Di seguito un secondo gruppo di testi di Madeleine Delbrêl.
Noi delle strade è il famoso testo programmatico Nous autres gens de la rue, pubblicato in Etudes carmélitaines, XXIII, 1938, vol. I, p.32 ss.
Il ballo dell'obbedienza è stato pubblicato la prima volta in Vie spiritelle, 1946, novembre, pp. 195 ss.
Il brano su Marxismo e “Mission de France” è tratto da Madeleine Delbrêl, E' stato il mondo a farci così timidi? Editrice Berti, Piacenza, 1999, pp. 55-59. Questo ultimo testo, scritto nel 1953, è una prima riflessione della Delbrêl, quando cominciano a manifestarsi le prime perplessità della Santa Sede sulla Mission de France (le radicali proibizioni arriveranno nel 1959). La Mission de France era nata in pieno periodo bellico, fra il 1939 ed il 1945, a partire dalla fondazione a Lisieux di uno speciale seminario per la formazione di giovani sacerdoti da inviare “in missione” presso i non credenti di Francia.
Noi delle strade
Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c'è uno
Spirito che soffia in tutti i luoghi.
C'è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n'è altra che egli lascia nella moltitudine, che non «ritira dal mondo». E' gente che fa un lavoro ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive un'ordinaria vita da celibe. Gente che ha malattie ordinarie, e lutti ordinari. Gente che ha una casa ordinaria, e vestiti ordinari. E' la gente della vita ordinaria. Gente che s'incontra in una qualsiasi strada. Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta che si è rinchiusa definitivamente sopra di essi.
Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità .
Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché se questo necessario ci mancasse Dio ce lo avrebbe già dato.
Il silenzio
Il silenzio non ci manca, perché lo abbiamo. Il giorno in cui ci mancasse, significherebbe che non abbiamo saputo prendercelo. Tutti i rumori che ci circondano fanno molto meno strepito di noi stessi. Il vero rumore è l'eco che le cose hanno in noi. Non è il parlare che rompe inevitabilmente il silenzio. Il silenzio è la sede della Parola di Dio, e se, quando parliamo, ci limitiamo a ripetere quella parola, non cessiamo di tacere.
I monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessario alla lode. Nella strada, stretti dalla folla, noi disponiamo le nostre anime come altrettante cavità di silenzio dove la Parola di Dio può riposare e risuonare. In certi ammassi umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato, conosciamo un silenzio di deserto e il nostro cuore si raccoglie con una facilità estrema perché Dio vi faccia squillare il suo nome: «Vox clamans in deserto».
Solitudine
A noi gente della strada sembra che la solitudine non sia l'assenza del mondo ma la presenza di Dio. E' l'incontrarlo dovunque che fa la nostra solitudine. Essere veramente soli è, per noi, partecipare alla solitudine di Dio. Egli è così grande che non lascia posto a nessun altro, se non in lui. Il mondo intero è come un faccia a faccia con lui dal quale non possiamo evadere.
Incontro della sua causalità viva dove le strade si intersecano accese di movimento.
Incontro con la sua orma sulla terra.
Incontro della sua Provvidenza nelle leggi scientifiche.
Incontro del Cristo in tutti questi «piccoli che sono suoi»: quelli che soffrono nel corpo, quelli che sono presi dal tedio, quelli che si preoccupano, quelli che mancano di qualcosa. Incontro con il Cristo respinto, nel peccato dai mille volti. Come avremmo cuore di deriderli o di odiarli, questi infiniti peccatori ai quali passiamo accanto?
Solitudine di Dio nella carità fraterna: il Cristo che serve il Cristo; il Cristo in colui che serve, il Cristo in colui che è servito.
L'apostolato come potrebbe essere per noi una dissipazione o uno strepito?
L'obbedienza
Noialtri, gente della strada, sappiamo benissimo che sino a quando la nostra volontà sarà viva non potremo amare davvero il Cristo.
Noi sappiamo che solo l'obbedienza potrà fondarci in questa morte.
E invidieremmo i nostri fratelli religiosi se non riuscissimo anche noi a morire, ogni istante, un po' di più. Le piccole circostanze della vita sono dei « superiori » fedeli. Non ci lasciano un attimo, ed i «sì» che dobbiamo dir loro si succedono gli uni agli altri.
Quando ci si abbandona ad esse senza resistenza, ci si ritrova meravigliosamente liberati da se stessi. Si galleggia nella Provvidenza come un turacciolo di sughero nell'acqua. E non facciamo gli orgogliosi: Dio non affida nulla al caso; le pulsazioni della nostra vita sono sconfinate, perché egli le ha volute tutte. Ci afferrano dall'attimo del risveglio. Il trillo del telefono. La chiave che gira male nella toppa. L'autobus che non arriva, che è zeppo, o che se ne va senza aspettarci. Il nostro vicino di sedile che occupa tutto il posto, il vetro che vibra fino a stordirci. E', ancora, l'ingranaggio della giornata: una pratica che ne chiama un'altra, un certo lavoro che non abbiamo scelto.
E' il tempo con le sue variazioni raffinate perché assolutamente pure da ogni volontà umana. E' l'avere freddo o avere caldo, l'emicrania o il mal di denti. La gente che si incontra. e conversazioni che i nostri interlocutori scelgono. Il signore maleducato che ci urta sul marciapiede. Le persone che hanno voglia di perdere tempo e che ci acchiappano.
L'obbedienza, per noi, gente della strada, è piegarci alle manie della nostra epoca quando sono senza malizia.
È avere i vestiti di tutti, le abitudini di tutti, il linguaggio di tutti. È, quando si vive in parecchi, dimenticare di avere un gusto e lasciar le cose al posto che gli altri han dato loro. L'esistenza diventa così una specie di grande film al rallentatore. Non ci dà la vertigine. Non ci fa ansimare. Corrode a poco a poco, fibra per fibra, la trama dell'uomo vecchio, una trama non più raccomandabile e che bisogna rinnovare totalmente. Quando ci saremo abituati a consegnare la nostra volontà all'arbitrio di tante piccole cose, non troveremo più difficile, all'occasione, fare la volontà del nostro caposervizio, di nostro marito, dei nostri genitori.
Allora possiamo sperare che ci sia facile anche la morte. Non sarà una cosa grande, ma una successione di piccole sofferenze ordinarie accettate una dopo l'altra.
L'amore
Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi.
Non pensiamo che l'amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D'altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all'azione.
Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c'è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell'amore un'occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un'azione e l'azione una preghiera; ci sembra che l'azione veramente amorosa è tutta piena di luce.
Ci sembra che di fronte ad essa l'anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa - il volere di Dio chiaramente compreso - ecco l'anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l'azione sia anche una preghiera d'implorazione. Non ci sembra che l'azione c'inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita.
Al contrario, ci sembra che l'azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa.
I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E' per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l'amore di Dio e l'amore dei nostri fratelli.
Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito.
Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso.
Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l'incontro dell'anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un'informazione? ...eccola: è Dio che viene ad amarci. E' l'ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci.
Lasciamolo fare.
Il ballo dell'obbedienza
“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato”
E' il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C'è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re.
Ed io, penso
all'altro re.
Al re David che danzava davanti all'Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare
facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da
condottiero,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po' voglia d'altro
hai inventato san Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa
per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace di segnare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra
scandisce.
Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco.
Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di
camminare.
Ma non sarebbero che passi da stupidi
se la musica non ne facesse un'armonia.
Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica:
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa VolontÃ
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c'è monotonia e noia
se non per le anime vecchie,
tappezzeria
nel ballo di gioia che è il tuo amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in
cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno per strada ci urta, gli sorrideremo:
anche questo è danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno
avviato fra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni:
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana
come un vestito da ballo, che ci farà amare di te
tutti i particolari. Come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo,
ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si
rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l'universo d'amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Marxismo e “Mission de France”
Che si faccia indossare ai preti la talare oppure la tuta, che si lascino in fabbrica o che li si richiami, che vengano saldati strettamente a una parrocchia o legati a un quartiere, che ci si spinga magari fino a sacrificare alle misure disciplinari un completo e dettagliato progetto di evangelizzazione, il pericolo incomberà sempre tutto intero finché ci saranno dei cristiani che guarderanno al marxismo come a una condizione di buona salute sociale e che si rivolgeranno ai marxisti non tanto per ciò che i marxisti non hanno, ma proprio per ciò che hanno.
E, viceversa, si potrà anche “salvare” la Mission de France” nella sua struttura esteriore, si potrà lasciarla ripartire senza cambiare nulla; ma, se non verrà individuato quel punto preciso dello “scambio deviatore”, la Mission” resterà internamente minata, non porterà Gesù ai marxisti; e non farà che ripetere con loro, fornendo per giunta i relativi riferimenti evangelici, ciò che essi già stavano dicendo senza di lei.
Il marxismo non è affatto un passaggio del proletariato dalla malattia alla buona salute, ma è il peccato sociale di cui la miseria proletaria ha favorito l'insorgere. Quanto poi alla coscienza o all'incoscienza di quelli che aderiscono al marxismo, ci troviamo davanti a una gamma variabile all'infinito.
Col marxismo noi diventiamo solidali nel momento in cui smettiamo di definirlo un male. In quel preciso momento, noi veniamo traditi da false forme di pazienza, con la prospettiva di “battezzare” un processo di civilizzazione. Dimentichiamo gli uomini d'oggi in nome di una civiltà del domani. Confondiamo la civiltà proletaria - che, questa sì, può anche essere battezzata - con un ateismo di forma quasi religiosa. Un ateismo che, una civiltà , può magari anche trascinarsela dietro, ma che, rispetto a questa civiltà , rimarrà sempre tutt'altra cosa.
È assolutamente necessario mettersi saldamente nella giusta prospettiva, ben più necessario del lavoro in comune coi marxisti o dei dosati equilibri negli impegni sindacali. Se infatti è vero che da questa netta presa di posizione dipende la fedeltà della “Mission de France” alla sua vocazione specifica, ne dipende anche la nostra fede.
Quando, faccia a faccia coi nostri “compagni” dal cuore magnifico, noi ripetiamo loro che l'anima della Chiesa supera i confini della sua corporeità visibile, non dovremmo dimenticare che c'è un corollario: la corporeità del marxismo supera i confini dello spirito che lo anima. Per corporeità del marxismo io intendo l'azione marxista, quella che sboccia dalle sue due opzioni di fondo. Due opzioni congiunte da una logica talmente “evangelica”, che c'è voluto S.Giovanni a farci capire quanto siano strettamente legate fra di loro: la lotta contro Dio e la lotta fra gli uomini.
Sostanzialmente, l'azione programmatica dei marxisti non è che questo. Ma ciò che noi come cristiani dobbiamo guardare in faccia è che praticare l'azione marxista significa introdurre di fatto dentro di noi qualcosa che è anti-Dio, qualcosa che scalza nel nostro intimo la vita di Dio e che ci espone allo sgretolamento di interi settori della nostra vita soprannaturale. Se ci restasse in proposito qualche dubbio, alcuni passi assolutamente espliciti di Lenin ce lo possono confermare: vi potremmo anche leggere, scritta in anticipo, la “cartella clinica” delle catastrofi, di cui noi abbiamo potuto vedere la preparazione e la realizzazione.
Davanti a catastrofi di questa portata ci si dovrebbe pur persuadere che, invece di fermarsi a questioni di circostanze e di temperamenti, sarebbe forse più utile verificare se per caso non vi sia stata in noi un'infiltrazione di quell'elemento “pratico” del marxismo, ossia la “pratica” abituale dell'azione marxista. Senza riferirmi a questo o a quel movimento in particolare, qui intendo proprio la lotta fra uomo e uomo così come il marxismo la definisce.
La “tendenza di alleanza” nei confronti del marxismo mi sembra dunque l'unico vero pericolo per la “Mission de France”. E penso che se fosse lei stessa a riconoscerlo, avrebbe trovato la sua tavola di salvezza. Ed ecco che invece (cosa per me quanto mai dolorosa) il biasimo per gli scivoloni reali o possibili è venuto da fuori; e da parte di chi, collocato in una prospettiva totalmente diversa, ha finito per incappare in un pericolo analogo, e per giunta senza uscirne indenne.
Ma qui mi devo spiegare.
Il proletariato si trova come in croce in mezzo a due peccati del mondo:
- del primo il proletariato stesso è il frutto;
- l'altro, è un frutto suo.
- Il primo è il capitalismo materialista,
- l'altro è il marxismo materialista.
- Il primo è condannato nelle sue opere e non nella sua dottrina, dato che di dottrina non ne ha
- l'altro è condannato nella sua dottrina, perché in questo caso si tratta veramente di una dottrina e di una dottrina d'azione.
* * *
Riprendo da Avvenire del 27/7/2011 due testi inediti di Madeleine Delbrêl con la relativa presentazione di Guido Dotti.
Madeleine Delbrêl (1904-1964), poetessa, assistente sociale, mistica, è una delle più singolari figure spirituali del XX secolo. La sua causa di beatificazione è stata introdotta a Roma presso la Congregazione per le cause dei santi.
Grazie al suo impegno sociale a Ivry (periferia parigina), la sua testimonianza di vita evangelica e comunitaria in un ambiente povero e scristianizzato, e per l’ampiezza dei suoi scritti dagli accenti pionieristici, ha raggiunto, a poco a poco, un vasto pubblico.
L’editore Gribaudi, che sta pubblicando l’opera omnia, manda ora in libreria il volume «Umorismo nell’amore» (pagine 222, euro 13), che riunisce una serie di testi spirituali, lettere, meditazioni e poesie. «Sapendo quel che siamo- scrive Madeleine - sarebbe davvero ridicolo se non conservassimo un po’ di humour nel nostro amore. Perché siamo personaggi proprio comici. Ma poco disposti a ridere della nostra stessa buffoneria». Dal volume anticipo due brani e alcuni stralci della prefazione di Guido Dotti, monaco di Bose.
1/ «Caro amico ateo, anche se non credi terrò Dio accanto a te»
Il testo inedito che qui pubblico probabilmente è stato scritto nel 1961. Su richiesta di padre Jean Guéguen, Madeleine Delbrêl preparò «qualche cosa sulla missione nella città », in occasione della grande missione che ebbe luogo a Clermont-Ferrand nel corso del 1961. Dedicato alla Vergine Maria e rivolto ad un ateo, che probabilmente rappresenta la Città marxista e atea, riprende con forza alcune delle grandi convinzioni apostoliche di Madeleine.
Quella città - e non è un’eccezione - ha un credito nei miei confronti, come le città che le sono simili o gli uomini verso i quali io ho lo stesso debito.
Dei cristiani non hanno saputo guardare? Allora io non so guardare, m’impegnerò a fare meglio.
Nel momento in cui tu hai fatto di tutto per separarti da Dio, dei cristiani ti hanno lasciato solo. A motivo dell’unità che ci lega, io mi considero responsabile.
È di Dio che sei stato privato, è Dio che dovrei restituirti.
Ma tu sai che la Fede non posso, non possiamo donarla. Devo cercare di darti Dio in un altro modo. Tu crederai o non crederai, come vuoi. Io terrò Dio accanto a te.
Cristo ha detto, ed è il nocciolo di tutta la vita cristiana, di amare Dio con tutto il nostro cuore e più di tutto, e di amare tutti gli uomini come noi stessi. È questo il modo in cui ha voluto che noi fossimo cristiani.
È questo amore che prendo con me per tornare accanto a te.
Cristo ci ha detto senza sosta come bisognava viverlo; vivendolo ci ha mostrato come fare. Ci ha detto che seguendo la sua parola come un bambino incapace di critica, meriteremo di vivere insieme a lui, che la sua presenza non ci abbandonerà fino alla morte.
Cristo, ora invisibile, nostro maestro e nostro Dio: tanto ne ascolterò la parola nel Vangelo, tanto farò parola per parola ciò egli ha detto, che io stesso, ad ogni azione che compirò come vuole lui, lo conoscerò un po’ di più.
Con lui tutto inizia e tutto finisce con «Amerai» che è un ordine assoluto.
Tutto inizia così dal basso, così concreto, e così materiale e corporale, che puoi volerlo: amare è versare un bicchiere d’acqua a chi ha sete, dar da mangiare a chi ha fame, dare un ricovero a chi è senza. È essere in prigione col prigioniero, all’ospedale vicino al malato. È avere il cuore distrutto da ogni preoccupazione, ogni pena, ogni dolore dell’altro. È essere un fratello per ciascuno e un fratello per tutti, è vivere con gioia per loro e per loro morire.
2/ «Io malata? Meglio il veterinario dello psichiatra»
La lettera immaginaria che di seguito pubblico non è mai stata spedita. Ma i problemi di salute di Madeleine Delbrêl sono reali e conosciuti, specialmente verso il 1954-1955, quando aveva 50 anni. Con l’umorismo, cercava di prenderne le distanze.
Egregio signore, In cinquant’anni di vita ho avuto il piacere di ricevere le cure di 10 medici.
Ho avuto occasione di incontrarne due di umani: sono morti purtroppo e non posso sperare di avere una terza occasione.
So per certo che: - ho un carattere da cani; - la testardaggine di un somaro; - il temperamento di un cavallo.
Mentre al contrario sono sicura di non essere un superuomo e stanca d’essere trattata come tale.
Ecco perché un veterinario mi pare meglio adatto alle mie necessità .
Spero che lei non mi rifiuterà i suoi consigli.
Se anche, nel peggiore dei casi, avessi la testa bacata, preferirei un insetticida alla psicanalisi.
Madeleine Delbrêl
3/ Una vita in mezzo agli atei, nelle fabbriche e sulla strada, di Guido Dotti
«Tacere non è non dire nulla: è mettere in ascolto tutte le potenze dell’anima». Era una donna fatta così Madeleine Delbrêl, una cristiana temprata alla cristiana, temperata dalla quotidianità , capace di calare i grandi spazi dello spirito nella stanza di un appartamento, su un marciapiede, nella cupa atmosfera di una fabbrica: «La tua volontà sia fatta in casa nostra come in cielo». Non aveva forse parafrasato così un’invocazione del Padre nostro?
Con questo spirito, Madeleine non perdeva occasione per far passare un annuncio evangelico nelle piccole realtà di ogni giorno e di ogni festa: natali, anniversari, compleanni, una riunione, un viaggio le sofferenze e le speranze dei preti operai, della povera gente... Trovare tutte insieme queste scintille di Vangelo è come scoprire un colore di fondo nel quadro complessivo della vita di Madeleine Delbrêl, un colore cui non sappiamo dare altro nome che «luce».
Del resto, «la sola vera vecchiaia» è «l’egoismo» che dobbiamo chiedere incessantemente a Dio di sradicare dal nostro cuore: è infatti il cuore di carne, che ci consente di restare nel soffio dello Spirito. Per questo è sul nostro cuore che dobbiamo vigilare con cura e passione durante tutta la vita: «Quando il cuore indurirai, qualunque sia la tua età allontanati», prendine le distanze, va altrove è il consiglio, anzi, uno dei «comandamenti» di Madeleine.
Emerge la figura di un «giullare di Dio», una cristiana in fremente e gioiosa attesa davanti alla porta dell’incontro con l’Armato del suo cuore: «la sola porta che si apre sulle nozze di Dio, con i suoi amici» è «la porta dell’amore, della sollecitudine fraterna». A questa porta Madeleine è rimasta affezionata per tutta la vita: ha atteso paziente all’esterno, non si è stancata di bussare, l’ha aperta per far entrare chi era fuori, l’ha varcata per uscire incontro a chi era rimasto escluso... Sollecitudine fraterna per lei voleva dire aiutare gli altri a camminare con le proprie gambe, accompagnarli per un tratto di cammino, come scriverà a una coppia di amici spagnoli repubblicani, duramente provati dalle vicende del loro paese: «Vorremmo camminare con voi fino alla felicità del mondo interno». E, per far questo, conosceva bene il bisogno che c’è di sapersi fermare a riposare, a riflettere, a contemplare: «Se si vuole aiutare gli altri a camminare, bisogna, sapersi sedere!». Vengono qui alla mente le parole di un poeta statunitense, Robert Frost: «Il miglior modo per venirne fuori/è sempre passarci in mezzo». Affrontare con calma e risolutezza le situazioni anche più avverse è premessa al loro superamento. E Madeleine ha saputo passarci in mezzo e venirne fuori portando con sé anche gli altri.
«Io terrò Dio accanto a te», scrive la Delbrêl a un ideale interlocutore ateo. Ecco, credo che l’esistenza di Madeleine sia stata innanzitutto questo: tenere Dio accanto a quelli di cui lei si faceva prossimo, sull’esempio lasciato da Gesù stesso ai suoi discepoli. Così, con la sua povera vita è stata capace di realizzare quello che lei stessa auspicava come testimonianza della chiesa: «che Cristo Chiesa ci insegni a riconoscerlo dove egli è e a portarlo dove egli non è».