlo V. Il
conflitto si era ben presto allargato anche alla Corsica, quando nel 1553 la Francia, con l’aiuto del Gran
Turco e di un rivoluzionario locale, chiamato Sampiero, aveva occupato l’isola. Genova non attese
molto alla sua riscossa, e nel 1555 Andrea Doria la riconquistò. Ma gli abitanti, guidati da Sampiero,
iniziarono una logorante sanguinosa guerriglia. La reazione del Doria fu violentissima, fin quasi al
genocidio degli “ingovernabili corsi”. Grazie alla mediazione del Vescovo Gerolamo Leoni e dei
Francescani di Mariana (altra diocesi della Corsica), si trovò provvidenzialmente una via diplomatica e
i ribelli poterono imbarcarsi – quasi trionfalmente – per la Francia, lasciandosi dietro un cumulo di
macerie materiali e spirituali.
Il 30 aprile 1570 mons. Alessandro sbarcò in Corsica – allora suddivisa in cinque Diocesi: Aleria,
Aiaccio e Sagona, suffraganee di Pisa; Mariana e Nebbio, suffraganee di Genova, anche se
abbandonate per ragioni di sicurezza – assieme ai suoi quattro confratelli, più di lui «di debole
complessione». Trovò la cattedrale distrutta, l’episcopio – che era stato il quartiere generale di
Sampiero – ridotto a un mucchio di macerie, le case di Aleria danneggiate, la ricca pianura
abbandonata all’incuria del tempo e degli uomini. Alzando lo sguardo scorgeva invece l’intatto e
minaccioso forte genovese, che ospitava una guarnigione di soldati.
Non sapendo dove fissare la sua residenza, fu costretto a chiedere ospitalità al convento
francescano di Corte, a 40 miglia da Bastia, dove però i frati gli fecero presto capire che la sua presenza
creava disagio alla vita regolare del convento, anche perché per andare a incontrarlo, nelle due piccole
stanzette assegnategli, bisognava passare attraverso il refettorio! Il 18 maggio 1570 scriveva al
Borromeo: «La avviso come, giunto a Bastia, fui forzato a fermarmi per dieci giorni per poter fare le
debite provvisioni necessarie al vitto quotidiano, e in quel tempo fui visitato da gran parte dei preti
della mia diocesi, dove non ne ho ritrovato alcuno che intenda il latino; molti non sanno neanche
leggere. Quali siano i loro costumi, lo lascio alla considerazione di Vostra Signoria Illustrissima,
essendoci state in Corsica tante guerre per così tanto tempo, e i vescovi non residenti; e il mio
vescovado, in particolare, fu stanza e abitazione di Sampiero Corso, dove regnavano più i tumulti e le
sevizie che in qualsiasi parte dell’isola». L’impatto fu dunque particolarmente duro: «Iddio me
inspirerà alla giornata» amava ripetere. Così, ancor prima di pensare alla sua residenza, preferì
occuparsi subito del suo gregge, rivelando tutto il suo spirito missionario.
La popolazione locale, infatti, era costituita da «uomini fieri e indomiti tanto inclinati allo
spargimento di sangue». Povera e superstiziosa, ma anche orgogliosa e dotata di un discutibile senso
dell’onore, era spinta a sbandierare alle finestre i brandelli degli abiti insanguinati dei nemici uccisi o a
voler maritare i figli ancor prima della loro nascita, creando vere tragedie familiari poi, se il
matrimonio, per varie ragioni, non veniva più celebrato. Ma quello che maggiormente si avvertiva era il
pesante clima di sospetto e di omertà che avvolgeva ogni cosa. Anche se gli isolani erano alquanto
rustici, meglio “selvaggi”, si distinguevano comunque per coraggio, sobrietà, resistenza, laboriosità,
alto senso della giustizia, ma soprattutto per un’insospettabile ortodossia della fede, che il vescovo
Alessandro, pieno di gioia, subito non mancò di constatare: «In questa mia prima venuta ho sentito
molta allegrezza, perché ho conosciuto in questi popoli – sebbene un poco rozzi – una pura integrità di
religione, non infettata da alcuna eresia. E come di cosa miracolosa, in così grande colluvie e
licenziosità di gente passata qui per le guerre, se ne deve rendere molte grazie al Signore Iddio».
Grazie alla sua lucidità mentale, che gli suggeriva di rispettare la prudente consequenzialità del
“vedere, giudicare e agire”, si propose di conoscere anzitutto la situazione della sua Diocesi, e per
questo incominciò subito da un lato le visite pastorali (come indicato dal Concilio di Trento) per tastare
il polso del suo clero e del suo gregge, dall’altro a indire la celebrazione annuale del Sinodo (anche qui,
come prescritto dalla XXIV Sessione tridentina), durante il quale «approfittava di questi giorni [tre]
per vivere cuore a cuore coi suoi preti, che invitava – chi voleva – a vivere con sé a sue spese.
Mangiava con loro, conversava molto con ciascuno, si espandeva con grande carità. Per istruirli,
intavolava spesso dei casi di coscienza, ripassando con loro formule liturgiche, punti di dottrina
dogmatica o morale, documenti conciliari ed ecclesiastici. Terminato il Sinodo, molti preti dovevano
affrontare un viaggio di ritorno lungo e faticoso: allora egli preparava loro e ai laici che li
accompagnavano un viatico abbondante, prestava loro i cavalli, faceva riempire di vino le loro
“zucchette”, dava quanto poteva essere utile nel viaggio. E si pensi che al Sinodo partecipavano più di
cento preti, senza contare i laici della loro scorta».
Ma le sue vere armi vincenti furono le visite pastorali. Grazie ad esse, i suoi preti cominciarono a
constatare, seppur non tutti, che tali visite (vi andava in compagnia di due Padri, un cancelliere, un
segretario e un palafreniere) andavano ben al di là del puro dovere pastorale, diventando espressione di
quell’anelito missionario che esaltava il suo grande spirito di sacrificio, e non solo per le fatiche
estenuanti che comportavano, ma soprattutto per l’attività di evangelizzazione da lui svolta, rivolta a
tutti, specie ai bambini e alle persone più semplici, come ai numerosi e poveri braccianti; per questo
meritò il giusto riconoscimento di “Apostolo della Corsica”, degno titolo per un pastore di Santa
Romana Chiesa.
Egli, infatti, non si risparmiò nel dedicarsi alle visite pastorali, vera croce e delizia del suo
ministero episcopale: «Se avessi una città, o luogo grosso, non mi smarrirei, ma l’avere se non piccole
villette, mi fa disperare di poter operare. Perché il cavalcare è difficilissimo, essendo montagne
asprissime; e poi, quando si è arrivati, non c’è da dormire e mangiare, se non scomodamente».
Si
spostava fra mille difficoltà, a schiena di mulo, valicando corsi d’acqua e passi impervi, tra gole
profonde e ripidi sentieri scavati nella roccia, spesso, come attestano i Processi apostolici, costretto a
camminare anche “a gattoni”. E quando arrivava, messosi in ginocchio, riceveva dal parroco la croce,
e, dopo aver pregato silenziosamente, benediceva i suoi fedeli, celebrava e amministrava i sacramenti,
controllava la gestione parrocchiale. Nulla accettava in cambio; anzi, se la sua permanenza si protraeva
oltre la giornata, provvedeva personalmente alle spese proprie e dei suoi collaboratori: «Niuna cosa –
amava ripetere – può macchiare il servizio di Dio nella salute delle anime, quanto il sospetto
dell’avarizia, perché quando esso entra nei popoli verso i prelati, anche se questi facessero miracoli,
non vengono creduti». Un tempo ricco, in virtù del voto di povertà emesso tra i suoi confratelli
Barnabiti, che tanto continuava ad amare, non poteva evidentemente non privilegiare le opere di carità
fra quei poveri corsi, ai quali «ogni casa, benché piccola, pare un palazzo».
Azione pastorale a tutto campo
Nella sua azione pastorale privilegiò le due indicazioni emerse con chiarezza dal Concilio di
Trento. La prima riguardava l’insegnamento del catechismo. Per questo stampò infinite volte il suo
catechismo Breve istruzione delle cose più necessarie alla salvezza, che diffondeva gratuitamente, in
migliaia di esemplari; era chiamato la Duttrinella, ed educò intere generazioni di corsi. Diviso in due
parti (una dogmatica e l’altra morale) si articolava in domande e risposte, brevissime e chiarissime,
come era nel suo stile. Veniva poi imparato a memoria grazie alla ripetizione ad alta voce, dopo essere
stato opportunamente spiegato dai catechisti o dagli stessi seminaristi. Esempio «Chi sei tu?» Risposta:
«Sono cristiano». Domanda: «Che significa questo nome di cristiano?» Risposta: «Discepolo di Nostro
Signore Gesù Cristo: cioè colui che, essendo battezzato, crede e fa professione di osservare la sua
Santa Legge». Domanda: «Quali sono le dignità del buon cristiano?» Risposta: «La prima, essere
figlio di Dio; la seconda, essere fratello di Nostro Signore Gesù Cristo; la terza, essere erede del
Cielo». Domanda: «Quale è il segno interiore del cristiano?» Risposta: «La carità fraterna, così come
insegna il Signore: da questo vi riconosceranno che sarete miei discepoli se vi amerete insieme come
io vi ho amati, cioè sommamente e santamente». Domanda: «Quale è il segno esteriore del cristiano?»
Risposta: «Il segno della santa Croce…», ecc. Lo considerava tanto importante che egli stesso non
smise mai d’insegnare il catechismo ai ragazzi, anche quando diventò successivamente Vescovo di
Pavia, perché sapeva quanto il Papa ci teneva; e questo è uno degli aspetti certamente più commoventi
della sua vita, la cui grandezza davanti a Dio spesso è inversamente proporzionale alla grandezza
davanti agli uomini! Lo studio del catechismo non era fine a se stesso, ma doveva aprirsi alla pratica
cristiana in un ambiente favorevole.
Per questo la seconda indicazione che volle seguire riguardava proprio lo sviluppo delle
confraternite, specie del SS. Sacramento, che istituì in tutte le parrocchie della sua Diocesi. Del resto,
come poteva dimenticarsi che ancora giovane e semplice barnabita, nella sua piccola comunità di
Canepanova, durante la quaresima aveva strenuamente difeso la comunione frequente da un predicatore
della vicina chiesa di S. Francesco, che aveva osato condannarla, ripetendo in quella occasione che
l’Eucaristia era questione, più che di parole, di esperienza: «Non ne conosce gli effetti se non chi la
sperimenta», e predicando: «Mirabile, stupendo davvero questo grande sacramento!... Riceviamolo, ed
egli guarirà l’anima nostra, come talvolta guarisce anche il corpo; e crescerà sempre di più in noi la
brama, la fame di riceverlo. Per chi dunque Gesù istituì sì grande Sacramento? Non per gli angeli, non
per reprimere i demoni, ma per l’uomo, il più basso nella catena degli esseri intelligenti e per di più
carico di miserie e di peccati. Sia quindi nostra prima cura di rendere infinite grazie a Dio che ci
chiama a sedere alla sua divina mensa, non solo nell’altra vita, ma anche fin d’ora, nella vita presente,
per mezzo del sacramento dell’Eucaristia. Ma soprattutto pensiamo a rispondere alla sua chiamata,
accostandoci sovente alla Sacra Mensa».

La riforma del clero
La fede si era ben conservata nell’isola, certo; ma una delle sue più grandi preoccupazioni era
rappresentata dalla mancanza della necessaria formazione del clero. Non esistevano allora seminari in
Corsica, né scuole o università. Poteva studiare solo chi aveva la fortuna di recarsi nel continente, o chi
poteva mettersi alla scuola di preti meno ignoranti… Molto diffuso era il triste fenomeno della simonia
tra il clero (i benefici ecclesiastici davano da vivere), che non raramente era anche ignorante, omicida,
vagabondo (non c’era casa parrocchiale), concubinario («la maggior parte, o tutti») tanto che nel primo
Sinodo mons. Sauli emanò un editto pubblico, tuonando affinché uscissero dalle loro abitazioni tutte le
donne sospette. Parte del clero era anche violento (la minaccia turca li costringeva a girare armati, e
perfino qualcuno celebrava la S. Messa tenendo l’archibugio in bella mostra sull’altare…) e
particolarmente disobbediente, perché «se non vi è il braccio secolare che li costringa, obbediscono se
li pare, e se non vogliono obbedire, bisogna avere pazienza». Le chiese poi, divenute luogo di rifugio
della soldataglia, erano state spogliate di tutto. Spesso divenute campo di battaglia, erano finite poi per
essere adibite a luogo per la celebrazione di lauti banchetti, di ricovero di animali, o del tutto
abbandonate.
Il vescovo Sauli non se ne crucciava più di tanto, rimanendo sempre quieto e sereno. Scrivendo al
suo Proposito Generale il 19 dicembre 1571 affermava che, nonostante non gli mancassero i travagli di
dentro e di fuori, non si sarebbe tolto questo peso dalle spalle: «Del resto poi, il vivere o morire un
poco più presto o più tardi, poco importa»; dimostrando così una fede granitica: «Il bisogno mi sforza,
e sono certo che la carità non mi lascerà sentire fatica, affinché si possano aiutare queste povere
anime, che sono tanto bisognose, che è grande compassione al solo pensarvi».
Si diede particolarmente da fare per favorire l’istruzione dei suoi preti. Iniziò a comporre vari
sussidi, come le Costituzioni del Vescovado d’Aleria,
dove trattò di vari argomenti, piccoli e grandi,
come, ad esempio, la chierica, che doveva essere «decentemente grande», cioè per i preti grande come
un’ostia, per gli altri un po’ più piccola; i baffi, che dovevano essere tagliati per non essere d’ostacolo
al momento dell’assunzione del Sangue di Nostro Signore; l’obbligo del portare l’abito clericale, ossia
la veste e la berretta nera, con permesso, per venire incontro alla povertà dei preti e all’asperità
dell’ambiente, dell’uso dei vestiti corseschi purché di colore nero (vietando così allo stesso tempo l’uso
del berretto corso: il cappello); la proibizione del porto d’armi; il divieto di esercitare altre professioni e
di tenere concubine, come di recarsi a balli o a commedie, o giocare a carte o a dadi. Soprattutto li
richiamava agli studi sacri, alla bontà della predicazione, all’utilità dell’insegnamento del catechismo.
Tale fu poi la nota Istruzione compendiosa e breve e soprattutto la Dottrina del Catechismo Romano
(Pavia 1581) – tanto lodata da S. Francesco di Sales – nella quale spiegava ai suoi preti corsi, in modo
semplificato, il Catechismo Romano voluto dal Concilio di Trento, in molti punti di difficile
comprensione, sempre secondo lo schema classico della domanda e della risposta.
Prese particolarmente a cuore anche il restauro degli edifici ecclesiastici: «Se amerete le vostre
chiese come care spose, farete in modo, per quanto si estenderanno le vostre forze, che siano adorne,
così come ogni sposo si sforza, secondo il suo stato e possibilità, di adornare la propria sposa», non
disdegnando di aiutare anche materialmente i suoi preti nell’acquisto degli arredi sacri. Cercava anche
in questo modo di ridestare in loro la consapevolezza della grande dignità del sacerdozio: «Niuna cosa
mi è stata mai tanto a cuore, quanto attendere alla riforma dei sacerdoti, sapendo che, come i cattivi
sono la rovina dei popoli, così per il contrario dalla loro bontà dipende, se non in tutto, almeno in
buona parte, la loro salute».
Adempiendo poi le prescrizioni tridentine, eresse subito il primo seminario diocesano a Tallone
nel 1570, che portò poi con sé nei suoi continui spostamenti, prima a Bastia (nello stesso anno 1570),
poi ad Algaiola (1574), a Corte (1576), e infine a Cervione, sua residenza definitiva, nel 1578. Vi si
impegnò direttamente, tenendovi, quando non impegnato altrove, due lezioni quotidiane, e insistendo
molto, al di là dei programmi delle varie discipline teologiche, sull’assoluta necessità della concordia,
della pace, della fraternità sacerdotale, per smussare la proverbiale litigiosità corsa. In quei tempi i
seminaristi potevano essere accolti a 12 anni e a 14 ricevere già gli Ordini Minori.
Per loro volle stilare personalmente il Regolamento del seminario d’Aleria. Visto il difficile
ambiente sociale, il Regolamento si rivelò particolarmente severo nei confronti di chi non studiava,
litigava o disobbediva ai Superiori. Sapeva bene che il futuro della Chiesa corsa sarebbe stato un giorno
nelle loro mani. Per questo non esitò a scacciare un giovane seminarista per cattiva condotta, anche se
gliela giurò! Infatti, poco dopo, il 1° agosto 1581, mentre al sopraggiungere della sera il Vescovo
sedeva in un luogo appartato per meditare, quel giovane gli scagliò addosso una grossa pietra dall’alto
di quelle rocce dove si era arrampicato, che fortunatamente lo colpì solo ai piedi, senza però fargli del
male. Sauli esclamò: «Benedetto Dio, che salva i servi suoi». Scampato da morte certa, andò con il
pensiero al suo grande amico S. Carlo Borromeo, quando attentarono alla sua vita con quella famosa
archibugiata opera di un Umiliato. In quell’occasione lo stesso Sauli, invece di consolarlo per lo
scampato pericolo, non mancò di sottolineare all’Arcivescovo il richiamo di Dio, dicendogli, senza
tanti peli sulla lingua, che da quel fatto doveva trarre «occasione di umiliarsi e considerare se ciò per
qualche suo difetto Iddio avesse permesso; ed anco esaminare bene la coscienza sua, se era preparato,
caso che la botta avesse avuto effetto, a presentarsi al giudizio di Dio».
Ecco ancora venire alla luce quella sua santa libertà di spirito da tutti santamente invidiata.
Perdonò quello scellerato ex-seminarista, e, una volta che fu catturato dalle guardie del Governatore
dell’isola, intercedette non poco affinché gli fosse restituita la libertà, ma lui, orgoglioso e ribelle, mai
gli chiese perdono.
Mons. Sauli sentiva la solitudine non solo per il fatto che verso la metà dell’anno 1574 tutti e
quattro i confratelli barnabiti che l’avevano inizialmente accompagnato erano tornati indietro, per
infermità o altro, quanto per il senso di abbandono che attanagliava la sua Diocesi: «E certo che chi
vedesse i bisogni di questa povera Isola con occhio pio e misericordioso, sono certo che leverebbe
molti ministri et servi di Dio da Roma o Milano, ed altre città famose, per aiutare queste anime. Ma i
giudizi occulti di Dio vanno così».
Nella successiva lettera del 2 agosto 1574 non esitò a rivolgersi al
suo Proposito Generale, che già lo aiutava economicamente, ricordandogli che «li bisogni della
Congregazione sono grandi, ma maggiori sono in Corsica!».
Del resto, neanche lui stava bene di salute, ma tirava avanti, seppur si ammalasse frequentemente
di febbre e di catarro, che lo portavano particolarmente a temere «quest’aria sottile e venti fastidiosi»,
fino a costringerlo a chiedere, in occasione del Natale del 1576, uno sporadico permesso di tre mesi al
Papa, per soggiornare un po’ in terra ferma e migliorare così il suo stato di salute.

Tra carità e preghiera
Ma tra le sue mille preoccupazioni il primo pensiero era sempre per loro: i poveri.
Quotidianamente faceva distribuire nel cortile dell’Episcopio pane, minestra e vino; gratuitamente
aiutava e ospitava i viandanti e distribuiva medicine a chi le chiedeva. Mai nessuno andava via a mani
vuote; e a quei suoi servi che brontolavano dicendo: «Monsignore, è troppo buono!», lui rispondeva:
«Non sapete che quello che do ai poveri lo do a me? Di quello che do a voialtri, non so che beneficio
ne avrò!» Tanto li amava che una volta, rientrato in Italia per la visita ad limina Apostolorum, quando
seppe della carestia che in sua assenza aveva colpito la Corsica, consigliatosi con il Borromeo a
Milano, preferì sospendere il viaggio a Roma e impiegare il denaro così risparmiato per comprare orzo,
fagioli, ceci, sale, ecc., pur di non tornare a casa a mani vuote. Era di buon cuore. Non si dava orari di
ricevimento; accoglieva chiunque, anche se seduto a tavola, e guai se qualcuno osava dire la bugia: «Il
vescovo non c’è»! Di grande integrità morale, non accettava mance da nessuno e pagava bene i suoi
dipendenti, affinché non fossero tentati di arrotondare lo stipendio con mezzi illeciti. La casa del
Vescovo doveva essere d’esempio per tutti.
Così i “terribili corsi” divennero per mons. Sauli i “suoi figlioli”, ed essi, dopo non poche fatiche
e superate molte diffidenze, vincendo l’odio atavico verso Genova, cominciarono ad amare quel
genovese di «straordinaria statura, ma di debole complessione, e di pochissime carni, biondo,
peritissimo teologo, predicator eccellente, e molto aggraziato in quella professione, esemplare», che
iniziava la sua giornata con tre ore di preghiera. Alla meditazione e al breviario aggiungeva poi
l’ufficio della Madonna e quello dei Defunti. La celebrazione eucaristica costituiva il culmine della sua
estasi: «Il maneggio delle anime e delle chiese – amava ripetere – mi riesce tanto meglio, quanto più
mi consiglio con Dio; e siccome sono stato qui inviato come suo ambasciatore, devo procurare di
sapere la sua volontà per non errare». Digiunava almeno due volte a settimana, e a Bernardino
Rovarini, che lo esortava a mangiare di più per affrontare le fatiche di una visita pastorale, rispose: «È
mio dovere fare ben più di quanto faccio, e sarei felice se dovessi morire mentre lavoro nella vigna del
Signore». Si confessava ogni giorno, e di notte usava la disciplina. Faceva gli esercizi spirituali almeno
tre volte all’anno, di dieci giorni completi, secondo le prescrizioni delle Costituzioni dei Barnabiti, il
cui testo leggeva frequentemente; e proprio per non vedere affievolire il senso di appartenenza alla
propria Famiglia religiosa, ogni venerdì indossava la nera veste barnabitica per sentirsi in comunione
con i confratelli.
Pastore d’anime di grande cuore, era severissimo soprattutto con se stesso, e dotato di grande
buon senso, dimostrato più volte, come ad esempio in occasione delle sue Contro Osservazioni alla
Relazione presentata nel 1590 alla Santa Sede da mons. Nicolò Mascardi, che aveva effettuato la Visita
apostolica della Corsica, specchio di un animo forse troppo curiale e poco pastorale. Per esempio: «Non
si assenti il sacerdote per più di tre giorni senza licenza (in scriptis) dall’Ordinario»; Sauli:
«Quantunque la residenza sia santa, dovendo però molti camminare due giornate se vogliono trovare
il Vescovo di Aleria, ho concesso ai Vicari foranei che possino dare licenza per otto giorni, dandomene
notizia». «Entro due mesi, ogni curato dovrà provvedere la sua chiesa di due calici, cinque corporali,
paramenti, ecc., pena la sospensione “a divinis”»; Sauli: «Rimarranno tutti senza messa». «Le donne
lattanti non portino i figli a Messa né ai divini uffici»; Sauli: «Si lascia in considerazione alle Signorie
Vostre Illustrissime se molte donne lattanti, che non hanno chi governi i loro figlioli in casa, debbano
perdere Messa». «Scomunica latae sententiae alle donne che per la morte dei parenti o amici si
graffiano la faccia»; Sauli: «L’abuso è pessimo e praticato in molti luoghi e levarlo è cosa santa. Si
consideri se sia rimedio la scomunica latae sententiae, visto che forse moltissime donne vi cadranno».
Grazie a questo eccezionale documento conservato nell’Archivio Vaticano, sappiamo che la Santa Sede
diede ragione a mons. Alessandro.
Ma un’altra cosa lo inquietava. La frequente corrispondenza col Borromeo in quegli anni ci rivela
il travaglio interiore del suo animo, particolarmente lacerato a motivo delle notizie che gli giungevano
dalla vicina penisola, dove molti lo consideravano “sprecato” in Corsica, e si adoperavano
energicamente per farlo rientrare. Più volte fu preconizzato il suo trasferimento in una diocesi
lombarda, o a Tortona, o a Teano (qui fu sconsigliato dall’accettare dallo stesso S. Carlo, che lo voleva
a lui vicino). Sauli non sapeva che fare a motivo dell’incorreggibilità di certi suoi preti corsi che gli
facevano la guerra. Mise, come sempre, tutto nelle mani di Dio, dichiarandosi disposto per testamento a
«lasciare le ossa in Corsica». Questo primo testamento, scritto di suo pugno in Corsica, appare
particolarmente toccante. Scrive il Vescovo: «Et primo raccomando l’anima mia a’ Fratelli pregando
la Divina Maestà, quando li parrà separarla da questo corpo, che per i meriti infiniti della passione
del suo unigenito Figliolo la pigli presso di sé. Il mio corpo, morendo in Corsica, sia posto nel luogo di
Corti nella Chiesa di San Marcello con una pietra sopra la sepoltura, nella quale sia scolpita una
immagine episcopale con queste parole: «Alexandri Episcopi Aleriae cineres usque ad diem
Resurrectionis» (Ceneri di Alessandro Vescovo di Aleria fino al giorno della Resurrezione). Divise i
suoi averi, i mobili, le sue vesti e il mantello, tutto ciò che aveva, fra i sacerdoti a lui vicini, lasciando il
seminario di Aleria suo erede universale. Non dimenticò una giovane che doveva sposarsi, lasciandole
100 scudi, e i suoi amati Padri di S. Barnaba, lasciando loro 200 scudi affinché pregassero per lui.
La sua ferma decisione pose fine ad ogni speculazione sul suo futuro episcopale per almeno un
decennio. Ma la svolta era nell’aria e maturò con la salita al soglio petrino di Gregorio XIV nel
dicembre del 1590, ex alunno del Sauli e suo figliolo spirituale, che fra le prime cose che fece fu quella
di destinarlo alla città di Pavia, che a gran voce chiedeva un buon vescovo. Ad essa il Papa aveva
assicurato: «Vi manderò un angelo addirittura!»

Vescovo di Pavia
Pubblicato vescovo di Pavia il 10 maggio 1591, mons. Alessandro verso la fine di quello stesso
mese lasciò la sua amata Corsica con la segreta speranza però di ritornarvi presto; del resto fino ad
allora gli era sempre andata bene. Ma questa volta non fu così, dovette arrendersi di fronte
all’irremovibilità del Pontefice, che non accettò nessuna delle sue due proposte: tornare in Corsica o
tornare a San Barnaba come semplice religioso. Se nella mente obbedì, ottenendo come unica
consolazione la possibilità di scegliersi il successore nella persona di Ottavio Belmosti – si rivelerà
fedele continuatore della sua linea pastorale –, nel suo cuore patì non poco: «Confesso di aver accettato
questa cura con timore e tremore… Questa impresa è stata non solo non procurata, né cercata, né
desiderata da me, ma neanche pensata», scriverà nella prima Lettera pastorale alla città di Pavia. Là
certo avrebbe ritrovato il dotto ambiente della sua giovinezza, ma quale gran salto dalla selvaggia
Corsica, dopo un digiuno intellettuale durato più di un ventennio! Ne era chiaro sintomo quell’interiore
senso di disagio che lo prese una volta giunto a Roma, dove mal sopportava gli atti di stima e di onore
degli amici e dello stesso Pontefice. Preferì accelerare il suo trasferimento nel nuovo campo di
apostolato e solo dopo due settimane di permanenza, alla vigilia della solennità dei SS. Pietro e Paolo,
festa dell’Urbe intera, lasciò la Città eterna.
Raggiunse Genova il 7 luglio, indebolito dalla febbre. Qui lungamente attese il placet e, per non
perdere tempo, iniziò a leggere, tra l’altro, le Costituzioni sinodali pavesi del 1566 e del 1571. Inoltre,
aiutato dal p. Carlo Bascapè, barnabita, provvide a fare ciò che poteva anche a distanza, come la presa
di possesso della Diocesi (per procura), la scelta dei collaboratori, la progettazione del lavoro pastorale.
Giunto finalmente il placet da Madrid, partì per Milano, che raggiunse il 4 settembre, dove fu costretto
a fermarsi nuovamente, non essendo Pavia ancora pronta ad accogliere il suo ingresso ufficiale. Ma
quella forzata attesa causata da tutti quei preparativi lo infastidiva, soprattutto per il loro alto costo, e
quando fece sapere ai pavesi che avrebbe preferito risparmiare quel denaro a favore dei poveri –
correva l’anno 1591, tempo di carestia – si senti rispondere che i poveri avrebbero avuto mille altre
occasioni per venire beneficati, ma i pavesi non un’altra per accoglierlo degnamente come
desideravano. Mons. Sauli preferì lasciar fare. E, nonostante l’arrivo della notizia della morte del
Pontefice, l’accoglienza fu davvero trionfale: il 20 settembre fu accompagnato da tutta la cittadinanza
in corteo trionfale dalla Porta di S. Maria in Pertica alla Cattedrale, tra i pomposi e barocchi addobbi
che ornavano il tragitto, sotto un baldacchino accompagnato da dodici paggi vestiti di seta bianca e oro.
Ma quando passò sotto l’ultimo e più solenne arco trionfale, il suo fidato Bernardino Rovarino, che gli
era sempre accanto, lo sentì sbottare: «Oh, vanità degli onori della terra! In meno di un anno questo
apparato di gioia sarà cambiato in lutto!»
Se non era riuscito ad aiutare i poveri nel momento del suo ingresso in Diocesi, non perse poi
tempo, esortando i fedeli, nel suo primo pontificale in Duomo, a seguire il suo esempio, che per primo
aveva loro dato in elemosina 100 scudi d’oro. Ogni giorno ai poveri fece distribuire un pasto caldo nel
cortile dell’Episcopio e, una volta alla settimana, visitava a turno o l’ospedale di S. Matteo o degli
Incurabili o degli Esposti o degli Orfani. Fece anche prendere in affitto una casa per l’accoglienza dei
poveri che non avevano un tetto.
Certo Pavia era molto diversa dalla Corsica: la riforma Tridentina vi era stata già felicemente
introdotta dal suo predecessore, mons. Ippolito de Rossi. Ma anche qui, per non costruire sulla sabbia,
voleva avere una visione chiara dello stato della Chiesa pavese, possibile solo attraverso le visite
pastorali. Una volta indirizzate nel 1591 due Lettere pastorali alla città – la prima, Alla Città e alla
Diocesi, di carattere personale e pratico, la seconda, Al Clero della Città e Diocesi –, il 13 gennaio
iniziò la visita pastorale cittadina cominciando proprio dalla Cattedrale, che lo impegnò moltissimo,
fino a primavera inoltrata, ma che gli diede indubbiamente anche molta soddisfazione, grazie alla bontà
dei suoi sacerdoti e dei suoi fedeli.

Expecto donec veniat immutatio mea
Dalle battute sempre colorite e vivaci, amava lasciarsi andare a qualche confidenza, specie con i
più giovani, come quando un giorno, al chierico Giovannambrogio Mazenta, che si era recato da lui
per sostenere l’esame di ammissione agli Ordini sacri, mons. Sauli domandò: «Cosa sei venuto a fare a
Pavia?». Rispose: «Per la santa obbedienza». E lui: «Beato te, perché il tuo mestiere è migliore del
mio, che è quello di fare il vescovo!» Ma la stanchezza era ormai palpabile. Nonostante questo, all
metà di giugno intraprese lo stesso la visita pastorale fuori città, e, passando per Calosso d’Asti, ultima
propaggine della Diocesi pavese, la morte lo sorprese dopo alcuni giorni di sofferenza, colpito dalla
gotta unita a febbre continua, in quella massiccia torre del castello di Calosso d’Asti, appartenente ai
signori Roero.
Fu assistito, tra gli altri, da due confratelli barnabiti, Ambrogio Ruottoli, suo confessore, e
Gregorio Asinari, suo ex alunno, che si trovava in quel momento in vacanza nel vicino castello di San
Marzano. Dopo la sua confessione generale, durata ben tre giorni, si fece portare il SS. Sacramento con
il quale intrattenne un bellissimo dialogo spirituale, tra la commozione generale. E proprio al Ruottoli
toccò il suo amorevole ultimo rimbrotto. Ormai morente, gli aveva chiesto di leggere la passione di
Cristo secondo San Giovanni. E, dopo un quarto d’ora di lettura, il padre si era fermato, in quanto i
medici pensavano che fosse spirato. Ma egli, aperti improvvisamente gli occhi, gli chiese: «Padre
Ambrogio, non leggete?» Rispose: «Monsignore, pensavo che Vostra Signoria riposasse e ho smesso
per non disturbarla». E il Sauli: «Sapeste invece quanto disturbo m’avete dato a non leggere! Io
vedevo già la gloria del Paradiso…». Il Padre, alquanto confuso, riprese la lettura, durante la quale il
Vescovo passò a miglior vita, addormentandosi serenamente. Se ne accorsero dal suo volto che era
divenuto «assai più bello che non fosse in vita». Era l’11 ottobre 1592. Aveva 58 anni. Sotto il suo
guanciale fu trovato l’inseparabile libretto dell’Imitazione di Cristo.

* * *
FONTI
ARCHIVIO STORICO DEI PADRI BARNABITI, ROMA (Lettere del Sauli al Borromeo, Lettere ai Dogi di Genova,
Panegirici, Scritti che a lui si riferiscono, Documenti del Processo di Beatificazione e Canonizzazione,
ecc.).
ARCHIVIO STORICO DEI PADRI BARNABITI, MILANO (Atti Capitolari, ecc.).
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
BARELLI Francesco Luigi, Vita del Ven. Alessandro Sauli, Bologna 1705.
CASTA François, Evêques et curès corses, Lyon 1964.
CACCIARI Luigi, Compendio della vita di S. Alessandro Sauli, Napoli 1904.
FRIGERIO Domenico, Alessandro Sauli, Vescovo e Santo di ieri e di oggi (1534-1592), Edizione “La Voce”,
Milano 1992.
GABUZIO Giovanni Ambrogio, Vita Beati Alexandri Sauli, Mediolani 1748.
GALLICIO Giovanni Agostino, Vita et gesta Alexandri Sauli viri Dei…, Romae 1661.
GENTILE Luigi, Vita di S. Alessandro Sauli Barnabita, Asti 1905.
GERDIL Giacinto Sigismondo, Vita del B. A. Sauli, Milano 1861.
GIORGI Mario, La visita pastorale di S. Alessandro Sauli alla città di Pavia (13 gennaio-22 aprile 1592) in
“Barnabiti Studi” 9 (1992), pp. 95-173.
GRAZIOLI Pietro, Della Vita, Virtù e Miracoli del Beato Alessandro Sauli, Roma 1741.
LEVATI Luigi, Vescovi Barnabiti: S. Alessandro Sauli, Genova 1910.
MAGGI Valeriano, Vita et segnalate azioni del Venerabile Servo di Dio Alessandro Sauli…, Milano 1683.
PONSIGLIONE Armanda M. e ALGHISI Marina M., I Sermoni di S. Alessandro Sauli in “Barnabiti Studi” 9 (1992),
pp. 7-94.
PREMOLI Orazio, Vita illustrata di Sant’Alessandro Sauli Barnabita, Milano 1904.
RINALDI Angelo, Modello d’illibata innocenza…, Milano 1741.
SAULI S. Alessandro, (1534-1592). Edizione speciale di “Eco dei Barnabiti”, 2 (1992).
ZIEGLER Adalberto, Leben des sel. Alexander Sauli, Wien 1741