giovedì 4 ottobre 2012

Quel Sinodo nato per evangelizzare


Sinodo dei vescovi


Particolarmente interessante è l'articolo seguente, sulla storia del Sinodo dei Vescovi, che Andrea Tornielli pubblica oggi su Vatican Insider. Soprattutto in riferimento al primo di essi, che aveva come tema «la preservazione e il rafforzamento della fede cattolica, la sua integrità, il suo vigore, il suo sviluppo, la sua coerenza dottrinale e storica». Un tema molto vicino, dunque,  a quello del Sinodo che si sta per aprire in Vaticano.
Durante quel primo Sinodo, alcuni padri avevano chiesto che si preparasse una «regola della fede», per riproporre con chiarezza e semplicità i contenuti della fede cattolica. Nel giugno dell’anno successivo, il 1968, Papa Montini proclamava il «Credo del popolo di Dio», al quale io in questo blog ho dedicato la maggior parte dei post con l'etichetta "Dottrina della Grazia"(vedi). Ritengo semplicemente cruciale la questione di sapere esattamente quello in cui i cristiani credono: troppe volte diamo per scontato quello che invece è tutto da dimostrare. Volete un esempio? Leggete il diario Vaticano di Sandro Magister di oggi, 4 ottobre, dal titolo emblematico ("Chi rifiuta il peccato originale"), che riporto in fondo a questo post...

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Era il 21 settembre 1963, mancavano pochi giorni alla ripresa del Concilio Vaticano II e il nuovo Papa, Paolo VI, eletto nel giugno precedente, tenne un importante discorso alla Curia romana accennando tra l’altro alla possibilità di affiancare e associare ai dicasteri curiali esponenti dell’episcopato: «Quando il Concilio ecumenico mostrasse desiderio di vedere associato in un certo modo e per certe questioni, in conformità alla dottrina della Chiesa e alla legge canonica, qualche rappresentante dell’episcopato, particolarmente fra i presuli che dirigono una diocesi, al capo supremo della Chiesa stessa, nello studio e nella responsabilità del governo ecclesiastico, non sarà sicuramente la Curia romana a farvi opposizione».


Nel novembre successivo, durante il dibattito conciliare nel quale vennero formulate critiche anche molto accese verso i metodi del Sant’Uffizio, sarebbe stata avanzata anche la proposta che il Papa venisse aiutato nel suo compito da un organismo composto da vescovi di tutto il mondo. Un organismo che potesse esercitare le funzioni un tempo attribuite al concistoro cardinalizio, da consultare su problemi generali riguardanti la Chiesa. Papa Montini decideva di avocare a sé la decisione in merito.


Due anni dopo, il 14 settembre 1965, inaugurando la quarta e ultima sessione del Concilio, Paolo VI annunciava l’istituzione del Sinodo dei vescovi che «sarà convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione, quando, per il bene generale della Chiesa ciò sembrerà a lui opportuno». Paolo VI riteneva che questo nuovo organismo potesse aiutare il Papa nell’esercizio del primato, pur non avendo funzioni deliberative ma solo consultive.


Nel settembre 1967 il Papa inaugurava il neonato Sinodo dei vescovi. La prima assemblea, riunitasi a Roma per quattro settimane, aveva come tema «la preservazione e il rafforzamento della fede cattolica, la sua integrità, il suo vigore, il suo sviluppo, la sua coerenza dottrinale e storica». Un tema molto vicino a quello del Sinodo che si sta per aprire in Vaticano.


Nell’omelia di apertura, Paolo VI manifesta tutta la sua preoccupazione per la crisi che si stava delineando all’interno della Chiesa: «La sollecitudine della fedeltà dottrinale, che fu all’inizio del recente Concilio, così solennemente enunciata, deve perciò guidare questo nostro periodo post-conciliare, e con tanto maggiore vigilanza da parte di chi nella Chiesa di Dio ha da Cristo il mandato d’insegnare, di diffondere il suo messaggio e di custodire il “deposito” della fede, quanto più numerosi e più gravi sono i pericoli che oggi la minacciano».


«Pericoli immani», li definiva Montini,  «a causa dell’orientamento irreligioso della mentalità moderna, e pericoli insidiosi che dall’interno stesso della Chiesa si pronunciano per opera di maestri e di scrittori, […] spesso maggiormente desiderosi di adeguare il dogma della fede al pensiero ed al linguaggio profano, che di attenersi alla norma del magistero ecclesiastico, lasciando così libero corso all’opinione che, dimenticate le esigenze dell’ortodossia, si possa scegliere fra le verità della fede quelle che a giudizio d’un’istintiva preferenza personale sembrano ammissibili, rifiutando le altre, […], e si possa sottoporre a revisione il patrimonio dottrinale della Chiesa per dare al cristianesimo nuove dimensioni ideologiche, ben diverse da quelle teologiche, che la genuina tradizione, con immensa riverenza al pensiero di Dio, delineò».


«La fede, come sappiamo», precisava ancora il Papa ai vescovi provenienti da tutto il mondo riuniti nel nuovo organismo consultivo, «non è frutto d’un’interpretazione arbitraria, o puramente naturalista della Parola di Dio, come non è l’espressione religiosa nascente dall’opinione collettiva, priva di guida autorizzata, di chi si dice credente, né tanto meno l’acquiescenza alle correnti filosofiche o sociologiche del momento storico transeunte. La fede è adesione di tutto il nostro essere spirituale al messaggio meraviglioso e misericordioso della salvezza a noi comunicato per le vie luminose e segrete della Rivelazione; essa non è solo ricerca, ma innanzitutto certezza»


Durante quel primo Sinodo, alcuni padri avevano chiesto che si preparasse una «regola della fede», per riproporre con chiarezza e semplicità i contenuti della fede cattolica. Nel giugno dell’anno successivo, il 1968, Papa Montini proclamava il «Credo del popolo di Dio», basato su una bozza trasmessa dal filosofo Jacques Maritain al cardinale svizzero Charles Journet.


Nel 1969 Paolo VI realizzerà un'altra delle proposte emerse dal primo Sinodo dei vescovi, istituendo la Commissione teologica internazionale, subordinata alla congregazione per la Dottrina della fede. Il Papa desiderava in questo modo valorizzare la teologia, facendo in modo che essa contribuisca ad affrontare i problemi umani alla luce della rivelazione. Nel 1974, il terzo Sinodo dei vescovi avrebbe affrontato ancora il tema dell’evangelizzazione delle realtà temporali. Nell’esortazione «Evangelii nuntiandi» (8 dicembre 1975), il Papa affermava la «vocazione specifica» dei laici, che nel mondo «devono esercitare [...] una forma singolare di evangelizzazione», nei campi della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale. L’esortazione permette al papa di far propri i suggerimenti dell’episcopato mondiale e al tempo stesso di rispondere ancora una volta, a fraintendimenti e contestazioni, spiegando che «la presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile. Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti».

La Chiesa «esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella S. Messa». Evangelizzare, spiegava Montini, non significa soltanto «predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza».


Paolo VI chiariva che «il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture», tuttavia il regno, «che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane». E anzi avverte come «la rottura tra Vangelo e cultura» sia «senza dubbio il dramma della nostra epoca». Occorre quindi «fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture».

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  Chi rifiuta il peccato originale

 

Nei circoli cattolici progressisti si tende a negare la sua realtà, o a trattarlo alla stregua di un "mito". Il Concilio non ne ha fatto il nome, ma Paolo VI ha spiegato perché. Gli ultimi sviluppi della disputa

di S. Magister





CITTÀ DEL VATICANO, 4 ottobre 2012 – L'imminente cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II ha riacceso la disputa su quale sia la corretta interpretazione di quella assise:

- se quella "della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto Chiesa", auspicata dal magistero papale e spiegata in modo semplice e netto da Benedetto XVI nel famoso discorso del Natale del 2005;

- oppure quella "della discontinuità e della rottura", sostenuta sia dai lefebvriani sia, per opposti motivi, dal progressismo cattolico e in particolare dalla storia del Concilio pubblicata in cinque volumi e in più lingue dalla cosiddetta "scuola di Bologna".

Un esempio di come nel cattolicesimo progressista si interpreti il Vaticano II come momento di rottura anche dogmatica riguarda la dottrina del peccato originale.

A tale proposito è sintomatico quanto accaduto a Roma lo scorso 15 settembre in un convegno celebrativo del Vaticano II, che ha visto la partecipazione di un migliaio di persone in rappresentanza di oltre cento sigle della sinistra cattolica italiana.

In quel convegno, titolato “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri”, una delle relazioni principali è stata tenuta da Raniero La Valle, figura eminente della sinistra cattolica, che all’epoca del Concilio dirigeva uno dei principali quotidiani cattolici italiani – in quegli anni ce ne erano più di uno –, “L’Avvenire d’Italia” stampato nella Bologna del cardinale Giacomo Lercaro:

> Il Concilio nelle vostre mani

Nel suo intervento, La Valle ha detto che "nella sua narrazione della fede il Concilio non ha riproposto la dottrina punitiva del peccato originale, nella forma depositata nei catechismi. C’era questa dottrina nello schema preparatorio della commissione dottrinale, ma il Concilio l’ha lasciata  cadere". E questa "non è una dimenticanza, è un’ermeneutica".

Per La Valle risulta "evidente come il Concilio, nel tacere sul mito del giardino, si sia messo all’ascolto del 'sensus fidei' del popolo di Dio".

A suo dire, dagli anni del Concilio il popolo cristiano avrebbe ormai voltato le spalle al dogma sulla realtà del peccato originale, cosa che invece non avrebbe fatto "il successivo Catechismo della Chiesa cattolica del 1992", il quale "riesuma quella dottrina, segno di una gerarchia resistente al Vaticano II".

L’idiosincrasia nei confronti del dogma del peccato originale è piuttosto diffusa nel mondo cattolico progressista. In modo più o meno spinto.

Per rimanere in Italia basti pensare al caso di Vito Mancuso, che lo rigetta drasticamente in quanto sarebbe, a suo dire, "un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente":

> Un teologo rifà da capo la fede cattolica. Ma la Chiesa dice no


L’Agostino citato da Mancuso ovviamente non è un autore qualsiasi ma è il padre e dottore della Chiesa autore delle "Confessioni", a cui si deve la definizione del peccato originale come "felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem", definizione che anche nelle liturgie postconciliari risuona in tutte le chiese del mondo nella veglia pasquale, quando viene cantato l’Exultet.

Oppure si può pensare al priore di Bose, fratel Enzo Bianchi, per il quale "il peccato originale non consiste in un atto di Adamo ed Eva che ha causato la rovina di tutti noi, bensì nel fatto che ciascuno di noi, venendo alla vita, scopre che il male è già presente sulla scena della vita, nei suoi rapporti con le cose e con gli altri" (così in "AIDS, malattia e guarigione", Edizioni Qiqajon, 1995, p. 14).

O che in una intervista a "la Repubblica" del 3 maggio 2000 dopo aver chiamato "mito" il peccato originale, continuava: "Ma oggi nessuna Chiesa cristiana vede nella storia di Adamo ed Eva il motore di un meccanismo perverso per cui il peccato si eredita senza colpa alcuna":

> Noi uomini toccati dal mistero


In realtà il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 parla della "realtà del peccato delle origini" (par. 387). E ribadisce: "Adamo ed Eva alla loro discendenza hanno trasmesso la natura umana ferita dal loro primo peccato, privata, quindi, della santità e della giustizia originali. Questa privazione è chiamata peccato originale" (par. 417).

Il Catechismo del 1992 è un frutto del pontificato di Giovanni Paolo II. Scaturì dalla richiesta fatta dai padri che parteciparono al Sinodo dei vescovi del 1985, dedicato proprio al Concilio Vaticano II, e fu compilato sotto la guida di una commissione presieduta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Ma sulla dottrina del peccato originale, nonostante l’obiezione di La Valle, il Catechismo non si appoggiò esclusivamente sul magistero preconciliare. Il dogma del peccato originale infatti è richiamato in uno degli atti più solenni compiuti da Paolo VI, il "Credo del popolo di Dio", nella cui compilazione ebbe un ruolo non secondario una personalità come quella di Jacques Maritain:

> Il Credo di Paolo VI. Chi lo scrisse e perché

E infatti nel paragrafo 419 del Catechismo si cita proprio il n. 16 del "Credo del popolo di Dio" per affermare: "Noi dunque riteniamo, con il Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso insieme con la natura umana, 'non per imitazione ma per propagazione', e che perciò è 'proprio a ciascuno'".

È vero che negli atti del Concilio Vaticano II la locuzione “peccato originale” non c’è. Ma a questa obiezione ha risposto lo stesso Paolo VI in un discorso citato in nota nel Catechismo del 1992.

Si tratta di un discorso pronunciato l’11 luglio 1966 davanti ai partecipanti a un  simposio sul peccato originale che si celebrava a Roma in quei giorni:

> "Siamo particolarmente lieti, dilettissimi figli..."

In esso papa Giovanni Battista Montini rispose proprio a quella obiezione che ancora oggi riecheggia, come s'è visto, in circoli appartenenti più all’intellighenzia cattolica che al semplice popolo di Dio.

Dopo aver citato e commentato brani delle costituzioni conciliari "Lumen gentium" e "Gaudium et spes", Paolo VI disse:

"Come appare chiaro da questi testi, che abbiamo creduto opportuno di richiamare alla vostra attenzione, il Concilio Vaticano II non ha mirato ad approfondire e completare la dottrina cattolica sul peccato originale, già sufficientemente dichiarata e definita nei Concili di Cartagine (a. 418), d’Orange (a. 529) e di Trento (a. 1546). Esso ha voluto soltanto confermarla ed applicarla secondo che richiedevano i suoi scopi, prevalentemente pastorali".

Quanto a Benedetto XVI, ha insistito più volte sulla realtà "di quello che la Chiesa chiama peccato originale", contro i "molti" che "pensano che non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità".

In particolare, papa Joseph Ratzinger ha dedicato al peccato originale due udienze del mercoledì consecutive, quelle del 3 e del 10 dicembre 2008:

> E la notte fu. La vera storia del peccato originale

Si può aggiungere che, curiosamente, la dottrina del peccato originale trova difensori non soltanto in papi come Paolo VI, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI.

Ad essa si è riferito di recente un non cattolico particolarmente amato dai circoli progressisti di tutto il mondo, un personaggio sicuramente insospettabile di simpatie preconciliari.

Si tratta del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nel suo celebre discorso del 2009 alla Notre Dame University che gli procurò, proprio per questo riferimento, gli elogi del teologo emerito della casa pontificia, il cardinale Georges Cottier:

> La politica, la morale e il peccato originale