venerdì 21 ottobre 2011

La schizofrenia dello spirito


Di seguito il testo del Vangelo di oggi 21 ottobre, venerdi della XXIX settimana del T.O., con un commento, una esegesi di Silvano Fausti e un intervento di Benedetto XVI.

Il battezzato esamini se possiede la carità e allora dica:
Io sono nato da Dio.
Se non la possiede, egli porta soltanto il carattere di cristiano,
ma è un disertore che scappa.
Gli occorre la carità perché altrimenti non può definirsi nato da Dio.
Solo l'amore distingue i figli di Dio dai figli del diavolo.
Se tutti si segnassero con la croce,
se rispondessero Amen e cantassero tutti l'Alleluia;
se tutti ricevessero il battesimo ed entrassero nelle chiese,
se facessero costruire i muri delle basiliche,
resta il fatto che soltanto la carità
fa distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo.
Quelli che hanno la carità sono nati da Dio,
quelli che non l'hanno non sono nati da Dio.
È questo il grande criterio di discernimento.

S. Agostino, Commento prima lettera di Giovanni 5, 6-7.





Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 12,54-59.

Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all'esecutore e questi ti getti in prigione. Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo».

IL COMMENTO


Ipocriti! Spesso sperimentiamo come la nostra vita sia spezzata in due, in una schizofrenia spirituale tra quanto accade fuori di noi e quello che si nasconde all'interno. L'esperienza ci ragguaglia sugli eventi naturali e ne sappiamo giudicare i possibili sviluppi, ma non abbiamo alcun discernimento per giudicare il tempo nel quale essi accadono, il senso a cui rimandano. Studiamo e raggiungiamo vette altissime di conoscenza, ma non sappiamo comprendere i tempi e i momenti per giudicare come vivere secondo giustizia. E' un'istantanea di questo tempo, nel quale l'uomo, con la scienza e la tecnica, ha tagliato traguardi impensabili, e contemporaneamente, proprio attraverso queste conquiste, vuole impadronirsi della vita per gestirla, stravolgerla, distruggerla. Sappiamo moltissimo del corpo umano, della terra e del cielo, ma ci accaniamo con la vita più fragile e indifesa. E' l'ipocrisia che tutti ci definisce, e che ha radice nel peccato originale; la superbia ha indotto i progenitori a separarsi da Dio prima e tra loro poi, sino ad arrivare alla drammatica divisione interna a se stessi, l'ipocrisia. "Esiste una unificazione dell'uomo con Dio che è unità che crea amore, in cui entrambi restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola" (Benedetto XVI, Deus caritas est). L'unità della persona scaturisce dall'unità con Dio che crea amore. La superbia ha reciso questo legame, e così l'uomo si è ritrovato solo e nudo, come spezzato in due: "L'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in unità, l'uomo diventa pienamente se stesso" (Benedetto XVI, ibid.).


Quando ci separiamo da Dio usciamo, per così dire, anche noi dal Paradiso, l'unico luogo dove si può discernere l'opera di Dio, l'intimità con Lui che ci fa giudicare cosa sia giusto. Fuori dal Paradiso siamo nudi, indifesi, incapaci di vedere il bene quando viene, ci appoggiamo alla carne e ai suoi criteri mondani e sperimentiamo la maledizione del non poter amare: l'amore infatti, presuppone qualcosa che sfugge ai calcoli di cui la carne è capace. Amare è sempre perdere se stessi; la carità è pioggia anche quando soffia lo scirocco e sole anche quando salgono le nuvole da ponente, perchè è la giustizia che supera quella ipocrita del contraccambio, delle regole della natura e del sapere secondo la carne. L'amore è giusto quando abbraccia anche il nemico. Per questo, lontani da Dio - l'unico che rivela al nostro spirito di essere suoi figli amati creati per amare - precipitiamo inevitabilmente nell'ipocrisia che svela l'incompletezza della nostra persona e della nostra vita. Corpo e anima procedono slegati, manifestando l'ipocrisia di atti che non corrispondono alla nostra vocazione, pensieri contrari al pensiero di Dio che ci ha creati; così, giungiamo a compiere il male che non vorremmo. Non viviamo più secondo la volontà divina: i pensieri e le azioni si riducono a maschere che disegnano su di noi una tragica caricatura. Tutto diviene intimamente falso, anche le apparenti opere buone, anche le virtù. Pascal arriva a dire delle suore ipocrite: "caste come angeli, superbe come demoni". Essendo divisi in noi stessi, separati da Dio e dagli altri, non possiamo più discernere gli eventi, che ci appaiono incidenti senza senso e spesso ingiusti; non sappiamo giudicare il tempo ridotto ad un contenitore da cui estrarre le cose che non ci garbano per essere colmato di quelle che ci danno piacere. Non comprendiamo più nulla, di noi stessi, della moglie, del marito, dei figli, del lavoro, delle malattie, del denaro.


Nel testo odierno Luca utilizza due volte il termine discernimento, dokimazo (valutare in vista di un giudizio), che traduce il verbo ebraico bchn (verificare, mettere alla prova, provare, saggiare anche i metalli); e una volta giudicare, krino che, traduce il verbo ebraico bîn (= vedere la differenza, connesso con la preposizione bên ‘tra’, quindi vuol dire anche distinguere). Verifichiamo sino all'ultimo particolare per comprendere - letteralmente - il "volto della terra e del cielo" ma non sappiamo guardare con la stessa attenzione per discernere questo kairos, il tempo favorevole nel quale Dio si fa presente; non sappiamo guardare i segni per discernere che cosa essi indichino. E, di conseguenza, non possiamo giudicare, vedere la differenza tra giusto e ingiusto, distinguere tra bene e male. Siamo come gli abitanti di Ninive, non sappiamo distinguere la destra dalla sinistra. Il cuore è indurito, in esso non risuona nulla. Guardiamo il "volto" della creazione ma non sappiamo riconoscervi le sembianze del Creatore, e di conseguenza, abbiamo "cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile... abbiamo cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore" (cfr. Rom. 2, 23.25). Guardiamo una donna, ne apprezziamo la bellezza, ma rimaniamo sedotti dalla carne: l'eros fagocita l'agape e così, invece che verso il dono, l'impulso ci muove al possesso. Tutto è sporcato, ogni relazione è macchiata dall'ipocrisia: gli occhi non rispondono più ai comandi del cuore, la mente non riesce a decodificare gli impulsi dello Spirito, siamo come un aereo ingovernabile che sta precipitando. "I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso, verso il male. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto... Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo "cuore" deve essere elevato. Ma noi da soli siamo troppo deboli. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto" (Benedetto XVI, Omelia nella Domenica delle Palme del 2011).

Per vivere una vita autentica mossa da un cuore in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito occorre dunque accogliere l'umiltà di Cristo, il suo amore che lo conduce, anche oggi, a camminare con noi. Per uscire dall'ipocrisia occorre aprirsi alla misericordia di Dio. Occorre un cuore contrito che si apra a Cristo, e non abbia timore di mettersi d'accordo con Lui. Sino ad oggi Egli è stato ai nostri occhi spenti un avversario, nelle sembianze della moglie, del marito, del professore, del collega, della suocera o di chi sia. Sino ad oggi, ipocritamente ciechi, non abbiamo riconosciuto il suo volto in quello di chi ci è accanto, il suo amore negli eventi della nostra vita. Per questo non abbiamo giudicato giusto amare, perdonare, donarci: abbiamo vissuto nell'egoismo, il vestito dell'ipocrisia. Non importa! Accanto a noi oggi vi è Cristo! Quante volte ha avuto pietà di noi, quanti prodigi ha compiuto in nostro favore, quanti segni! Sino ad oggi il demonio,l'avversario autentico, ci ha ingannato, sovrapponendo la sua menzogna al volto misericordioso di Dio. Possiamo oggi "darci da fare per liberarcene", secondo l'originale greco tradotto con mettiti d'accordo: accogliere l'umiltà di Gesù che sui è fatto peccato nella nostra storia per distruggere la maschera ipocrita del demonio che tutto ha avvelenato. Sì, proprio ciò che ai nostri occhi appare come morte è il seno benedetto della vita: giudichiamo allora che cosa sia giusto, accogliamo quello che secondo l'inganno del demonio è male, e rifiutiamo ciò che per lui è bene. Non sbaglieremo! Lasciamoci giudicare come giusti nella giustizia della Croce di Cristo, perchè Lui vuole riconciliarci nella usa misericordia, mettersi d'accordo e liberarci dall'avversario. Accogliamo oggi il suo giudizio di misericordia per non dover subire il giudizio di condanna che gi getti nella prigione dell'inferno. Rimaniamo nascosti nel Suo amore chemette d'accordo i nostri desideri con la Sua volontà. E' questa la pace dove ci conducono i segni del tempo che ci è dato. L'amore che cancella ogni debito, ci riscatta dal carcere della menzogna dove sino ad oggi abbiamo dovuto pagare sino all'ultimo spicciolo della nostra vita; la Verità che ci fa liberi d'essere quello per cui siamo nati, amati per amare.


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Silvano Fausti-Una comunità legge il Vangelo di Luca


vv. 54-55. Dal "volto" della terra e del cielo sappiamo discernere cosa avverrà. Abbiamo un grande discernimento nelle cose materiali, ma non in quelle spirituali. L'uomo animale non coglie ciò che è dello spirito di Dio (1 Cor 2,14). Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste Dio ha preparato per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito. Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell'uomo, se non lo spirito dell'uomo che abita in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuto conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L'uomo naturale (psichico) però non comprende le cose dello Spirito di Dio, esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter esser giudicato da nessuno. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora noi abbiamo il pensiero (noun) di Cristo. (1 Cor 2, 9-16).
vv. 56 "Ipocriti". Il nostro giudizio non è quello di Dio. Conosciamo bene ciò che è utile per la vita animale, ma non ciò che è necessario per la vita inesauribile. Sappiamo discernere il volto del cielo e della terra, ma non quello del nostro Signore: sapientissimi in ciò che ci dà la morte, siamo stoltissimi in ciò che ci dà la vita: abbiamo il lievito dei farisei, e non quello del Regno (v. 1; 13,20).
"questo momento". E' il tempo della vita di Gesù, che viviamo nell'eucaristia. La sua venuta e il nostro incontro con lui è il kairòs, il momento decisivo di conversione. L' eucaristia infatti ci rende contemporanei al grande mistero, e ci dona luce per discernere e forza per vivere il nostro presente.
v. 57 "Ora perché anche da voi stessi non giudicate il giusto". L'eucaristia dona ed esige il giudizio giusto. La morte e risurrezione del Signore è criterio di scelta e capacità di attuarla.
58 "Quando vai con il tuo avversario, ecc.". La nostra vita è un cammino pieno di avversità: il nemico, l'inferno, l'altro! In forza dell'eucaristia, il tempo presente ci è dato per andare d'accordo con lui considerandolo come fratello, e così diventare misericordiosi come il Padre (6,36). Diversamente la nostra inimicizia col fratello ci condanna come nemici del Padre. Buon discernimento è quello che vede nell'imicizia interpersonale l'appello a convertirsi dal male proprio alla misericordia.
59 "abbia reso anche l'ultimo centesimo". Per entrare nella dimensione di Dio bisogna aver perdonato: se non lo facciamo ora, dovremo farlo allora.


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BENEDETTO XVI, OMELIA NELLA CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE, 17.04.2011



Ci commuove nuovamente ogni anno, nella Domenica delle Palme, salire assieme a Gesù il monte verso il santuario, accompagnarLo lungo la via verso l’alto. In questo giorno, su tutta la faccia della terra e attraverso tutti i secoli, giovani e gente di ogni età Lo acclamano gridando: "Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!"

Ma che cosa facciamo veramente quando ci inseriamo in tale processione – nella schiera di coloro che insieme con Gesù salivano a Gerusalemme e Lo acclamavano come re di Israele? È qualcosa di più di una cerimonia, di una bella usanza? Ha forse a che fare con la vera realtà della nostra vita, del nostro mondo? Per trovare la risposta, dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa Gesù stesso abbia in realtà voluto e fatto. Dopo la professione di fede, che Pietro aveva fatto a Cesarea di Filippo, nell’estremo nord della Terra Santa, Gesù si era incamminato come pellegrino verso Gerusalemme per le festività della Pasqua. È in cammino verso il tempio nella Città Santa, verso quel luogo che per Israele garantiva in modo particolare la vicinanza di Dio al suo popolo. È in cammino verso la comune festa della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto e segno della speranza nella liberazione definitiva.

Egli sa che Lo aspetta una nuova Pasqua e che Egli stesso prenderà il posto degli agnelli immolati, offrendo se stesso sulla Croce. Sa che, nei doni misteriosi del pane e del vino, si donerà per sempre ai suoi, aprirà loro la porta verso una nuova via di liberazione, verso la comunione con il Dio vivente. È in cammino verso l’altezza della Croce, verso il momento dell’amore che si dona. Il termine ultimo del suo pellegrinaggio è l’altezza di Dio stesso, alla quale Egli vuole sollevare l’essere umano.

La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita. Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze? Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità.

Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di "essere come Dio", di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.

I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.

Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: "Sursum corda – in alto i cuori!" Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo "cuore" deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio.

Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce.

Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, ci dice la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.

Il Salmo processionale numero 24, che la Chiesa ci propone come "canto di ascesa" per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.

La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità.

Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante tutta la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.

Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, "che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe" (Sal 24,6). Amen