lunedì 8 ottobre 2012

Raniero Cantalamessa: Come la scìa di un vascello

Il motivo stesso della esistenza di questo blog è quello di dare un modestissimo contributo alla Nuova Evangelizzazione, al centro della riflessione dei Padri Sinodali. Perciò mi permetto di rimandare a due testi che ho trovato davvero illuminanti: il primo, di padre Frederic Manns, già pubblicato (*) e il secondo, di padre Raniero Cantalamessa, che presento di seguito. Buona lettura!

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04 Apr 2012
La Nuova Evangelizzazione è semplicemente, per la stragrande maggioranza dei battezzati,. la riscoperta del battesimo ricevuto da bambini. Questa tesi è autorevolmente sostenuta dal. padre Frederic Manns nel suo ultimo ...
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11 Apr 2012
"Nuova Evangelizzazione e riscoperta del Battesimo". Capp. 2 - 3 - 4. La settimana che stiamo vivendo è tutta d'oro: era la settimana in cui ai neofiti venivano impartire le cosiddette "catechesi mistagogiche", che spiegavano a ...
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12 Apr 2012
Continuo oggi, giovedi "in Albis", con la presentazione del volume di padre Manns ofmcapp. sul rapporto tra Nuova Evangelizzazione e riscoperta del sacramento del battesimo. Di seguito i capitoli: 5. Il battesimo nella 1 ...
12 Apr 2012
"Nuova Evangelizzazione e riscoperta del Battesimo". Capitoli conclusivi. Di seguito l'ultima parte del libro di padre Manns ofmcapp. sulla Nuova Evangelizzazione come riscoperta del battesimo: Cap. 13. - Le prefigurazioni ...

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La rievangelizzazione del mondo secolarizzato è una delle sfide più urgenti a cui è chiamata oggi la Chiesa; una sfida che Benedetto XVI considera una priorità pastorale e spirituale per la Chiesa. In questo volume, che raccoglie le meditazioni tenute in presenza del Papa nell'Avvento del 2010 e in quello del 2011, l'autore intreccia la dimensione storica e quella spirituale dell'evangelizzazione, dai primi secoli del cristianesimo alle sfide maggiori che l'annuncio del Vangelo incontra nel mondo d'oggi: lo scientismo ateo, il razionalismo e il secolarismo, mettendo in luce la risposta che a ognuna di esse la fede cristiana ci permette di dare.

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 AVVENTO 2010

PRIMA PREDICA

La risposta cristiana allo scientismo ateo

 “QUANDO GUARDO I TUOI CIELI, LA LUNA E LE STELLE, CHE COS’È MAI L’UOMO?” (Sal 8, 4-5)
1. Le tesi dello scientismo ateo
Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.
L’intento è quello di individuare alcuni nodi o ostacoli di fondo che rendono molti paesi di antica tradizione cristiana “refrattari” al messaggio evangelico, come dice il Santo Padre nel Motu Proprio con cui ha istituito il nuovo Consiglio[1]. I nodi o le sfide che intendo prendere in considerazione e a cui vorrei cercare di dare una risposta di fede sono lo scientismo, il secolarismo e il razionalismo. L’apostolo Paolo li chiamerebbe “i baluardi e le fortezze che si levano contro la conoscenza di Dio” (cf. 2 Cor 10,4).
In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:
“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].
Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:
Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà [...]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawking. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.
Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.
Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice – conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].
Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.
Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.
È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.
2. No allo scientismo, sì alla scienza
Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.
Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:
“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].
La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].
Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.
3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?
Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.
È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].
Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:
“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].
La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].
Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.
Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].
C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.
Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:
Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l’hai coronato di gloria e d’onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.
La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell’ uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L’uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E’ evidente che c’ è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l’ uomo e il resto del creato.
4. La forza della verità
Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].
Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).
L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” – è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16].
Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.
Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].
Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.
Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.
Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].
5. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”
Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.
Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.
Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?
Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].
A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.
[1] Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
[2] Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
[3] J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
[4] M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
[5] J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
[6] J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
[7] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
[8] Monod, op. cit. p. 136.
[9] P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
[10] B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
[11] M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
[12] In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
[13] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
[14] In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
[15] Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
[16] G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
[17] S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
[18] Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
[19] S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
[20] S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
[21] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.

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 SECONDA PREDICA

La risposta cristiana al secolarismo

 VI ANNUNCIAMO LA VITA ETERNA” (1 GV 1,2)
1. Secolarizzazione e secolarismo
In questa meditazione ci occupiamo del secondo scoglio che incontra l’evangelizzazione nel mondo moderno, la secolarizzazione. Nel Motu Proprio con cui il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione si dice che esso “è a servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di antica tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione”.
La secolarizzazione è un fenomeno complesso e ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, essa, non solo non è contro il Vangelo, ma trova in esso una delle sue radici profonde. Può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti contrari alla religione e alla fede per il quale si preferisce usare il termine di secolarismo. Il secolarismo sta alla secolarizzazione come lo scientismo sta alla scientificità e il razionalismo alla razionalità.
Occupandoci degli ostacoli o delle sfide che la fede incontra nel mondo moderno, noi ci riferiamo esclusivamente a questa accezione negativa della secolarizzazione. Anche così delimitato, il fenomeno della secolarizzazione presenta molte facce a seconda dei campi in cui si manifesta: la teologia, la scienza, l’etica, l’ermeneutica biblica, la cultura in generale, la vita quotidiana. Nella presente meditazione prendo il termine nel suo significato primordiale. Secolarizzazione, come secolarismo, derivano infatti dalla parola “saeculum” che nel linguaggio comune ha finito per indicare il tempo presente (“l’eone attuale”, secondo la Bibbia), in opposizione all’eternità (l’eone futuro, o “i secoli dei secoli”, della Bibbia). In questo senso, secolarismo è un sinonimo di temporalismo, di riduzione del reale alla sola dimensione terrena.
La caduta dell’orizzonte dell’eternità ha sulla la fede cristiana l’effetto che ha la sabbia gettata su una fiamma: la soffoca, la spegne. La fede nella vita eterna costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita –esclama san Paolo – siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
2. Ascesa e declino dell’idea di eternità
Richiamiamo per sommi capi la storia della credenza in una vita oltre la morte; ci aiuterà a misurare la novità recata dal Vangelo in questo campo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento tale credenza si afferma solo tardivamente. Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti, e anche allora non presso tutti (i Sadducei, si sa, non condividevano tale credenza).
Questo smentisce clamorosamente la tesi di coloro (Feuerbach, Marx, Freud) che spiegano la credenza in Dio con il desiderio di una ricompensa eterna, come proiezione nell’aldilà delle attese terrene deluse. Israele ha creduto in Dio, molti secoli prima che in una ricompensa eterna nell’aldilà! Non è, dunque, il desiderio di una ricompensa eterna che ha prodotto la fede in Dio, ma è la fede in Dio che ha prodotto la credenza in una ricompensa ultraterrena.
La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo biblico, con la venuta di Cristo. Gesù non fonda la certezza della vita eterna sulla natura dell’uomo (l’immortalità dell’anima), ma sulla “potenza di Dio”, che è un “Dio dei vivi e non dei morti” (Lc 20,27-38). Dopo la Pasqua, a questo fondamento teologico, gli apostoli aggiungeranno quello cristologico: la risurrezione di Cristo da morte. Su di essa l’Apostolo fonda la fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dai morti?…Ora Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 12.20).
Anche nel mondo greco–romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è che la vita vera termina con la morte; dopo di essa c’è solo una esistenza da larve, in un mondo di ombre. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica. Secondo essa, il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima[1].
Questa credenza rimarrà, tuttavia, largamente minoritaria, riservata agli iniziati ai misteri e ai seguaci di particolari scuole filosofiche. Presso la massa persisterà la convinzione antica che la vita vera termina con la morte. Sono note le parole che l’imperatore Adriano rivolge a se stesso prossimo alla morte:
Piccola anima smarrita e soave,
Compagna e ospite del corpo,
ora t’appresti a ascendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora
Guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non rivedremo mai più…[2].
Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena; si capisce anche perché l’idea e i simboli della vita eterna sono così frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.
Ma che è successo all’idea cristiana di una vita eterna per l’anima e per il corpo, dopo che aveva trionfato sull’idea pagana del “buio oltre la morte”? A differenza del momento attuale in cui l’ateismo si esprime soprattutto nella negazione dell’esistenza di un Creatore, nel secolo XIX esso si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà. Raccogliendo l’affermazione di Hegel, secondo cui “i cristiani sprecano in cielo le energie destinate alla terra”, Feuerbach e soprattutto Marx hanno combattuto la credenza in una vita dopo morte, sotto pretesto che essa aliena dall’impegno terreno. All’idea di una sopravvivenza personale in Dio, si sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella specie e nella società del futuro.
A poco a poco, con il sospetto, è caduto sulla parola eternità l’oblio e il silenzio. Il materialismo e il consumismo hanno fatto il resto nelle società opulente, facendo perfino apparire sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi. Tutto questo ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti che si è fatta, su questo punto, timida e reticente. Quando abbiamo sentito l’ultima predica sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel Credo: “Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma senza dare troppo peso a queste parole. Aveva ragione Kierkegaard quando scriveva: “L’aldilà è diventato uno scherzo, un’esigenza così incerta che non solo nessuno più la rispetta, ma anzi neppure più la prospetta, al punto che ci si diverte perfino al pensiero che c’era un tempo in cui quest’idea trasformava l’intera esistenza”[3].
Qual è la conseguenza pratica di questa eclisse dell’idea di eternità? San Paolo riferisce il proposito di coloro che non credono nella risurrezione da morte: “Mangiamo, beviamo, domani moriremo” (l Cor 15,32). Il desiderio naturale di vivere sempre , distorto, diventa desiderio, o frenesia, di vivere bene , cioè piacevolmente, anche a spese degli altri, se necessario. La terra intera diventa quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Caduto l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda.
3. Nostalgia di eternità
Anche a proposito del secolarismo, come per lo scientismo, la risposta più efficace non consiste nel combattere l’errore contrario, ma nel far risplendere di nuovo davanti agli uomini la certezza della vita eterna, facendo leva sulla forza intrinseca che possiede la verità quando è accompagnata dalla testimonianza della vita. “A un’idea, scriveva un antico Padre, si può sempre opporre un’altra idea e a una opinione un’altra opinione; ma cosa si potrà opporre a una vita?”
Dobbiamo far leva anche sulla corrispondenza di tale verità al desiderio più profondo, anche se represso, del cuore umano. A un amico che gli rimproverava, quasi fosse una forma di orgoglio e di presunzione, il suo anelito all’eternità, Miguel de Unamuno, che non era certo un apologeta della fede, rispose in una lettera:
“Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c’è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E troppo facile affermare: ‘Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita’. E quelli che non se ne accontentano?”[4].
Non è chi desidera l’eternità, aggiungeva nella stessa occasione, che mostra di disprezzare il mondo e la vita di quaggiù, ma al contrario chi non la desidera: “Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no”. Sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Cui non datur semper vivere, quid prodest bene vivere?”, “A che giova vivere bene, se non è dato vivere sempre?”[5]. “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”, ha cantato un nostro poeta [6].
Agli uomini del nostro tempo che coltivano in fondo al cuore questo bisogno di eternità, senza forse avere il coraggio di confessarlo agli altri e neppure a se stessi, noi possiamo ripetere ciò che Paolo diceva agli ateniesi: “Ciò che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (cf. Atti 17,23).
La risposta cristiana al secolarismo nel senso che lo intendiamo qui, non si fonda, come per Platone, su un’idea filosofica –l’immortalità dell’anima -, ma su un evento. L’illuminismo aveva posto il celebre problema come si possa attingere l’eternità, mentre si è nel tempo e come si possa dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna[7]. In altre parole: come si possa giustificare la pretesa della fede cristiana di promettere una vita eterna e di minacciare una pena ugualmente eterna, per atti compiuti nel tempo.
L’unica risposta valida a questo problema è quella che si fonda sulla fede nell’incarnazione di Dio. In Cristo, l’eterno è entrato nel tempo, si è manifestato nella carne; davanti a lui è possibile prendere una decisione per l’eternità. È così che l’evangelista Giovanni parla della vita eterna: “Vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1 Gv 1, 2).
4. Eternità: una speranza e una presenza
Per il credente, l’eternità non è, come si vede, solo una speranza, è anche una presenza. Ne facciamo l’esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui possiede già la vita eterna (cfr. 1Gv 5,13); ogni volta che riceviamo la comunione, perché in essa “ci viene dato il pegno della gloria futura” (“futurae gloriae nobis pignus datur”); ogni volta che ascoltiamo le parole del Vangelo che sono “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68). Anche san Tommaso d’Aquino dice che “la grazia è già l’inizio della gloria”[8].
Questa presenza dell’eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo. Egli è definito “ la caparra della nostra eredità “ (Ef 1,14; 2Cor 5,5), e ci è stato donato perché, avendo ricevuto le primizie, noi aneliamo alla pienezza. “ Cristo – scrive sant’ Agostino – ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto renderci sicuri del compimento della sua promessa. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra lo Spirito che ci ha dato”[9].
Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi […]. Per l’embrione tuttavia la vita futura è assolutamente futura: non giunge a lui nessun raggio di luce, nulla di ciò che è di questa vita. Non così per noi, dal momento che il secolo futuro è stato come riversato e commisto a questo presente […] Perciò già ora è concesso ai santi non solo di disporsi e prepararsi alla vita, ma di vivere e di operare in essa”[10].
Esiste una storiella che illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo? La bimba, facendosi coraggio: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi.”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.
Potremmo utilizzare questa simpatica storiella quando dobbiamo annunciare la vita eterna a persone che hanno smarrito la fede in essa, ma ne conservano la nostalgia e forse aspettano che la Chiesa, come quella bambina, li aiuti a prendere coscienza di questo loro anelito.
5. Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?
Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi da che mondo è mondo e gli uomini di oggi non fanno eccezione: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo”. Nella sua “Storia ecclesiastica del popolo inglese”, il Venerabile Beda racconta come la fede cristiana fece il suo ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i missionari venuti da Roma arrivarono nel Northumberland, il re Edwino convocò un consiglio dei dignitari per decidere se permettere loro, o meno, di diffondere il nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e disse:
“Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino, entra da una apertura della parete e subito esce dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla tempesta invernale; ma dopo aver goduto del breve tepore, subito scompare dalla vista, perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa di più sicuro su ciò, dico che la si deve accogliere”[11].
Chissà che la fede cristiana non possa ritornare in Inghilterra e nel continente europeo per la stessa ragione per cui vi fece il suo ingresso: come l’unica che ha una risposta sicura da dare ai grandi interrogativi della vita terrena. L’occasione più propizia per far giungere questo messaggio sono i funerali. In essi le persone sono meno distratte che in altri riti di passaggio (battesimo, matrimonio), si interrogano sul proprio destino. Quando si piange su un caro defunto, si piange anche su di sé. Piangevo “su di lei e per lei, su di me e per me”, scrive Agostino della morte di sua madre Monica[12].
Ho ascoltato una volta un interessante programma della BBC sui cosiddetti “funerali secolari” o “umanistici”, con la registrazione dal vivo dello svolgimento di uno di essi. A un certo punto si sentiva l’officiante che diceva ai presenti: “Non dobbiamo essere tristi. Vivere una buona vita, appagante, per settantotto anni (l’età della defunta) è qualcosa di cui si deve essere grati”. Grati a chi?, mi domandavo. Un tale funerale non fa che rendere più evidente la disfatta totale dell’uomo di fronte alla morte.
L’occasione di evangelizzazione che sono i funerali può essere sciupata in due modi: o perché manca nel ministro della Chiesa un genuino senso di umanità che porta a interessarsi del defunto, a piangere, come faceva Gesù, davanti al dolore altrui; oppure perché non si va oltre il piano dei convenevoli umani e non si ha il coraggio di annunciare la grande notizia della vittoria di Cristo sulla morte.
Il cardinal Newman che abbiamo scelto come maestro speciale in questo Avvento ci iuta a completare le nostre riflessioni con una verità finora taciuta. Lo fa con il poemetto “Il sogno di Geronzio”, posto in musica dal compositore inglese Edgar Elgar. Un vero capolavoro per profondità di pensieri, afflato lirico, coralità liturgica e drammaticità.
Descrive il sogno di un anziano che si sente prossimo alla fine, ma si sa che si tratta di Newman stesso in un momento particolare della sua vita. Ai pensieri sul senso della vita, della morte, sull’abisso del nulla in cui sta precipitando, si sovrappongono i commenti degli astanti, la voce orante della Chiesa: “Parti da questo mondo, anima cristiana“ (“proficiscere, anima christiana”), le voci contrastanti di angeli e demoni che soppesano la sua vita e reclamano la sua anima. Il momento del trapasso dal tempo all’eternità vi è descritto con immagini efficacissime:
“Sento in me una leggerezza indicibile, ed un senso
di libertà, come se fossi me stesso finalmente,
e mai lo fossi stato prima. Quanta pace!
Non odo più l’incessante battito del tempo,
né il mio respiro ansimante, né il polso affannoso;
non un momento differisce da quello che viene dopo”[13].
Le ultime parole che l’anima pronuncia nel poema sono quelle con cui si avvia serena, e anzi impaziente, al Purgatorio:
Là canterò il mio Signore ed il mio Amore assenti: -
portatemi via,
perché più presto possa sorgere, ed ascendere lassù.
E vedere Lui nella verità del giorno sempiterno”[14].
Per l’imperatore Adriano, la morte era il passaggio dalla realtà alle ombre, per il cristiano John Newman essa è il passaggio dalle ombre alla realtà, “ex umbris et imaginibus in veritatem”, come volle fosse scritto sulla sua tomba.
Qual è, allora, la verità che Newman ci obbliga a non passare sotto silenzio? Che il passaggio dal tempo all’eternità non è rettilineo e uguale per tutti. C’è un giudizio da affrontare e un giudizio che può avere due esiti molto diversi, l’inferno o il paradiso. Quella di Newman è una spiritualità austera, a tratti quasi rigorista; richiama quella del Dies irae: “Lungo la mia vita terrena –dice l’anima di Geronzio al suo angelo custode – il pensiero della morte e del Giudizio fu per me assai terribile: lo avevo sempre innanzi, e vedevo il Giudice severo perfino nel Crocifisso”. Ma proprio per questo può essere un utile correttivo in un’epoca incline a prendere tutto alla leggera e a scherzare, come diceva Kierkegaard, con il pensiero dell’eternità!
6. Andremo alla casa del Signore!
Una rinnovata fede nell’eternità non ci serve solo per l’evangelizzazione, cioè per l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima ancora, per imprimere un nuovo slancio al nostro cammino verso la santità. L’affievolirsi dell’idea di eternità agisce anche sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita.
Pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da pesare e dall’altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura, tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il sopravvento, anche un pugno di piume.
Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è l’eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo. Gesù diceva: “Se la tua mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio entrare nella vita con una mano sola o con un occhio solo, anziché con tutti e due essere gettato nel fuoco eterno” (cfr. Mt 18,8-9). Ma noi, avendo perso di vista l’eternità, troviamo già eccessivo che ci si chieda di chiudere gli occhi davanti a uno spettacolo immorale.
San Paolo osa scrivere: “Il momentaneo, leggero peso della tribolazione ci procura un peso smisurato ed eterno di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,17-18). Il peso della tribolazione è “ leggero proprio perché momentaneo, quello della gloria è smisurato proprio perché eterno. Per questo lo stesso Apostolo può dire: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi, detti “salmi delle ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i salmi che cantavano i pellegrini israeliti quando “salivano” in pellegrinaggio verso la città santa, Gerusalemme. Uno di essi comincia così: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni sono diventati ormai i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in cammino verso la Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi. Commentando quelle parole iniziali del salmo, sant’Agostino diceva ai suoi fedeli:
“Corriamo perché andremo alla casa del Signore; corriamo perché tale corsa non stanca; perché arriveremo a una meta dove non esiste stanchezza. Corriamo alla casa del Signore e la nostra anima gioisca per coloro che ci ripetono queste parole. Essi hanno visto prima di noi la patria, l’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto: Correte, affrettatevi, veniteci dietro! “Andiamo alla casa del Signore!”[15].
Abbiamo davanti a noi, in questa cappella, una splendida rappresentazione musiva della Gerusalemme celeste, con Maria, gli apostoli e una lunga teoria di santi orientali e occidentali. Essi ci ripetono silenziosamente l’invito: “Correte, affrettatevi, veniteci dietro”. Di fronte a ogni difficoltà e problema, ripetiamo con san Bernardo: “Quid hoc ad aeternitatem?”, che importanza ha questo per l’eternità?; ripetiamo anche, con il poeta: “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”.
[1] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1967, p. 173ss.
[2] Animula vagula, blandula, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.
[3] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 458.
[4] Miguel de Unamuno, “Cartas inéditas de Miguel de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain,” ed. Hernán Benítez, Revista de la Universidad de Buenos Aires, vol. 3, no. 9 (Gennaio-Marzo 1949), pp. 135. 150.
[5] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45, 2 (PL, 35, 1720).
[6] Antonio Fogazzaro, “A Sera,” in Le poesie, Milano, Mondadori, 1935, pp. 194–197.
[7] G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, X, p.36.
[8] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 24, art.3, ad 2.
[9] S. Agostino, Sermo 378,1 (PL, 39, 1673).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I,1-2, ed. a cura di U. Neri, Torino, UTET, 1971, pp.65-67.,
[11] Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica Anglorum, II, 13.
[12] S. Agostino, Confessioni, XII,33.
[13] Il sogno di Geronzio, in Newman Poeta, a cura di L. Obertello, Jaka Book, Milano 2010, p.124
[14] Ib, p. 156.
[15] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 121,2 (CCL, 40, p. 1802).

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TERZA PREDICA

La risposta cristiana al razionalismo

PRONTI A RENDERE RAGIONE DELLA SPERANZA CHE È IN NOI” (1 Pietro 3,15)
1. La ragione usurpatrice
Il terzo ostacolo, che rende tanta parte della cultura moderna “refrattaria” al Vangelo, è il razionalismo. Di esso intendiamo occuparci in questa ultima meditazione di Avvento.
Il cardinale, e ora beato, John Henry Newman ci ha lasciato un memorabile discorso, pronunciato l’11 Dicembre del 1831, all’Università di Oxford, intitolato “The Usurpation of Raison”, l’usurpazione, o la prevaricazione, della ragione. In questo titolo c’è già la definizione di ciò che intendiamo per razionalismo[1]. In una nota di commento a questo discorso, scritta nella prefazione alla sua terza edizione nel 1871, l’autore spiega cosa intende con tale espressione. Per usurpazione della ragione –dice- si intende “quel certo diffuso abuso di tale facoltà che si verifica ogni qual volta ci si occupa di religione senza una adeguata conoscenza intima, o senza il dovuto rispetto per i primi principi ad essa propri. Questa pretesa ‘ragione’ è chiamata dalla Scrittura ‘la sapienza del mondo’; è il ragionare di religione di chi ha la mentalità secolaristica, e si basa su massime mondane, che le sono intrinsecamente estranee” [2].
In un altro dei suoi Sermoni universitari, intitolato “Fede e ragione a confronto”, Newman illustr, con l’analogia della coscienza, perché la ragione non può essere l’ultimo giudice in fatto di religione e di fede:
“Nessuno, scrive, dirà che la coscienza si oppone alla ragione, o che i suoi dettami non possono essere posti in forma argomentativa; tuttavia chi, da ciò, vorrà arguire che la coscienza non è un principio originale, ma che per agire ha bisogno di attendere i risultati di un processo logico-razionale? La ragione analizza i fondamenti e i motivi dell’azione, senza essere essa stessa uno di questi motivi. Come dunque la coscienza è un elemento semplice della nostra natura, e tuttavia le sue operazioni ammettono di essere giustificati dalla ragione, altrettanto la fede può essere conoscibile e i suoi atti possono essere giustificati dalla ragione, senza con questo dipenderne realmente […].Quando si dice che il vangelo esige una fede razionale, si vuole soltanto dire che la fede concorda con la retta ragione in astratto, ma non che ne sia in realtà il risultato”[3].
Una seconda analogia è quella dell’arte. “Il critico d’arte –scrive – valuta ciò che egli stesso non sa creare; altrettanto la ragione può dare la sua approvazione all’atto di fede, senza per questo essere la fonte da cui la fede promana”[4].
L’analisi di Newman ha dei tratti nuovi e originali; mette in luce la tendenza, per così dire imperialista, della ragione a sottomettere ogni aspetto della realtà ai propri principi. Si può però considerare il razionalismo anche da un altro punto di vista, strettamente collegato con il precedente. Per rimanere nella metafora politica impiegata da Newman, potremmo definirlo l’atteggiamento di isolazionismo, di chiusura in se stessa della ragione. Esso non consiste tanto nell’invadere il campo altrui, quanto nel non riconoscere l’esistenza di altro campo fuori del proprio. In altre parole, nel rifiuto che possa esistere alcuna verità al di fuori di quella che passa attraverso la ragione umana.
In questa veste, il razionalismo non è nato con l’illuminismo, anche se esso gli ha impresso una accelerazione i cui effetti perdurano ancora. È una tendenza contro la quale la fede ha dovuto fare i conti da sempre, non solo la fede cristiana, ma anche quella ebraica e islamica, almeno nel medioevo.
Contro tale pretesa di assolutismo della ragione, si è levata in ogni epoca la voce non solo di uomini di fede, ma anche di uomini militanti nel campo della ragione, filosofi e scienziati. “L’atto supremo della ragione, ha scritto Pascal, sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”[5]. Nell’istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento che è, pertanto, un atto squisitamente razionale. È, alla lettera, una “dotta ignoranza” [6], un ignorare “a ragion veduta”, sapendo di ignorare.
Si deve dunque dire che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. “Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: ‘Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire’. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può ‘capire che non può capire’, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire”[7].
2. Fede e senso del Sacro
È da attendersi che questo tipo di contestazione reciproca tra fede e ragione continui anche in futuro. È inevitabile che ogni epoca rifaccia il cammino per conto proprio, ma né i razionalisti convertiranno con i loro argomenti i credenti, né i credenti i razionalisti. Bisogna trovare una via per rompere questo circolo e liberare la fede da questa strettoia. In tutto questo dibattito su ragione e fede, è la ragione che impone la sua scelta e costringe la fede, per così dire, a giocare fuori casa e sulla difensiva.
Ne aveva ben coscienza il cardinal Newman che in un altro dei suoi discorsi universitari mette in guardia dal rischio di una mondanizzazione della fede nel suo desiderio di correre dietro la ragione. Egli dice di capire, anche se non può accettarle fino in fondo, le ragioni di coloro che sono tentati di sganciare completamente la fede dall’indagine razionale, a causa “degli antagonismi e le divisioni fomentati dall’argomentare e dibattere, l’orgogliosa confidenza che spesso accompagna lo studio delle prove apologetiche, la freddezza, il formalismo, lo spirito secolaristico e carnale, mentre la Scrittura parla della religione come di una vita divina, radicata negli affetti e manifestantesi in grazie spirituali”[8].
In tutti gli interventi di Newman sul rapporto tra ragione e fede, allora non meno dibattuto di oggi, si avverte un ammonimento: non si può combattere il razionalismo con un altro razionalismo, magari di segno contrario. Bisogna dunque trovare un’altra strada che non pretenda di sostituire quella della difesa razionale della fede, ma almeno che l’affianchi, anche perché i destinatari dell’annuncio cristiano non sono solo degli intellettuali, capaci di impegnarsi in questo tipo di confronto, ma anche la massa delle persone comuni indifferenti ad esso e più sensibili ad altri argomenti.
Pascal proponeva la strada del cuore: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”[9]; i romantici (per esempio Schleiermacher) proponevano quella del sentimento. Ci resta, penso, una via da battere: quella dell’esperienza e della testimonianza. Non intendo, almeno per ora, parlare dell’esperienza personale, soggettiva, della fede, ma di una esperienza universale e oggettiva che possiamo perciò far valere anche nei confronti di persone ancora estranee alla fede. Essa non ci porta fino alla fede piena e che salva: la fede in Gesù Cristo morto e risorto, ma ci può aiutare a crearne il presupposto che è l’apertura al mistero, la percezione di qualcosa che è al di sopra del mondo e della ragione.
Il contributo più notevole che la moderna fenomenologia della religione ha dato alla fede, soprattutto nella forma che essa riveste nell’opera classica di Rudolph Otto “Il sacro”[10], è di aver mostrato che l’affermazione tradizionale secondo cui c’è qualcosa che non si spiega con la ragione, non è un postulato teorico o di fede, ma un dato primordiale di esperienza.
Esiste un sentimento che accompagna l’umanità fin dai suoi primordi ed è presente in tutte le religioni e le culture. L’autore lo chiama il sentimento del numinoso. Esso è un dato primario, irriducibile a ogni altro sentimento o esperienza umana; coglie l’uomo con un brivido quando, per qualche circostanza esterna o interna a lui, si trova davanti alla rivelazione del mistero “tremendo e affascinante” del soprannaturale.
Otto designa l’oggetto di questa esperienza con l’aggettivo “irrazionale” (il sottotitolo dell’opera è “L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale”); ma tutta l’opera dimostra che il senso che egli da al termine “irrazionale” non è quello di “contrario alla ragione”, ma quello di “fuori della ragione”, di non traducibile in termini razionali. Il numinoso si manifesta in gradi diversi di purezza: dallo stadio più grezzo che è la reazione inquietante suscitata dalle storie di spiriti e di spettri, allo stadio più puro che è la manifestazione della santità di Dio – il Qadosh biblico -, come nella celebre scena della vocazione di Isaia (Is 6, 1 ss).
Se è così, la rievangelizzazione del mondo secolarizzato passa anche attraverso un recupero del senso del sacro. Il terreno di cultura del razionalismo –sua causa ed insieme suo effetto – è la perdita del senso del sacro; è necessario perciò che la Chiesa aiuti gli uomini a rimontare la china e riscoprire la presenza e la bellezza del sacro nel mondo. Charles Péguy ha detto che “la spaventosa penuria del Sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Lo si nota in ogni aspetto della vita, ma in particolare nell’arte, nella letteratura e nel linguaggio di tutti i giorni. Per molti autori, essere definiti “dissacranti” non è più un’offesa, ma un complimento.
La Bibbia viene accusata a volte di aver “desacralizzato” il mondo per aver scacciato ninfe e divinità dai monti, dai mari e dai boschi, e aver fatto di essi semplici creature a servizio dell’uomo. Questo è vero, ma è proprio spogliandole di questa falsa pretesa di essere essi stessi delle divinità, che la Scrittura le ha restituite alla loro genuina natura di “segno” del divino. È l’idolatria delle creature che la Bibbia combatte, non la loro sacralità.
Così “secolarizzato”, il creato ha ancora più potere di provocare l’esperienza del numinoso e del divino. Di una esperienza del genere reca il segno, a mio parere, la celebre dichiarazione di Kant, il rappresentante più illustre del razionalismo filosofico:
Due cose riempiono l’animo mio di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. […]. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata”[11].
Uno scienziato vivente, Francis Collins, da poco nominato accademico pontificio, nel suo libro “Il Linguaggio di Dio”, descrive così il momento del suo ritorno alla fede: “In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta, passeggiando sulle montagne, mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo” [12].
Le stesse scoperte meravigliose della scienza e della tecnica, anziché portare al disincanto, possono diventare occasioni di stupore e di esperienza del divino. Il momento finale della scoperta del genoma umano viene descritto dallo stesso Francis Collins che fu a capo dell’equipe governativa che portò a tale scoperta, “una esperienza di esaltazione scientifica e al tempo stesso di adorazione religiosa”. Tra le meraviglie del creato, nulla è più meraviglioso dell’uomo e, nell’uomo, della sua intelligenza creata da Dio.
La scienza dispera ormai di toccare un limite estremo nell’esplorazione dell’infinitamente grande che è l’universo e nell’esplorazione dell’infinitamente piccolo che sono le particelle sub-atomiche. Alcuni fanno di queste “sproporzioni” un argomento a favore dell’inesistenza di un Creatore e dell’insignificanza dell’uomo. Per il credente esse sono il segno per eccellenza, non solo dell’esistenza, ma anche degli attributi di Dio: la vastità dell’universo, è il segno meno inadeguato della sua infinita grandezza e trascendenza e la piccolezza dell’atomo, è segno della sua immanenza e dell’umiltà della sua incarnazione che lo ha portato a farsi bambino nel seno di una madre e minuscolo pezzo di pane nelle mani del sacerdote.
Anche nella vita umana quotidiana non mancano occasioni in cui è possibile fare l’esperienza di un’”altra” dimensione: l’innamoramento, la nascita del primo figlio, una grande gioia. Bisogna aiutare le persone ad aprire gli occhi e a ritrovare la capacità di stupirsi. “Chi si stupisce, regnerà”, dice un detto attribuito a Gesù fuori dei vangeli[13]. Nel romanzo “I fratelli Karamazov”, Dostoevskij riferisce le parole che lo starez Zosima, ancora ufficiale dell’esercito, rivolge ai presenti, nel momento in cui, folgorato dalla grazia, rinuncia a battersi in duello con l’avversario: “Signori, girate intorno lo sguardo ai doni di Dio: questo cielo limpido, quest’aria pura, quest’erba tenera, questi uccellini: la natura è così bella e innocente, mentre noi, noi soli, siamo lontani da Dio e siamo stupidi e non comprendiamo che la vita è un paradiso, giacché basterebbe che lo volessimo comprendere, e subito quello s’instaurerebbe in tutta la sua bellezza, e noi ci abbracceremmo e romperemmo in lacrime”[14]. Questo è genuino senso della sacralità del mondo e della vita!
Per noi credenti, un’occasione privilegiata di esperienza del numinoso dovrebbe essere la liturgia in qualche suo momento forte. A proposito di certe omelie pasquali antiche, come quella di Melitone di Sardi del II secolo, gli studiosi hanno coniato l’espressione “epifania cultuale”. Essa designa l’esperienza che i cristiani facevano, nell’acme dell’azione liturgica, di una presenza viva del Risorto in mezzo a loro. Non è escluso che il grido aramaico Maranatha, pronunciato con accento diverso (Maran-athâ, anziché Maranâ-thâ), servisse proprio a esprimere questo sentimento collettivo: non una invocazione “Vieni, Signore!”, ma una esclamazione: “Il Signore è venuto! Il Signore è qui!”
Se apriamo il cuore allo Spirito, noi possiamo fare ora stesso questa medesima esperienza. Il Signore è qui in mezzo a noi, in questa cappella, vivo e vero, come quando apparve agli apostoli riuniti nel cenacolo la sera di Pasqua. Lui in persona. Grazie, Gesù!
3. Bisogno di testimoni
Quando l’esperienza del sacro e del divino che ci giunge improvvisa e inattesa da fuori di noi, è accolta e coltivata, diventa esperienza soggettiva vissuta. Si hanno così i “testimoni” di Dio che sono i santi e, in modo tutto particolare, una categoria di essi, i mistici.
I mistici, dice una celebre definizione di Dionigi Areopagita, sono coloro che hanno “patito Dio” [15], cioè che hanno sperimentato e vissuto il divino. Sono, per il resto dell’umanità, come gli esploratori che entrarono per primi, di nascosto, nella Terra Promessa e poi tornarono indietro per riferire ciò che avevano veduto – “una terra dove scorre latte e miele” -, esortando tutto il popolo ad attraversare il Giordano (cf Num 14,6-9). Per mezzo di essi giungono a noi, in questa vita, i primi bagliori della vita eterna.
Quando si leggono i loro scritti, come appaiono lontane e perfino ingenue le più sottili argomentazioni degli atei e dei razionalisti! Nasce, nei confronti di questi ultimi, un senso di stupore e anche di pena, come davanti a qualcuno che parla di cose che manifestamente non conosce. Come chi credesse di scoprire continui errori di grammatica in un interlocutore, e non si accorgesse che questi sta semplicemente parlando un’altra lingua che lui non conosce. Ma non si ha nessuna voglia di mettersi a confutarli, tanto le stesse parole dette in difesa di Dio appaiono, in quel momento, vuote e fuori luogo.
I mistici sono, per eccellenza, coloro che hanno scoperto che Dio “esiste”; anzi, che egli solo esiste davvero e che è infinitamente più reale di ciò che di solito chiamiamo realtà. Fu precisamente da uno di questi incontri che una discepola del filosofo Husserl, ebrea e atea convinta, una notte scoprì il Dio vivente. Parlo di Edith Stein, ora Santa Teresa Benedetta della Croce. Era ospite di amici cristiani e una sera che questi si erano dovuti assentare, rimasta sola in casa e non sapendo cosa fare, prese un libro dalla loro biblioteca e si mise a leggerlo. Era l’autobiografia di santa Tersa d’Avila. Andò avanti a leggere tutta la notte. Giunta alla fine, esclamò semplicemente: “Questa è la verità!”. Di buon mattino andò in città a comprare un catechismo cattolico e un messalino e, dopo averli studiati, si recò a una vicina chiesa e domandò al sacerdote di essere battezzata.
Ho fatto anch’io una piccola esperienza del potere che hanno i mistici di far toccare con mano il soprannaturale. Era l’anno in cui si discuteva molto sul libro di un teologo intitolato “Esiste Dio?” (“Existiert Gott?”) ma, giunti alla fine della lettura, ben pochi erano pronti a cambiare il punto interrogativo del titolo in un punto esclamativo. Andando a un congresso mi portai dietro il libro degli scritti della Beata Angela da Foligno che non conoscevo ancora. Ne rimasi letteralmente abbagliato; lo portavo con me alle conferenze, lo riaprivo a ogni intervallo, e alla fine lo richiusi dicendo a me stesso: “Se Dio esiste? Non solo esiste, ma è davvero fuoco divorante!”
Purtroppo una certa moda letteraria è riuscita a neutralizzare anche la “prova” vivente dell’esistenza di Dio che sono i mistici. Lo ha fatto con un metodo singolarissimo: non riducendo il loro numero, ma aumentandolo, non restringendo il fenomeno, ma dilatandolo a dismisura. Mi riferisco a coloro che in una rassegna dei mistici, in antologie dei loro scritti, o in una storia della mistica, mettono uno accanto all’altro, come appartenenti allo stesso genere di fenomeni, san Giovanni della Croce e Nostradamus, santi ed eccentrici, mistica cristiana e cabala medievale, ermetismo, teosofismo, forme di panteismo e perfino l’alchimia. I mistici veri sono un’altra cosa e la Chiesa ha ragione di essere così rigorosa nel suo giudizio su di loro.
Il teologo Karl Rahner, riprendendo, pare, una frase di Raimondo Pannikar, ha affermato: “Il cristiano di domani, o sarà un mistico, o non sarà”. Intendeva dire che, in futuro, a tener viva la fede sarà la testimonianza di persone che hanno una profonda esperienza di Dio, più che la dimostrazione della sua plausibilità razionale. Quando l’apostolo Pietro raccomandava ai cristiani di essere pronti a”dar ragione della loro speranza” (1 Pt 3,15), è certo, dal contesto, che non intendeva parlare di ragioni speculative o dialettiche, ma delle ragioni pratiche, cioè della loro esperienza di Cristo, unita alla testimonianza apostolica che la garantiva.
Il motto cardinalizio di Newman “COR AD COR LOQUITUR” voleva dire anche questo: “Al cuore della gente arriva solo ciò che parte dal cuore dell’annunciatore”. Nel quinto dei suoi sermoni universitari, intitolato: “L’influsso personale come mezzo di diffusione della verità”, egli scrive: “La verità è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all’influenza personale di uomini che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli”[16]. Paolo VI diceva, in fondo, la stessa cosa quando affermava, nell’Evangelii nuntiandi (nr.41): “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.
4. Un soprassalto di fede a Natale
Arriviamo così alla conclusione pratica che più ci interessa in una meditazione come questa. Ho parlato di irruzioni improvvise del numinoso e il soprannaturale nella vita. Di esse non hanno bisogno soltanto i non credenti e i razionalisti per venire alla fede; ne abbiamo bisogno anche noi credenti. Il pericolo maggiore che corrono le persone religiose è di ridurre la fede a una sequenza di riti e di formule, ripetute magari anche con scrupolo, ma meccanicamente e senza intima partecipazione di tutto l’essere. “Questo popolo si avvicina a me solo con la bocca – si lamenta Dio in Isaia – e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani” (Is 29, 13).
Il Natale può essere un’occasione privilegiata per avere questo soprassalto di fede. Esso è la suprema “teofania” di Dio, la più alta “manifestazione del Sacro”. Purtroppo il fenomeno del secolarismo sta spogliando questa festa del suo carattere di “mistero tremendo” – cioè che induce al santo timore e all’adorazione -, per ridurlo al solo aspetto di “mistero affascinante”. Affascinante, quel che è peggio, in senso solo naturale, non soprannaturale: una festa dei valori familiari, dell’inverno, dell’albero, delle renne e di Babbo Natale. È in atto in qualche paese il tentativo di cambiare anche il nome di Natale in quello di “festa della luce”. In pochi casi la secolarizzazione è così visibile come a Natale.
Per me, il carattere “numinoso” del Natale è legato a un ricordo. Assistevo un anno alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:
“Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nella centonovantacinquesima Olimpiade,
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,
Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.
Giunti a queste ultime parole provai quella che viene chiamata “l’unzione della fede”: una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.
Aiuta molto a fare del Natale l’occasione per un soprassalto di fede trovare spazi di silenzio. La liturgia avvolge la nascita di Gesù nel silenzio: “Dum medium silentium tenerent omnia”, mentre tutto intorno era silenzio. “Stille Nacht”, notte di silenzio, viene chiamato il Natale nel più diffuso e caro dei canti natalizi. A Natale dovremmo sentire come rivolto personalmente a noi l’invito del Salmo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio” (Sal 46,10).
La Madre di Dio è il modello insuperabile di questo silenzio natalizio: “Maria – è scritto –, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19). Il silenzio di Maria a Natale è più che un semplice tacere; è meraviglia, è adorazione; è un “religioso silenzio”, un essere sopraffatta dalla realtà. L’interpretazione più vera del silenzio di Maria è quella che si ha nelle antiche icone bizantine, dove la Madre di Dio ci appare immobile, con lo sguardo fisso, gli occhi spalancati, come chi ha visto cose che non si possono ridire a parole. Maria, per prima, ha elevato a Dio quello che san Gregorio Nazianzeno chiama un “inno di silenzio”[17].
Fa veramente il Natale chi è capace di fare oggi, a distanza di secoli, quello che avrebbe fatto, se fosse stato presente quel giorno. Chi fa quello che ci ha insegnato a fare Maria: inginocchiarsi, adorare e tacere!
NOTE
[1] J.H. Newman, Oxford University Sermons, London 1900, pp.54-74; trad. Ital. di L. Chitarin, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, pp. 465-481.
[2] Ib.p. XV (trad. ital. Cit. p.726).
[3] Ib., p. 183 (trad. ital. Cit. p.575).
[4] Ibidem.
[5] B.Pascal, Pensieri 267 Br.
[6] S. Agostino, Epist. 130,28 (PL 33, 505).
[7] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.
[8] Newman, op. cit., p. 262 (trad. ital. cit., p. 640 s).
[9] B. Pascal, Pensieri, n.146 (ed. Br. N. 277).
[10] R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und seine Verhältnis zum Rationalem, 1917. ( Trad. ital. di E. Bonaiuti, Il Sacro, Milano, Feltrinelli 1966).
[11] I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1974, p. 197.
[12] F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, Free Press 2006, pp. 219 e 255.
[13] In Clemente Alessandrino, Stromati, 2, 9).
[14] F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, parte II, VI,
[15] Dionigi Areopagita, Nomi divini II,9 (PG 3, 648) (“pati divina”).
[16] Mewman, op. cit. pp. 91-92 (trad. Ital. cit. p. 496).
[17] S. Gregorio Nazianzeno, Carmi, XXIX (PG 37, 507).

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AVVENTO 2011

La prima ondata di evangelizzazione
In risposta all’appello del Sommo Pontefice per un rinnovato impegno di evangelizzazione e in preparazione al Sinodo dei Vescovi del 2012 sullo stesso argomento, mi propongo di individuare, in queste meditazioni di Avvento, quattro ondate di nuova evangelizzazione nella storia della Chiesa, cioè quattro momenti in cui si assiste a una accelerazione o a una ripresa dell’impegno missionario. Esse sono:
1. L’espansione del cristianesimo nei primi tre secoli di vita, fino alla vigilia dell’editto di Costantino che vede come protagonisti dapprima i profeti itineranti e poi i vescovi;
2. I secoli VI-IX in cui si assiste alla rievangelizzazione dell’Europa dopo le invasioni barbariche, ad opera soprattutto dei monaci;
3. Il secolo XVI, con la scoperta e la conversione al cristianesimo dei popoli del “nuovo mondo”, ad opera soprattutto dei frati;
4. L’epoca attuale che vede la Chiesa impegnata in una rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato, con la partecipazione determinante dei laici.
In ognuno di questi momenti cercherò di mettere in luce cosa possiamo imparare nella Chiesa di oggi: quali gli errori da evitare e gli esempi da imitare e quale l’apporto specifico che possono dare alla evangelizzazione i pastori, i monaci, i religiosi di vita attiva e i laici.

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 PRIMA PREDICA

"Andate in tutto il mondo"

1. La diffusione del cristianesimo nei primi tre secoli
Iniziamo oggi con una riflessione sulla evangelizzazione cristiana nei primi tre secoli. Un motivo soprattutto fa di questo periodo un modello per tutti i tempi. È il periodo in cui il cristianesimo si fa strada esclusivamente per forza propria. Non c’è nessun “braccio secolare” che lo appoggi; le conversioni non sono determinate da vantaggi esterni, materiali o culturali; essere cristiani non è una consuetudine o una moda, ma una scelta controcorrente, spesso a rischio della vita. Per certi versi, la situazione che è tornata a crearsi oggi in diverse parti del mondo.
La fede cristiana nasce con una apertura universale. Gesù aveva detto ai suoi apostoli di andare “in tutto il mondo” (Mc 16, 15), di “fare discepole tutte le genti” (Mt 28, 19), di essergli testimoni “fino ai confini della terra” (At 1,8), di “predicare a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24, 47).
L’attuazione di principio di questa universalità avviene già nella generazione apostolica, anche se non senza difficoltà e lacerazioni. Il giorno di Pentecoste viene superata la prima barriera, quella della razza (i tremila convertiti appartenevano a popoli diversi, ma erano tutti credenti dell’ebraismo); in casa di Cornelio e nel cosiddetto concilio di Gerusalemme, soprattutto per l’impulso di Paolo, viene superata la barriera più tenace di tutte, quella religiosa che divideva gli ebrei dai gentili. Il vangelo ha ormai davanti a sé il mondo intero, anche se per il momento questo mondo è limitato, nella conoscenza degli uomini, al bacino mediterraneo e ai confini dell’impero romano.
Più complesso è seguire l’espansione di fatto, o geografica, del cristianesimo nei primi tre secoli che però è meno necessario per il nostro scopo. Lo studio più completo, e tuttora insuperato, al riguardo è quello di Adolph Harnack, “Missione ed espansione del cristianesimo nei primi tre secoli”1.
Una forte intensificazione nell’attività missionaria della Chiesa ha luogo sotto il’imperatore Commodo (180-192) e poi nella seconda metà del III secolo, fino cioè alla vigilia della grande persecuzione di Diocleziano (302). Questo, a parte sporadiche persecuzioni locali, fu un periodo di relativa pace che permise alla Chiesa nascente di consolidarsi al suo interno e di sviluppare un’attività missionaria di tipo nuovo.
Vediamo in che consiste questa novità. Nei primi due secoli la propagazione della fede era affidata all’iniziativa personale. Si trattava dei profeti itineranti, di cui parla la Didaché, che si spostavano di luogo in luogo; molte conversioni erano dovute a contatti personali, favoriti dal comune mestiere esercitato, dai viaggi e dai rapporti commerciali, dal servizio militare e da altre circostanze della vita. Origene ci da una descrizione commovente dello zelo di questi primi missionari:
“I Cristiani fanno tutti gli sforzi possibili per diffondere la fede su tutta la terra. A tal fine alcuni di essi si propongono formalmente come compito della loro vita il peregrinare non solo di città in città, ma anche di borgata in bor­gata e di villa in villa per guadagnare nuovi fedeli al Signore. Nè si dirà, spero, che essi lo fanno per guadagno, dal momento che spesso essi ricusano di accettare perfino quanto è necessario alla vita”2.
Ora, cioè nella seconda metà del secolo III, queste iniziative personali vengono sempre più coordinate e in parte sostituite dalla comunità locale. Il vescovo, anche in reazione alle spinte disgregatrici dell’eresia gnostica, acquista il sopravvento sui maestri, come regista della vita interna della comunità e centro propulsore della sua attività missionaria. La comunità è ormai il soggetto evangelizzatore, a tal punto che uno studioso non sospetto certo di simpatia per l’istituzione, Harnack, può affermare: “ Dobbiamo tener per certo che la sola esistenza e l’operosità costante delle singole comunità fu il principale coefficiente nella propagazione del cristianesimo”.3
Verso la fine del III secolo, la fede cristiana è penetrata praticamente in ogni strato della società, ha ormai una sua letteratura in lingua greca e una, anche se agli inizi, in lingua latina; possiede una solida organizzazione interna; comincia a costruire edifici sempre più capienti, segno dell’accresciuto numero di credenti. La grande persecuzione di Diocleziano, a parte le numerose vittime, non ha fatto che mettere in luce la forza ormai insopprimibile della fede cristiana. L’ultimo braccio dei ferro tra impero e cristianesimo ne ha dato la prova.
Costantino non farà, in fondo, che prendere atto del nuovo rapporto di forze. Non sarà lui a imporre il cristianesimo al popolo, ma il popolo a imporre a lui il cristianesimo. Affermazioni come quelle di Dan Brown nel romanzo “Il codice Da vinci” e di altri divulgatori, secondo cui sarebbe stato Costantino, per motivi personali, a trasformare, con il suo editto di tolleranza e con il concilio di Nicea, un’oscura setta religiosa giudaica nella religione dell’impero, si fonda su una totale ignoranza di ciò che precedette tali eventi.
2. Le ragioni del successo
Un tema che ha sempre appassionato gli storici è quello delle ragioni del trionfo del cristianesimo. Un messaggio nato in un oscuro e disprezzato angolo dell’impero, tra persone semplici, senza cultura e senza potere, in meno di tre secoli si estende a tutto il mondo allora conosciuto, soggiogando la raffinatissima cultura dei greci e la potenza imperiale di Roma!
Tra le diverse ragioni del successo, qualcuno insiste sull’amore cristiano e l’esercizio attivo della carità, fino a fare di esso “il fattore singolo più potente del successo della fede cristiana”, tanto da indurre, più tardi, l’imperatore Giuliano l’Apostata a dotare il paganesimo di analoghe opere caritative per contrastare tale successo.4
Harnack, dal canto suo, da grande importanza alla capacità della fede cristiana di conciliare in sé le opposte tendenze e i diversi valori presenti nelle religioni e nella cultura del tempo. Il cristianesimo si presenta a un tempo come la religione dello Spirito e della potenza, cioè accompagnata da segni soprannaturali, carismi e miracoli, e come la religione della ragione e del Logos integrale, “la vera filosofia”, al dire di san Giustino Martire. Gli autori cristiani sono “i razionalisti del soprannaturale”5, afferma lo Harnack, citando il detto di Paolo sulla fede quale “ossequio razionale” (Rom 12,1).
In tal modo il cristianesimo riunisce in sé, in equilibrio perfetto, quello che il filosofo Nietzsche definisce l’elemento apollineo e l’elemento dionisiaco della religione greca, il Logos e lo Pneuma, l’ordine e l’entusiasmo, la misura e l’”eccesso”. È ciò che, almeno in parte, intendevano i Padri della Chiesa con il tema della “sobria ebbrezza dello Spirito”.
“La religione cristiana – scrive lo Harnack al termine della sua monumentale ricerca -, fin dal principio, si affacciò con una uni­versalità che le permise di avocare a sé tutta intera la vita, con tutte le sue funzioni, le sue altezze e profondità, sentimenti, pen­sieri ed azioni. Fu questo spirito di universalità che le assicurò la vittoria. Fu questo che la condusse a professare che il Gesù da essa annunziato era il Logos divino…Così s’illumina di nuova luce e appare quasi una necessità anche quella potente attrazione per cui essa giunse ad assorbire e a subordinare a sè l’Ellenismo. Tutto ciò che in qualsiasi modo era ancor capace di vita entrò come elemento nella sua costruzione… E questa religione non doveva vincere?”6
L’impressione che si ha nel leggere questa sintesi è che il successo del cristianesimo sia dovuto a un insieme di fattori. Qualcuno si è spinto tanto oltre nella ricerca delle ragioni di tale successo da individuare venti cause a favore della fede e altrettante che agivano in senso contrario, come se l’esito finale fosse dipeso dal prevalere delle prime sulle seconde.
Ora vorrei mettere in luce il limite insito in tale approccio storico, anche quando esso è fatto da storici credenti come quelli che ho finora tenuti in conto. Il limite, dovuto allo stesso metodo storico, è di dare più importanza al soggetto che all’oggetto della missione, più agli evangelizzatori e alle condizioni in cui essa si svolge, che al suo contenuto.
Il motivo che mi spinge a farlo è che esso è anche il limite e il pericolo insito in tanti approcci attuali e mediatici, quando si parla di una nuova evangelizzazione. Si dimentica una cosa semplicissima: che Gesù aveva dato lui stesso, in anticipo, una spiegazione del diffondersi del suo vangelo ed è da essa che si deve ripartire ogni volta che ci si accinge a uno nuovo sforzo missionario.
Riascoltiamo due brevi parabole evangeliche, quella del seme che cresce anche di notte e quella del seme di senape.
“Diceva: Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura” (Mc 4, 26-29).
Questa parabola, da sola, ci dice che la ragione essenziale del successo della missione cristiana non viene dall’esterno ma dall’interno, non è opera del seminatore e neppure, principalmente del terreno, ma del seme. Il seme non può gettarsi da se stesso, è tuttavia automaticamente e da stesso che spunta. Dopo aver gettato il seme il seminatore può anche andare a dormire, la vita del seme non dipende più da lui. Quando questo seme è “il seme caduto in terra e morto”, cioè Gesù Cristo, niente potrà impedire che esso “porti molto frutto”. Si possono dare di questi frutti tutte le spiegazioni che si vogliono, ma esse resteranno sempre alla superficie, non coglieranno mai l’essenziale.
Chi ha colto con lucidità la priorità dell’oggetto dell’annuncio sul soggetto, è l’apostolo Paolo. “Io –dice – ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere”. Sembra un commento alla parabola di Gesù. Non si tratta di tre operazioni della stessa importanza; l’apostolo aggiunge infatti: “Quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere!” (1 Cor 3, 6-7). La stessa distanza qualitativa tra il soggetto e l’oggetto dell’annuncio è presente in un’altra parola dell’Apostolo: “Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi” (2 Cor 4,7). Tutto questo si traduce nelle esclamazioni programmatiche: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore!” e ancora “Noi predichiamo Cristo crocifisso”.
Gesù ha pronunciato una seconda parabola basata sull’immagine del seme che spiega il successo della missione cristiana e di cui si deve tenere conto oggi, di fronte all’immane compito di rievangelizzare il mondo secolarizzato.
“Diceva: A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra” (Mc 4, 30-32).
L’insegnamento che qui Gesù ci dà è che il suo Vangelo e la sua stessa persona è quanto di più piccolo esista sulla terra perché non c’è nulla di più piccolo e di più debole di una vita che finisce in una morte di croce. Eppure questo piccolo “seme di senape” è destinato a diventare un albero immenso, tanto da accogliere tra i suoi rami tutti gli uccelli che vi si vanno a rifugiare. Tutta la creazione, assolutamente tutta, andrà a trovarvi rifugio.
Che contrasto rispetto alle ricostruzioni storiche accennate sopra! Lì tutto sembrava incerto, aleatorio, sospeso tra il successo e il fallimento; qui tutto era già deciso e assicurato dal principio! A conclusione dell’episodio dell’unzione di Betania, Gesù pronunciò queste parole: “In verità vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13). La stessa tranquilla consapevolezza che un giorno il suo messaggio si sarebbe diffuso “nel mondo intero”. E non si tratta certamente di una profezia “post eventum”. Tutto, in quel momento, faceva presagire il contrario.
Anche qui, chi ha previsto con maggior sicurezza il futuro della fede è stato Paolo. Mi colpisce questo fatto. L’Apostolo ha predicato all’Areopago di Atene e ha assistito in pratica a un rifiuto del messaggio. Da Corinto, dove si è recato subito dopo, scrive la Lettera ai Romani e in essa afferma di aver ricevuto il compito di condurre “all’obbedienza della fede tutte le genti” (Rom 1, 5-6). L’insuccesso non ha minimamente scalfito la sua fiducia nel messaggio: “Io non mi vergogno –grida – del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco” (Rom 1, 16).
“Ogni albero, dice Gesù si riconosce dal suo frutto” (Lc 6, 44). Questo vale per ogni albero, eccetto l’albero nato da lui, il cristianesimo (e infatti egli parla qui degli uomini); quest’unico albero non si conosce dai frutti, ma dalla radice. Nel cristianesimo la pienezza non è alla fine, (come nella dialettica hegeliana del divenire, secondo cui “vero è l’intero”), ma è al principio; nessun frutto, neppure i più grandi santi, aggiungono qualcosa alla perfezione del modello. In questo senso ha ragione chi ha affermato che “il cristianesimo non è perfettibile”7.
3. Seminare e poi dormire
Quello che gli storici delle origini cristiane non registrano o a cui danno scarso rilievo è l’incrollabile certezza che i cristiani di allora, almeno i migliori di essi, avevano circa la bontà e la vittoria finale della loro causa. “Voi potete ucciderci, ma non potete nuocerci”, diceva il martire Giustino al giudice romano che lo condannava a morte. Alla fine fu questa tranquilla certezza che assicurò loro la vittoria e convinse le autorità politiche dell’inutilità degli sforzi per sopprimere la fede cristiana.
È quello che più ci occorre oggi: ridestare nei cristiani, almeno in coloro che intendono dedicarsi all’opera della rievangelizzazione, la certezza intima della verità di quello che annunciano. “La Chiesa, ha detto una volta Paolo VI, ha bisogno di riacquistare l’ansia, il gusto e la certezza della sua verità”8. Dobbiamo credere, noi per primi, in ciò che annunciamo; ma crederlo veramente. Dobbiamo poter dire con Paolo: “Animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo” (2 Cor 4, 13).
Mi sembra, per questo, una vera ispirazione dello Spirito Santo quella che ha spinto il Santo Padre a indire l’anno della fede dall’11 ottobre 2012 al 24 Novembre 2013. Il successo della nuova evangelizzazione dipenderà infatti dalla massa di fede che si riuscirà a creare nella Chiesa, tra gli stessi evangelizzatori.
Dobbiamo scrollarci di dosso ogni senso di impotenza e di rassegnazione. Abbiamo, è vero, davanti a noi un mondo chiuso nel suo secolarismo, inebriato dai successi della tecnica e dalle possibilità offerte dalla scienza, refrattario all’annuncio evangelico. Ma era forse meno sicuro di sé e meno refrattario al Vangelo il mondo su cui si affacciavano i primi cristiani, cioè la grecità con la sua sapienza e l’impero romano con la sua potenza?
Il compito pratico che le due parabole di Gesù ci assegnano è seminare. Seminare a larghe mani, “a tempo opportuno e inopportuno” (2 Tim 4,2). Il seminatore della parabola che esce a seminare non si preoccupa del fatto che parte del seme finisca sulla strada e parte tra le spine. E pensare che quel seminatore, fuori di metafora, è lui stesso, Gesù! Il motivo è che, in questo caso, non si può sapere in anticipo quale terreno si rivelerà buono e quale duro come l’asfalto o soffocante come un roveto. C’è di mezzo la libertà umana che l’uomo non può prevedere e Dio non vuole violare.
Quante volte tra le persone che hanno ascoltato una certa predica o letto un certo libro, si scopre che chi l’ha preso più sul serio e ne ha avuto la vita cambiata era la persona che meno si sarebbe aspettato, uno che magari era lì per caso, o addirittura controvoglia. Ne potrei raccontare io stesso decine di casi.
Seminare dunque e poi…andare a dormire! Cioè seminare e poi non stare lì tutto il tempo a guardare e misurare i risultati. L’attecchimento e la crescita non è affar nostro, ma di Dio e dell’ascoltatore. Un grande umorista inglese dell’Ottocento, Jerome Klapka Jerome, dice che il miglior modo per ritardare l’ebollizione dell’acqua in una pentola è quello di starle sopra e aspettare con impazienza che bolla.
Fare il contrario è fonte di inquietudine e di impazienza: tutte cose che a Gesù non piacciono e che lui non faceva mai quando era sulla terra. Nel vangelo egli non sembra mai aver fretta. “Nonsiate dunque in ansia per il domani, diceva ai suoi discepoli, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno” (Mt 6,34). Il poeta credente Charles Péguy mette in bocca a Dio queste parole:
“Mi si dice che ci sono uomini –dice Dio -
Che lavorano bene e dormono male.
Che non dormono. Che mancanza di fiducia in me.
È quasi più grave
Che se non lavorassero ma dormissero, perché la pigrizia
Non è un più grande peccato dell’inquietudine…
Non parlo, dice Dio, di quegli uomini
Che non lavorano e non dormono.
Quelli sono peccatori, s’intende…
Parlo di quelli che lavorano e non dormono…
Li compiango. Gliene voglio. Un po’. Non hanno fiducia in me…
Governano benissimo i loro affari durante il giorno.
Ma non vogliono affidarne il governo a me durante la notte…
Chi non dorme è infedele alla Speranza…”9.
È un modo di parlare poetico, ma contiene, a saperla cogliere, una grande sapienza evangelica.
Se c’è una cosa che possiamo fare, dopo aver “seminato”, è quella di “irrigare”, con la preghiera, il seme gettato. Per questo terminiamo con la preghiera che la liturgia ci fa recitare nella Messa “per l’evangelizzazione dei popoli”:
O Dio, tu vuoi che tutti gli uomini siano salvi
E giungano alla conoscenza della verità;
guarda quant’è grande la tua mèsse e manda i tuoi operai,
perché sia annunziato il Vangelo ad ogni creatura
e il tuo popolo, radunato dalla parola di vita
e plasmato dalla forza dei sacramenti,
proceda nella via della salvezza e dell’amore.
Per Cristo, nostro Signore. Amen.
1 A. von Harnack,….
2 Origene, C. Cels. III, 9.
3 Op. cit. p. 321- s.
4 H. Chadwick, The early Church, Penguin Books 1967, pp. 56-58.
5 A. von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, Rist. anast., Cosenza 1986, p. 173.
6 Harnack, op. cit., p. 370.
7 S.Kierkegaard, Diario, X5 A 98 (ed. C. Fabro, Brescia II, 1963, pp.386 ss).
8 Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
9 Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Jaca Book, Milano 1978, pp. 120 s.

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SECONDA PREDICA

"Non c'è più Greco o Giudeo, Barbaro e Scita"


La seconda grande ondata evangelizzatrice dopo le invasioni barbariche
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, in questa meditazione vorrei parlare della seconda grande ondata di evangelizzazione nella storia della Chiesa, quella che seguì al crollo dell’impero romano e al rimescolamento di popoli provocato dalle invasioni barbariche, sempre con lo scopo pratico di vedere cosa da essa possiamo imparare per l’oggi. Data l’ampiezza del periodo storico esaminato e la brevità imposta a una predica, non potrà trattarsi che di una ricostruzione come si dice “a volo d’uccello”.
1. Una decisione epocale
Al momento della fine ufficiale dell’impero romano nel 476, l’Europa presenta, ormai da tempo, un volto nuovo. Al posto dell’unico impero, vi sono tanti regni cosiddetti romano-barbarici. Grosso modo, partendo dal nord, la situazione è questa: al posto della provincia romana della Britannia, vi sono gli Angli e i Sassoni, nelle antiche provincie della Gallia i Franchi, a est del Reno i Frisoni e gli Alemanni, nella penisola iberica i Visigoti, in Italia gli Ostrogoti e più tardi i Longobardi, nell’Africa settentrionale i Vandali. In Oriente resiste ancora l’impero Bizantino.
La Chiesa si trova davanti a una decisione epocale: che atteggiamento prendere di fronte a questa nuova situazione? Non si giunse subito e senza lacerazioni alla determinazione che aprì la chiesa al futuro. Si ripeteva, in parte, quello che era avvenuto al momento del distacco dal giudaismo per accogliere nella Chiesa i gentili. Lo smarrimento generale dei cristiani raggiunse il culmine in occasione del sacco di Roma del 410 da parte di Alarico re dei Goti. Si pensò che fosse arrivata la fine del mondo, essendo ormai il mondo identificato con il mondo romano e il mondo romano con il cristianesimo. S. Girolamo è la voce più rappresentativa di questo smarrimento generale. “Chi avrebbe creduto, scriveva, che questa Roma, costruita sulle vittorie riportate sull’universo intero, dovesse un giorno crollare?” .
Chi contribuì di più, dal punto di vista intellettuale, a traghettare la fede nel nuovo mondo fu Agostino con l’opera De civitate Dei. Nella sua visione, che segna l’inizio di una filosofia della storia, egli distingue la città di Dio dalla città terrena, identificata a tratti (forzando un po’ il suo stesso pensiero), con la città di Satana. Per città terrena egli intende ogni realizzazione politica compresa quella di Roma. Dunque, nessuna fine del mondo, ma solo fine di un mondo!
Nella pratica, un ruolo determinante nell’aprire la fede alla nuova realtà e nel coordinarne le iniziative, fu svolto da romano pontefice. S. Leone Magno ha chiara la consapevolezza che la Roma cristiana sopravvivrà alla Roma pagana e anzi “presiederà con la sua religione divina più ampiamente di quanto avesse fatto questa con la sua dominazione terrena” .
A poco a poco l’atteggiamento dei cristiani verso i popoli barbari cambia; da esseri inferiori, incapaci di civiltà, essi cominciano a venire considerati come possibili futuri fratelli di fede. Da minaccia permanente, il mondo barbarico comincia ad apparire ai cristiani un nuovo, vasto campo di missione. Paolo aveva proclamato abolite con Cristo le distinzioni di razza, di religione, di cultura e di classe sociale con le parole: “Non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,11); ma quanta fatica per tradurre questa rivoluzione nella realtà della storia! E non solo allora!
2. La rievangelizzazione dell’Europa
Nei confronti dei popoli barbari, la Chiesa si trovò a combattere due battaglie. La prima fu contro l’eresia ariana. Molte tribù barbare, soprattutto i Goti, prima di penetrare da conquistatori nel cuore dell’impero, in oriente avevano avuto contatti con il cristianesimo e lo avevano accolto nella versione ariana allora in auge, anche per l’opera svolta presso di loro dal vescovo Ulfila (311-383), traduttore della Bibbia in gotico. Una volta insediatisi nei territori occidentali, avevano portato con sé questa versione eretica del cristianesimo.
L’arianesimo non aveva però una sua organizzazione unitaria e neppure una cultura e una teologia paragonabile a quella dei cattolici. Nel corso del VI secolo, uno dopo l’altro, i regni barbarici abbandonarono l’arianesimo per aderire alla fede cattolica, grazie all’opera di alcuni grandi vescovi e scrittori cattolici e anche, a volte, per calcoli politici. Un momento decisivo fu il concilio di Toledo del 589, animato da Leandro di Siviglia che segnò la fine dell’arianesimo visigotico in Spagna e in pratica in tutto l’occidente.
La battaglia contro l’arianesimo non era però cosa nuova, era iniziata nel lontano 325. La vera impresa nuova portata a termine dalla Chiesa, dopo il tramonto dell’impero romano, fu l’evangelizzazione dei pagani. Questa avvenne in due direzioni: per così dire, ad intra e ad extra, cioè presso i popoli dell’antico impero e in quelli apparsi da poco sulla scena. Nei territori dell’antico impero, Italia e provincie, la Chiesa si era finora impiantata quasi solo nelle città. Si trattava si estendere la sua presenza alla campagna e ai villaggi. Il termine “pagano” deriva, come si sa, da “pagus”, villaggio, e prese il significato che ha ora dal fatto che l’evangelizzazione delle campagne avvenne, in genere, molto dopo quella delle città.
Sarebbe certamente interessante seguire anche questo filone dell’evangelizzazione che portò alla nascita e allo svilupparsi del sistema delle parrocchie, come suddivisioni della diocesi, ma per lo scopo che mi sono prefisso devo limitarmi all’altra direzione dell’evangelizzazione, quella ad extra, destinata a portare il Vangelo ai popoli barbari insediatisi nell’Europa insulare e centrale e cioè nell’attuale Inghilterra, Olanda, Francia e Germania.
Un momento decisivo in questa impresa fu la conversione del re merovingio Clodoveo che nella notte di Natale del 498, o 499 si fece battezzare dal vescovo di Reims S. Remigio. Egli decideva così, secondo il costume del tempo, non solo il futuro religioso del popolo franco, ma anche di altri popoli al di qua e al di là del Reno da lui conquistati. Celebre è la frase che il vescovo Remigio pronunciò al momento di battezzare Clodoveo: “Mitis depone colla, Sigamber; adora quod incendisti, incende quod adorasti”: “China umilmente la nuca, fiero Sigambro: adora quel che hai bruciato, brucia quel che hai adorato” . A questo fatto la Francia deve il suo titolo di “figlia primogenita della Chiesa”.
La cristianizzazione del continente fu portata a termine nel IX secolo con la conversione, ad opera dei santi Cirillo e Metodio, dei popoli slavi che erano venuti ad occupare, nell’Europa orientale, i territori lasciati liberi dalle precedenti ondate migratorie spostatesi in occidente.
L’evangelizzazione dei barbari presentava una condizione nuova, rispetto a quella precedente del mondo greco-romano. Lì, il cristianesimo aveva davanti a sé un mondo colto, organizzato, con ordinamenti, leggi, dei linguaggi comuni; aveva, insomma, una cultura con cui dialogare e con cui confrontarsi. Ora si trova a dover fare, nello stesso tempo, opera di civilizzazione e di evangelizzazione; deve insegnare a leggere e scrivere, mentre insegna la dottrina cristiana. L’inculturazione si presentava sotto una forma del tutto nuova.
3. L’epopea monastica
L’opera gigantesca di cui ho potuto solo tracciare qui le grandi linee, fu portata avanti con la partecipazione di tutte le componenti della Chiesa. In primo luogo del papa, alla cui iniziativa diretta risale l’evangelizzazione degli angli e che ebbe una parte attiva nell’evangelizzazione della Germania ad opera di S. Bonifacio e dei popoli slavi ad opera dei santi Cirillo e Metodio; poi dai vescovi, dai parroci, a mano a mano che venivano formandosi comunità locali stabili. Un ruolo silenzioso, ma decisivo, fu esercitato da alcune donne. Dietro alcune grandi conversioni di re barbari vi è spesso l’ascendente esercitato su di essi dalle rispettive mogli: santa Clotilde per Clodoveo, santa Teodolinda per il re longobardo Autari, la sposa cattolica del re Edvino che introdusse il cristianesimo nel nord dell’Inghilterra.
Ma i veri protagonisti della rievangelizzazione dell’Europa dopo le invasioni barbariche furono i monaci. In Occidente, il monachesimo, iniziato nel IV secolo, vi si diffonde rapidamente in due tempi e da due direzioni diverse. La prima ondata parte dalla Gallia meridionale e centrale, specialmente da Lerino (410) e da Auxerre (418), e grazie a S. Patrizio formatosi in quei due centri, raggiunge l’Irlanda di cui feconderà l’intera vita religiosa. Di qui, con san Columba, fondatore di Iona (521-597), passa in Scozia e con san Cuthbert di Lindisfarne (635-687, all’Inghilterra del Nord, impiantandovi un cristianesimo e un monachesimo dalle particolari tinte celtiche.
La seconda ondata monastica, destinata a prendere il sopravvento e a unificare le diverse forme di monachesimo occidentale, ha origine in Italia da s. Benedetto (+ 547). Ad essa appartenevano il monaco Agostino e compagni, inviati da papa san Gregorio Magno. Essi evangelizzarono il Sud dell’Inghilterra, portando con sé un cristianesimo di tipo romano che finì per prevalere su quello celtico e uniformare al resto della cristianità (per esempio nella data della Pasqua) le isole britanniche.
Dal V all’ VIII secolo, l’Europa si ricopre letteralmente di monasteri, molti dei quali svolgeranno un compito primario nella formazione dell’Europa, non solo della sua fede, ma anche della sua arte, cultura e agricoltura. A ragione S. Benedetto è stato proclamato Patrono d’Europa e il Santo Padre, Benedetto XVI nel 2005, scelse Subiaco per la sua lezione magistrale sulle radici cristiane d’Europa.
Le grandi figure di monaci evangelizzatori del continente appartengono quasi tutti alla prima delle due correnti ricordate, quella che torna sul continente dall’Irlanda e dall’Inghilterra. I nomi più rappresentativi sono quelli di S. Colombano (542-615) e di S. Bonifacio (672-754). Il primo, partendo da Luxeuil, evangelizzò numerose regioni nel nord della Gallia e le tribù tedesche meridionali, spingendosi fino a Bobbio, in Italia; il secondo, considerato l’evangelizzatore della Germania, da Fulda estese la sua azione missionaria fino alla Frisia, l’attuale Olanda. A lui il Santo Padre Benedetto XVI dedicò una delle sue catechesi del mercoledì, l’11 Marzo del 2009, mettendone in luce la collaborazione stretta con il Romano Pontefice e l’azione civilizzatrice presso i popoli da lui evangelizzati.
A leggere le loro vite si ha l’impressione di rivivere l’avventura missionaria dell’apostolo Paolo: la stessa ansia di portare il vangelo a ogni creatura, lo stesso coraggio nell’affrontare ogni sorta di pericoli e di disagi e, per S. Bonifacio e tanti altri, anche la stessa sorte finale del martirio.
Le lacune di questa evangelizzazione a vasto raggio sono note e proprio il confronto con san Paolo mette in luce la principale. L’Apostolo insieme con l’evangelizzazione, curava, in ogni luogo, anche la fondazione di una Chiesa che ne assicurasse la continuità e lo sviluppo. Spesso, per la scarsità dei mezzi e la difficoltà di muoversi all’interno di una società ancora allo stato magmatico, questi pionieri non erano in grado di assicurare un seguito alla loro opera.
Del programma indicato da S. Remigio a Clodoveo, i popoli barbari tendevano a mettere in pratica solo una parte: adoravano ciò avevano bruciato, ma non bruciavano ciò che avevano adorato. Molta parte del loro bagaglio idolatra e pagano rimaneva e rispuntava alla prima occasione. Succedeva come con certe strade tracciate nella foresta: non mantenute e non trafficate esse vengono presto riprese e cancellate dalla giungla circostante. L’opera più duratura di questi grandi evangelizzatori fu proprio la fondazione di una rete di monasteri e, con Agostino in Inghilterra e S. Bonifacio in Germania, la erezione di diocesi e la celebrazione di sinodi che assicureranno in seguito la ripresa di una evangelizzazione più duratura e più in profondità.
4. Missione e contemplazione
Ora è arrivato il momento di trarre qualche indicazione per l’oggi dal quadro storico tracciato. Notiamo anzitutto una certa analogia tra l’epoca che abbiamo rivisitato e la situazione attuale. Allora il movimento di popoli era da Est a Ovest, ora esso è da Sud a Nord. La Chiesa, con il suo magistero, ha fatto, anche in questo caso, la sua scelta di campo che è di apertura al nuovo e di accoglienza dei nuovi popoli.
La differenza è che oggi non arrivano in Europa popoli pagani o eretici cristiani, ma spesso popoli in possesso di una loro religione ben costituita e cosciente di se stessa. Il fatto nuovo è dunque il dialogo che non si oppone all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile. Il beato Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Redemptoris missio”, sulla perenne validità del mandato missionario, si è espresso con chiarezza al riguardo:
“Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa . Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione “ad gentes” anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione… Alla luce dell’economia di salvezza, la chiesa non vede un contrasto fra l’annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso; sente, però, la necessità di comporli nell’ambito della sua missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili” .
Ciò che avvenne in Europa dopo le invasioni barbariche ci mostra soprattutto l’importanza della vita contemplativa in vista dell’evangelizzazione. Il decreto conciliare “Ad gentes”, sull’attività missionaria della Chiesa, scrive a questo riguardo:
“Meritano speciale considerazione le varie iniziative destinate a stabilire la vita contemplativa. Certi istituti, mantenendo gli elementi essenziali della istituzione monastica, tendono a impiantare la ricchissima tradizione del proprio ordine; altri cercano di ritornare alla semplicità delle forme del monachesimo primitivo. Tutti comunque devono cercare un reale adattamento alle condizioni locali. Poiché la vita contemplativa interessa la presenza ecclesiale nella sua forma più piena, è necessario che essa sia costituita dappertutto nelle giovani Chiese” .
Questo invito a cercare, nuove forme di monachesimo in vista dell’evangelizzazione, anche ispirandosi al monachesimo antico, non è rimasto inascoltato.
Una delle forme in cui l’auspicio si è realizzato sono le “Fraternità monastiche di Gerusalemme”, conosciute come i monaci e le monache di città. Il suo fondatore, Padre Pierre-Marie Delfieux, dopo aver trascorso due anni nel deserto del Sahara, in compagnia soltanto dell’Eucaristia e della Bibbia, capì che il vero deserto sono oggi le grandi città secolarizzate. Iniziate a Parigi nella festa di Tutti i Santi del 1975, queste fraternità sono presenti ormai in varie grandi città d’Europa, compresa Roma, dove hanno preso la chiesa di Trinità dei Monti. Il loro carisma è evangelizzare attraverso la bellezza dell’arte e della liturgia. Monastico è il loro abito, lo stile di vita semplice e austero, l’intreccio tra lavoro e preghiera; ma nuova è la collocazione al centro delle città, in genere in chiese antiche di grande richiamo artistico, la collaborazione tra monaci e monache nell’ambito liturgico, pur nella totale indipendenza reciproca a livello di abitazione e di autorità. Non poche conversioni di lontani e ritorni alla fede di cristiani nominali sono avvenute intorno a questi luoghi.
Di diverso genere, ma facente parte anch’esso di questa fioritura di nuove forme monastiche, è il monastero di Bose in Italia. In ambito ecumenico, il monastero di Taizé in Francia è un esempio di una vita contemplativa direttamente impegnata anche sul fronte dell’evangelizzazione.
Il primo Novembre del 1982, ad Avila, accogliendo una vasta rappresentanza della vita contemplativa femminile, Giovanni Paolo II prospettò, anche alla vita claustrale femminile, la possibilità di un impegno più diretto nell’opera di evangelizzazione.
“I vostri monasteri –disse – sono comunità di orazione in mezzo alle comunità cristiane, alle quali date aiuto, alimento e speranza. Sono luoghi consacrati e potranno essere anche centri di accoglienza cristiana per quelle persone, soprattutto giovani, che spesso vanno cercando una vita semplice e trasparente, in contrasto con quella che viene loro offerta dalla società dei consumi”.
L’appello non è rimasto inascoltato e si sta traducendo in iniziative originali di vita contemplativa femminile aperta all’evangelizzazione. Una di esse ha avuto modo di farsi conoscere in occasione del recente Convegno promosso, qui in Vaticano, dal Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione. Tutte queste forme nuove non sostituiscono le realtà monastiche tradizionali, molte delle quali centri anch’esse di irradiazione spirituale e di evangelizzazione, ma le affiancano e le arricchiscono.
Non basta che nella Chiesa vi sia chi si dedica alla contemplazione e chi si dedica alla missione; bisogna che la sintesi tra le due cose avvenga nella vita stessa di ogni missionario. Non basta, in altre parole, la preghiera “per i” missionari, occorre la preghiera “dei” missionari. I grandi monaci che rievangelizzarono l’Europa dopo le invasioni barbariche erano uomini usciti dal silenzio della contemplazione e che vi rientravano appena le circostanze lo permettevano loro. Anzi, con il cuore non uscivano mai del tutto dal monastero. Mettevano in pratica, in anticipo, il consiglio che Francesco d’Assisi dava ai suoi frati nell’inviarli per le strade del mondo: “Noi, diceva, abbiamo un eremitaggio sempre con noi dovunque andiamo e ogni volta che lo vogliamo possiamo, come eremiti, rientrare in questo eremo. Fratello corpo è l’eremo e l’anima l’eremita che vi abita dentro per pregare Dio e meditare .
Di questo abbiamo un esempio ben più autorevole. La giornata di Gesù era un intreccio mirabile tra preghiera e predicazione. Egli non pregava solo prima di predicare, pregava per sapere cosa predicare, per attingere dalla preghiera le cose da annunciare al mondo. “Le cose che io dico – affermava – le dico così come il Padre me le ha dette” (Gv 12,50). Da qui veniva a Gesù quell’ ”autorità” che tanto impressionava nel suo parlare.
Lo sforzo per una nuova evangelizzazione è esposto a due pericoli. Uno è l’inerzia, la pigrizia, il non fare nulla e lasciare che facciano tutto gli altri. L’altro è il lanciarsi in un attivismo umano febbrile e vuoto, con il risultato di perdere a poco a poco il contatto con la sorgente della parola e della sua efficacia. Si dice: ma come starsene tranquilli a pregare, quando tante esigenze reclamano la nostra presenza, come non correre quando la casa brucia? E’ vero, ma immaginiamo cosa succederebbe a una squadra di pompieri che accorresse a spegnere un incendio e poi, una volta sul posto, si accorgesse di non avere con sé, nei serbatoi, una sola goccia d’acqua. Così siamo noi, quando corriamo a predicare senza pregare.
La preghiera è essenziale per l’evangelizzazione perché “la predicazione cristiana non è primariamente comunicazione di dottrina, ma di esistenza”. Fa più evangelizzazione chi prega senza parlare che chi parla senza pregare.
5. Maria, stella dell’evangelizzazione
Terminiamo con un pensiero suggerito dal tempo liturgico che stiamo vivendo e dalla solennità dell’Immacolata che abbiamo celebrato ieri. Una volta, in un dialogo ecumenico, un fratello protestante mi chiese, ma senza polemica, solo per capire: “Perché voi cattolici dite che Maria è “la stella del’evangelizzazione”? Che fa fatto Maria che giustifichi tale titolo?”. È stata per me l’occasione di riflettere sulla cosa e non ho tardato a scoprirne la ragione profonda. Maria è la stella dell’evangelizzazione perché ha portata la Parola, non a questo o quel popolo, ma al mondo intero!
E non solo per questo. Ella portava la Parola nel seno, non sulla bocca. Era piena, anche fisicamente, di Cristo e lo irradiava con la sua sola presenza. Gesù le usciva dagli occhi, dal volto, da tutta la persona. Quando uno si profuma, non ha bisogno di dirlo, basta stargli vicino per accorgersene e Maria, specie nel tempo in cui lo portava in seno, era piena del profumo di Cristo.
Si può dire che Maria è stata la prima claustrale della Chiesa. Dopo la Pentecoste, ella è come entrata in clausura. Attraverso le lette¬re degli apostoli, conosciamo innumerevoli personaggi e anche tante donne della pri¬mitiva comunità cristiana. Una volta troviamo menzionata anche una certa Maria (cf Rm 16, 6), ma non è lei. Di Maria, la Madre di Gesù, nulla. Ella scompare nel più pro¬fondo silenzio. Ma cosa significò per Giovanni averla accanto mentre scriveva il Vangelo e cosa può significare per noi averla accanto mentre proclamiamo lo stesso Vangelo! “Primizia dei Vangeli –scrive Origene – è quello di Giovanni, il cui senso profondo non può cogliere chi non abbia poggiato il ca¬po sul petto di Gesù e non abbia ricevuto da lui Maria, come sua propria madre” .
Maria ha inaugurato nella Chiesa quella seconda anima, o vocazione, che è l’anima nascosta e orante, accanto all’anima apostolica o attiva. Lo esprime a meraviglia l’icona tradizionale dell’Ascensione, di cui abbiamo una rappresentazione sul lato destro di questa cappella. Maria sta in piedi, con le braccia aperte in atteggia¬mento orante. Intorno a lei gli apostoli, tutti con un piede o una mano alzata, cioè in movimento, rappresentano la Chiesa attiva, che va in missione, che parla e agisce. Maria sta immobile sotto Gesù, nel punto esatto da cui egli è asceso, quasi a tenere viva la memoria di lui e l’attesa del suo ritorno.
Terminiamo ascoltando le parole finali della “Evangelii nuntiandi” di Paolo VI, in cui per la prima volta, nei documenti pontifici, Maria è chiamata con il titolo di Stella dell’evangelizzazione:
“Al mattino della Pentecoste, Ella ha presieduto con la sua preghiera all’inizio dell’evangelizzazione sotto l’azione dello Spirito Santo. Sia lei la Stella dell’evangelizzazione sempre rinnovata che la Chiesa, docile al mandato del suo Signore, deve promuovere e adempiere, soprattutto in questi tempi difficili ma pieni di speranza!”
1. S. Girolamo, Comm. a Ezechiele, III, 25, pref.; cf. Epistole LX,18; CXXIII,15-16; CXXVI,2.
2. S. Leone Magno, Sermone 82,
3. Gregorio di Tours, Historia Francorum, II, 31.
4. Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 55.
5. L.G., 18.
6. Legenda Perugina, 80 (FF, 1636).
7. Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, I, 6,23 (SCh, 120, p. 70).

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TERZA PREDICA

"Fino ai confini della Terra"


La prima evangelizzazione del continente americano
1. La fede cristiana varca l’oceano
Quattro giorni fa, il 12 Dicembre, il continente americano ha celebrato la festa di Nostra Signora di Guadalupe che in Messico è anche festa di precetto. È una felice coincidenza per parlare, in questa meditazione, della terza grande ondata evangelizzatrice nella storia della Chiesa, quella che seguì la scoperta del nuovo mondo.
Richiamiamo alla mente, per sommi capi, lo svolgersi di questa impresa missionaria. Anzitutto una osservazione. L’Europa cristiana, insieme con la fede, ha esportato nel nuovo continente anche le proprie divisioni. Alla fine della grande ondata missionaria, il continente americano riprodurrà esattamente la situazione in atto in Europa: a un Sud in maggioranza cattolica corrisponderà un Nord a maggioranza protestante. Noi ci occuperemo qui solo dell’evangelizzazione dell’America Latina, anche perché fu la prima che ebbe luogo subito dopo la scoperta del nuovo mondo.
Dopo che Cristoforo Colombo, nel 1492, tornò dal suo viaggio con la notizia dell’esistenza delle nuove terre (credute ancora parte dell’India), scattò nella Spagna cattolica, inseparabilmente mescolate insieme, due decisioni: quella di portare ai nuovi popoli la fede cristiana e quella di estendere ad essi la propria sovranità politica. A questo scopo si ottenne dal papa Alessandro VI una decisione con cui si riconosceva alla Spagna il diritto su tutte le terre scoperte cento miglia al di là delle Azzorre e al Portogallo quelle al di qua di tale linea. In seguito, questa linea fu spostata a favore del Portogallo, in modo da legittimare il suo possesso del Brasile. Si delineava, in tal modo, anche linguisticamente, il volto futuro del continente latino-americano.
Penetrando in un paese, le truppe emanavano ogni volta un proclama (requerimiento), con il quale agli abitanti veniva ordinato di abbracciare il cristianesimo e di riconoscere la sovranità del re di Spagna1. Solo alcuni grandi spiriti, in primo luogo i domenicani Antonio di Montesino e Bartolomeo de Las Casas, ebbero il coraggio di levare la voce contro gli abusi dei conquistatori e in difesa dei diritti dei nativi. In poco più di una cinquantina d’anni, anche per la debolezza e le divisioni dei regni locali, il continente era sotto il dominio spagnolo e portoghese e, almeno nominalmente, cristiano.
Gli storici recenti tendono ad attenuare le tinte fosche gettate in passato sopra questa impresa missionaria. Anzitutto si fa notare che, a differenza di quanto avverrà con le tribù “indiane” del Nord America, in America latina, per quanto decimati, la maggioranza dei popoli nativi sopravvisse con la propria lingua e nel proprio territorio e hanno potuto riprendere e riaffermare in seguito la loro identità e indipendenza. Si deve poi tener conto del condizionamento che veniva ai missionari dalla loro formazione teologica. Prendendo alla lettera e in maniera rigida l’adagio “Extra Ecclesiam nulla salus”, essi erano convinti della necessità di battezzare quante più persone possibili e nel più breve tempo possibile per assicurare la loro salvezza eterna.
Vale la pena soffermarsi un momento su questo assioma che ha avuto tanto peso sull’evangelizzazione. Esso fu formulato nel III secolo da Origene e soprattutto da san Cipriano. All’inizio non riguardava la salvezza dei non cristiani, ma al contrario quella dei cristiani. Era diretto infatti esclusivamente agli eretici e agli scismatici del tempo, per ricordare loro che, rompendo la comunione ecclesiale, essi si facevano rei di una grave colpa, per cui si escludevano da soli dalla salvezza. Era diretto dunque a quelli che uscivano dalla Chiesa, non a quelli che non vi entravano.
Solo in un secondo momento, quando il cristianesimo era diventato religione di stato, l’assioma cominciò ad essere applicato a pagani e giudei, in base alla convinzione allora comune (anche se oggettivamente errata) che ormai il messaggio era noto a tutti gli uomini e quindi rifiutarlo significava rendersi colpevoli e meritevoli di condanna.
Fu proprio in seguito alla scoperta del nuovo mondo, che quei limiti geografici si ruppero drasticamente. La scoperta di interi popoli vissuti al di fuori di ogni contatto con la Chiesa costrinse a rivedere una interpretazione così rigida dell’assioma. I teologi domenicani di Salamanca e, in seguito, alcuni gesuiti iniziarono a porsi in posizione critica, riconoscendo che era possibile essere fuori della Chiesa, senza essere necessariamente colpevoli e quindi esclusi dalla salvezza. Non solo, ma di fronte al modo e ai metodi inaccettabili con cui il Vangelo era stato talvolta annunciato agli indigeni, qualcuno, per la prima volta, si pose il problema se veramente si possono ritenere colpevoli tutti quelli che, pur avendo conosciuto l’annuncio cristiano, non vi hanno aderito2.
2. Protagonisti, i frati
Non è certo questo il luogo per dare un giudizio storico sulla prima evangelizzazione dell’America Latina. In occasione del suo quinto centenario, nel maggio del 1992, si tenne qui a Roma un simposio internazionale di storici su tale argomento. Nel suo discorso ai partecipanti, Giovanni Paolo II affermò: “Senza dubbio in questa evangelizzazione, come in ogni opera dell’uomo, vi sono stati esiti e sbagli, luci ed ombre; però più luci che ombre, a giudicare dai frutti che troviamo dopo cinquecento anni: una chiesa viva e dinamica che rappresenta oggi una parte rilevante della Chiesa universale”3.
Dalla sponda opposta, in quell’occasione, alcuni parlarono della necessità di una “de-colonizzazione” e “de-evangelizzazione”, dando l’impressione di preferire che l’evangelizzazione del continente non avesse avuto luogo affatto, anziché aver avuto luogo nel modo conosciuto. Con tutto il rispetto dovuto all’amore per i popoli indigeni che muoveva questi autori, io credo che una tale opinione sia da rifiutare energicamente.
A un mondo senza peccato ma senza Gesù Cristo, la teologia ha mostrato di preferire un mondo con il peccato, ma con Gesù Cristo. “O felice colpa –esclama la liturgia pasquale nell’Exultet – che ci ha permesso di avere un tale e così grande redentore”. Non dovremmo dire lo steso dell’evangelizzazione di entrambe le Americhe, del Sud e del Nord? A un continente senza “gli sbagli e le ombre” che accompagnarono la sua evangelizzazione, ma anche senza Cristo, chi non preferirebbe un continente con tali ombre, ma con Cristo? Quale cristiano, di destra o di sinistra (specie se sacerdote o religioso) potrebbe dire il contrario senza venir meno, per ciò stesso, alla propria fede?
Ho letto da qualche parte questa affermazione che condivido in pieno: “La cosa più grande che avvenne nel 1492 non fu che Cristoforo Colombo scoprì l’America, ma che l’America scoprì Gesù Cristo”. Non era, è vero, il Cristo integrale del Vangelo per il quale la libertà è il presupposto stesso della fede, ma chi può pretendere di essere il portatore di un Cristo libero da ogni condizionamento storico? Quelli che propongono un Cristo rivoluzionario, contestatore delle strutture, direttamente impegnato nella lotta anche politica, non dimenticano forse anch’essi qualcosa di Cristo, per esempio la sua affermazione “il mio regno non è di questo mondo”?
Se nella prima ondata evangelizzatrice i protagonisti erano stati i vescovi e nella seconda i monaci, in questa terza ondata i protagonisti indiscussi furono i frati, cioè i religiosi degli ordini mendicanti, in primo luogo francescani, domenicani, agostiniani, e in un secondo momento i gesuiti. Gli storici della Chiesa riconoscono che, in America latina, “furono i membri degli ordini religiosi a determinare la storia delle missioni e delle chiese”4.
A loro riguardo vale il giudizio ricordato di Giovanni Paolo II che “le luci sono maggiori delle ombre”. Non sarebbe onesto misconoscere il sacrificio personale e l’eroismo di tanti di questi missionari. I conquistatori erano mossi da spirito di avventura e sete di guadagno, ma essi cosa potevano aspettarsi, lasciando la loro patria e i loro conventi? Non andavano per prendere, ma per dare; volevano conquistare anime a Cristo, non sudditi per il re di Spagna, anche se condividevano l’entusiasmo patriottico dei loro connazionali. Quando si leggono le storie legate alla evangelizzazione di un particolare territorio, si vede quanto i giudizi generici siano ingiusti e lontani dalla realtà. A me è capitato leggendo, sul posto, la cronaca dell’inizio della missione in Guatemala e nelle regioni vicine. Sono storie di sacrifici e peripezie inenarrabili. Di un manipolo di 20 domenicani partiti per il nuovo mondo e diretto alle Filippine, 18 morirono durante il viaggio.
Nel 1974 si tenne il sinodo su “l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo”. In un appunto manoscritto fatto al documento finale (che la Prefettura della Casa Pontificia ha avuto l’idea di pubblicare unitamente al programma di queste prediche), Paolo VI annotava:
“Basta quello ch’è detto [nel documento] per i religiosi? Non è da aggiungere una parola sul carattere volontario, intraprendente, generoso della evangelizzazione dei Religiosi e delle Religiose? La loro evangelizzazione deve dipendere da quella della Gerarchia e coordinarsi con essa, ma è da lodare l’originalità, la genialità, la dedizione, spesso d’avanguardia e a tutto loro rischio”.
Questo riconoscimento si applica in pieno ai religiosi protagonisti dell’evangelizzazione dell’America Latina, soprattutto se pensiamo a certe loro realizzazioni, come le famose “riduzioni” dei Gesuiti in Paraguay, cioè i villaggi nei quali gli indios cristiani, al riparo dai soprusi dell’autorità civile, potevano istruirsi nella fede, ma anche mettere a frutto i loro talenti umani.
3. I problemi attuali
Ora, come al solito, cerchiamo di passare all’oggi e vedere cosa dice a noi la storia dall’esperienza missionaria della Chiesa che abbiamo sommariamente ricostruita. Le condizioni sociali e religiose del continente sono così profondamente cambiate che, più che insistere su ciò che possiamo imparare o disimparare da quel tempo, è utile riflettere sul compito attuale dell’evangelizzazione nel continente latino-americano.
Su questo argomento c’è stata e c’è tuttora in atto una tale quantità di riflessione e di documenti da parte del magistero pontificio, del CELAM e delle singole Chiese locali, che sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di poter aggiungere qualcosa di nuovo. Posso però condividere qualche riflessione suggerita dalla mia esperienza sul campo, avendo avuto occasione di predicare ritiri a conferenze episcopali, al clero e al popolo di quasi tutti i paesi dell’America latina e in alcuni di essi diverse volte. Anche perché i problemi che si pongono, in questo campo, in America Latina non sono poi tanto diversi da quelli del resto della Chiesa.
Una riflessione riguarda la necessità di superare una eccessiva polarizzazione presente ovunque nella Chiesa, ma particolarmente acuta in America Latina, specie in anni passati: la polarizzazione tra l’anima attiva e l’anima contemplativa, tra la Chiesa dell’impegno sociale per i poveri e la Chiesa dell’annuncio di fede. Davanti a ogni differenza noi siamo istintivamente tentati di fare una scelta di parte, esaltando una e disprezzando l’altra. La dottrina dei carismi ci risparmia questa lotta. Il dono della Chiesa cattolica è di essere, appunto, cattolica, cioè aperta ad accogliere i doni più diversi che provengono dallo stesso Spirito.
Lo dimostra la storia degli ordini religiosi che hanno incarnato istanze diverse e a volte opposte: l’inserimento nel mondo e la fuga dal mondo, l’apostolato tra i dotti, come i gesuiti, e l’apostolato tra il popolo, come i cappuccini. C’è posto per gli e per gli altri. Di più, abbiamo bisogno gli uni degli altri, non potendo nessuno realizzare il vangelo integrale e rappresentare Cristo in tutti gli aspetti della sua vita. Ognuno dovrebbe, dunque, rallegrarsi che altri facciano quello che lui non può fare: chi coltiva la vita spirituale e l’annuncio della Parola che vi sia chi si dedica alla giustizia e alla promozione sociale, e viceversa. È sempre valido l’ammonimento dell’Apostolo: “Cessiamo una buona volta dal giudicarci gli uni gli altri!” (cfr. Rom 14, 13).
Una seconda osservazione riguarda il problema dell’esodo di cattolici verso altre denominazioni cristiane. Anzitutto è da ricordare che non si possono qualificare indistintamente queste diverse denominazioni come “sette”. Con alcune di esse, comprese i Pentecostali, la Chiesa cattolica mantiene da anni un dialogo ecumenico ufficiale, cosa che non farebbe se le ritenesse semplicemente delle sette.
La promozione, anche a livello locale, di questo dialogo è il mezzo migliore per svelenire il clima, isolare le sette più aggressive e scoraggiare la pratica del proselitismo. Alcuni anni fa si tenne a Buenos Aires un incontro ecumenico di preghiera e di condivisione della parola con la partecipazione dell’arcivescovo cattolico e dei leaders di altre chiese, presenti settemila persone. Si vide con chiarezza la possibilità di un rapporto nuovo tra i cristiani, tanto più costruttivo per la fede e l’evangelizzazione.
In un suo documento, Giovanni Paolo II affermava che la diffusione delle sette obbliga a interrogarsi sul perché, su cosa manca nella nostra pastorale. La convinzione che mi sono fatta in base all’esperienza – e non solo dei paesi dell’America Latina – è la seguente. Ciò che attira fuori dalla Chiesa non sono certo forme di pietà popolare alternative che anzi la maggioranza delle altre chiese e le sette rigettano e combattono. È un annuncio, magari parziale ma incisivo, della grazia di Dio, la possibilità di sperimentare Gesù come Signore e Salvatore personale, l’appartenere a un gruppo che si fa carico personalmente dei tuoi bisogni, che prega su di te nella malattia quando la medicina non ha più niente da dire.
Se da una parte ci si può rallegrare che queste persone abbiano incontrato il Cristo e si siano convertite, dall’altra è triste che per farlo abbiano sentito il bisogno di lasciare la loro Chiesa. Nella maggioranza delle chiese a cui approdano questi fratelli, tutto ruota intorno alla prima conversione e alla accettazione di Gesù come Signore. Nella Chiesa cattolica, grazie ai sacramenti, al magistero, alla ricchissima spiritualità, c’è il vantaggio di non fermarsi a questo stadio iniziale, ma di giungere alla pienezza e alla perfezione della vita cristiana. I santi ne sono la prova. Ma bisogna che quell’inizio consapevole e personale sia posto ed è in questo che la sfida delle comunità evangeliche e pentecostali ci è di stimolo.
In ciò il Rinnovamento Carismatico si rivela più che mai, secondo la parola di Paolo VI, “una chance per la Chiesa”. In America latina, i pastori della Chiesa si stanno rendendo conto che il Rinnovamento Carismatico non è (come all’inizio qualcuno ha creduto) “parte del problema” dell’esodo dei cattolici dalla Chiesa, ma è piuttosto parte della soluzione del problema. Le statistiche non riveleranno mai quante persone sono rimaste fedeli alla Chiesa grazie ad esso, avendo trovato nel suo ambito quello che altri cercavano altrove. Le numerose comunità nate dal seno del Rinnovamento Carismatico, pur con i limiti, e a volte le derive, presenti in ogni iniziativa umana, sono all’avanguardia nel servizio della Chiesa e dell’evangelizzazione.
4. Il ruolo dei religiosi nella nuova evangelizzazione
Ho detto di non volermi soffermare sulla prima evangelizzazione. Una cosa però dobbiamo ritenere da essa: l’importanza degli ordini religiosi tradizionali in vista dell’evangelizzazione. Ad essi il beato Giovanni Paolo II dedicò la sua Lettera apostolica in occasione del V centenario della prima evangelizzazione del continente intitolata, nell’originale, “Los caminos del Evangelio”. L’ultima parte della lettera tratta appunto dei “religiosi nella nuova evangelizzazione”: “I religiosi –scrive -, che sono stati i primi evangelizzatori –e hanno contribuito in maniera così rilevante a mantenere viva la fede nel continente -, non possono mancare a questa convocazione ecclesiale della nuova evangelizzazione. I diversi carismi della vita consacrata rendono vivo il messaggio di Gesù, presente e attuale in ogni tempo e luogo”5.
La vita di comunità, il fatto di avere un governo centralizzato e dei luoghi di formazione di livello superiore fu ciò che permise agli ordini religiosi di allora una così vasta impresa missionaria. Ma oggi, che ne è di questa loro forza? Parlando dall’interno di uno di questi ordini antichi, posso osare di esprimermi con una certa libertà. Il rapido calo delle vocazioni nei paesi occidentali sta determinando una situazione pericolosa: quello di spendere quasi tutte le proprie forze per soddisfare le esigenze interne della propria famiglia religiosa (formazione dei giovani, mantenimento delle strutture e delle opere), senza molte forze vive da immettere nel circolo più ampio della Chiesa. Quindi il ripiegamento su se stessi. In Europa gli ordini religiosi tradizionali sono costretti a riunire più province in una e a chiudere dolorosamente una casa dopo l’altra
La secolarizzazione è, certo, una delle cause del calo delle vocazioni, ma non è la sola. Vi sono comunità religiose di recente fondazione che attirano schiere di giovani. Nella lettera citata, Giovanni Paolo II esortava i religiosi e le religiose dell’America Latina a “evangelizzare a partire da una profonda esperienza di Dio”. È qui, credo, il punto: “una profonda esperienza di Dio”. È questo che attira le vocazioni e che crea le premesse per una nuova efficace ondata di evangelizzazione. L’adagio “nemo dat quod non habet”, nessuno può dare ciò che non ha, vale più che mai in questo campo.
Il superiore provinciale dei Cappuccini delle Marche, che è anche il mio superiore, ha scritto per questo Avvento una lettera a tutti frati. In essa lancia una provocazione che credo faccia bene a tutte le comunità religiose tradizionali ascoltare:
“Tu che leggi queste righe devi immaginare di ‘essere lo Spirito Santo’. Sì, hai capito bene: non solo di essere ‘ripieno di Spirito Santo’ per i sacramenti che hai ricevuto, ma proprio ‘di essere’ lo Spirito Santo, la Terza Persona della SS. Trinità. E, in questa veste, pensa che hai il potere di chiamare e inviare un giovane su una via che lo aiuti a camminare verso la perfezione della carità, la vita religiosa per intenderci. Avresti il coraggio di inviarlo nella tua fraternità, con certezza e garanzia che la tua fraternità possa essere il luogo che lo aiuti sul serio a raggiungere la perfezione della carità nella concretezza della vita quotidiana? In parole povere: se un giovane venisse a vivere per alcuni giorni o mesi nella tua fraternità, condividendo la preghiera, la vita fraterna, l’apostolato…si innamorerebbe della nostra vita?”
Quando nacquero gli ordini mendicanti, domenicani e francescani, all’inizio del secolo XIII, anche gli ordini monastici preesistenti trassero beneficio da essi e fecero proprio il richiamo a una maggiore povertà e a una vita più evangelica, vivendolo secondo il proprio carisma. Non dovremmo fare lo stesso oggi noi, ordini tradizionali, nei confronti delle nuove forme di vita consacrata suscitate nella Chiesa?
La grazia di queste nuove realtà è multiforme, ma ha un denominatore comune che si chiama lo Spirito Santo, la “novella Pentecoste”. Dopo il concilio quasi tutti gli ordini religiosi preesistenti hanno rivisto e rinnovato le proprie costituzioni, ma già nel 1981, il beato Giovanni Paolo II ammoniva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato… non può realizzarsi se non nel­lo Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e del­la sua forza”6 .
“Lo Spirito Santo –diceva san Bonaventura – va là “dove è amato, dove è invitato, dove è atteso”7. Dobbiamo aprire le nostre comunità al soffio dello Spirito che rinnova la preghiera, la vita fraterna, l’amore per Cristo e con esso lo zelo missionario. Guardare indietro, alle proprie origini e al proprio fondatore, certo, ma guardare anche avanti.
Osservando la situazione degli ordini antichi nel mondo occidentale, sorge spontanea la domanda che Ezechiele sentì pronunciare sulla distesa di ossa aride: “Potranno queste ossa rivivere?” Le ossa aride di cui si parla nel testo non sono dei morti, ma dei vivi; sono il popolo d’Israele in esilio che va dicendo: “Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti!”. Sono i sentimenti che affiorano, talvolta, anche in noi, appartenenti a ordini religiosi di antica data.
Conosciamo la risposta, piena di speranza che Dio da a quella domanda: “Metterò in voi il mio Spirito, e voi tornerete in vita; vi porrò sul vostro suolo, e conoscerete che io, il Signore, ho parlato e ho messo la cosa in atto”, dice il Signore”. Dobbiamo credere e sperare che si avvererà anche per noi, e per tutta la Chiesa, quello che è detto al termine della profezia: “Lo Spirito entrò in essi: tornarono alla vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, grandissimo” (cf. Ez 37, 1-14).
Quattro giorni fa, ricordavo all’inizio, l’America Latina ha celebrato la festa di Nostra Signora di Guadalupe. Si discute molto sulla storicità dei fatti che sono all’origine di questa devozione. Dobbiamo intenderci su cosa si intende per fatto storico. Ci sono tanti fatti che sono realmente accaduti, ma che non sono storici perché “storico”, nel senso più vero, non è tutto quello che è accaduto, ma solo quello che, oltre ad essere accaduto, ha inciso nella vita di un popolo, ha creato qualcosa di nuovo, ha lasciato una traccia nella storia. E quale traccia ha lasciato la devozione alla Vergine di Guadalupe nella storia religiosa del popolo messicano e latino-americano!
È di grande significato simbolico il fatto che, agli inizi dell’evangelizzazione del continente americano, nel 1531, sulla collina del Tepeyac a nord di Città del Messico, l’immagine della Vergine si sia stampata sul mantello, la tilma, di san Diego come “la Morenita”, cioè con i tratti di un’umile fanciulla meticcia. Non si poteva dire in maniera più suggestiva che la Chiesa, in America Latina, è chiamata a farsi – e vuole farsi – indigena con gli indigeni, creola con i creoli, tutta a tutti.
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1 Cfr. J. Glazik, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, vol. VI, Milano Jaca Book, 1075, p. 702.
2 F. Sullivan, Salvation outside the Church? Tracing the History of the Catholic Response, Paulist Press, New York 1992.
3 Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale sulla evangelizzazione nell’America Latina, 14 Maggio 1992.
4 Cfr. Glazik, op. cit., p. 708.
5 Giovanni Paolo II, “Los caminos del Evangelio”, nr. 24 (AAS 83, 1991, pp. 22 ss.)
6 Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “A Concilio Constantinopolitano I”(25 marzo 1981).
7 S. Bonaventura, S

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QUARTA PREDICA

Ripartire dal Principio

 L’ondata di evangelizzazione in atto
1. Un nuovo destinatario dell’annuncio
“Prope est iam Dominus: venite, adoremus”: Il Signore è vicino: venite adoriamo. Iniziamo questa meditazione, come inizia la Liturgia delle ore in questi giorni che precedono il Natale, in modo che sia anch’essa parte della nostra preparazione alla solennità.
Concludiamo oggi le nostre riflessioni sull’evangelizzazione. Ho cercato di ricostruire, fin qui, tre grandi ondate evangelizzatrici nella storia della Chiesa. Si potevano ricordare certamente altre grandi imprese missionarie, come quella dell’Oriente iniziata da san Francesco Saverio nel secolo XVI, o come quella del continente africano nel secolo XIX ad opera di Daniele Comboni, del cardinal Guglielmo Massaia e di tanti altri. C’è tuttavia una ragione per la scelta fatta che spero sia emersa dalle riflessioni svolte.
Quello che cambia e che distingue le varie ondate evangelizzatrici ricordate, non è l’oggetto dell’annuncio – “la fede, trasmessa ai santi una volta per tutte” , come la chiama la Lettera di Giuda -, ma i destinatari di esso, rispettivamente il mondo greco-romano, il mondo barbarico e il nuovo mondo, cioè il continente americano.
Ci domandiamo dunque: chi è il nuovo destinatario che ci permette di parlare, di quella in atto oggi, come di una quarta ondata di nuova evangelizzazione? La risposta è: il mondo occidentale secolarizzato e per certi versi post-cristiano. Questa specificazione che affiorava già nei documenti del beato Giovanni Paolo II, è divenuta esplicita nel magistero del Santo Padre Benedetto XVI. Nel Motu proprio con cui ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, egli parla di “molti paesi di antica tradizione cristiana, divenuti refrattari al messaggio evangelico”1.
Nell’Avvento dell’anno scorso ho cercato di evidenziare ciò che caratterizza questo nuovo destinatario dell’annuncio, riassumendolo sotto tre capi: scientismo, secolarismo, razionalismo. Tre tendenze che hanno una radice comune nella crisi di fede. Chissà che la fede cristiana non debba tornare di nuovo in Europa dai paesi da essa un tempo evangelizzati; questa volta però non dal Nord, come dopo le invasioni barbariche, ma dal Sud. Nel suo discorso di ieri alla Curia, il Santo Padre ci parlava della fede incontrata in Africa, tanto più vibrante e gioiosa di quella che si riscontra ormai in Occidente.
Parallelamente all’apparire sulla scena di un nuovo mondo da evangelizzare, abbiamo anche assistito all’emergere ogni volta di una nuova categoria di annunciatori: i vescovi nei primi tre secoli (soprattutto nel III), i monaci nella seconda ondata e i frati nella terza. Anche oggi assistiamo all’emergere di una nuova categoria di protagonisti dell’evangelizzazione: i laici. Non si tratta evidentemente del sostituirsi di una categoria a un’altra, ma di una nuova componente del popolo di Dio che si aggiunge alle altre, rimanendo sempre i vescovi, con a capo il papa, le guide autorevoli e i responsabili ultimi del compito missionario della Chiesa.
2. Come la scia di un bel vascello
Ho detto che lungo i secoli sono cambiati i destinatari dell’annuncio, ma non l’annuncio stesso. Devo però precisare quest’ultima affermazione. È vero che non può cambiare l’essenziale dell’annuncio, ma può e deve cambiare il modo di presentarlo, le priorità, il punto da cui partire nell’annuncio.
Riassumiamo il cammino fatto dall’annuncio evangelico per giungere fino a noi. C’è anzitutto l’annuncio fatto da Gesù che ha per oggetto centrale la notizia: “È venuto a voi il Regno di Dio”. A questa fase unica e irripetibile, che chiamiamo “il tempo di Gesù”, succede, dopo la Pasqua, “il tempo della Chiesa”. In esso, Gesù non è più l’annunciatore, ma l’annunciato; la parola “Vangelo” non significa più “la buona notizia recata da Gesù”, ma la buona notizia su Gesù, cioè che ha per oggetto Gesù e, in particolare, la sua morte e risurrezione. È quello che intende sempre san Paolo con la parola “Vangelo”.
Occorre però stare attenti a non staccare troppo i due tempi e i due annunci, quello di Gesù e quello della Chiesa, o, come si usa dire da tempo, il “Gesù storico” dal “Cristo della fede”. Gesù non è solo l’oggetto dell’annuncio della Chiesa, la cosa annunciata. Guai a ridurlo solo a questo! Significherebbe “cosificarlo”, dimenticando la risurrezione. Nell’annuncio della Chiesa è il Cristo risorto che, con il suo Spirito, parla ancora; egli è anche il soggetto che annuncia. Come dice un testo del Concilio: “Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”2.
Partendo dall’annuncio iniziale, possiamo riassumere con una immagine lo svolgersi successivo della predicazione della Chiesa. Pensiamo alla scia di un vascello. Essa comincia con una punta che è la prua del vascello, ma va allargandosi sempre più, fino a perdersi all’orizzonte e toccare le due rive opposte del mare. È quello che è avvenuto nell’annuncio della Chiesa; esso comincia con una punta: il kerygma “Cristo è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione” (cf. Rom 4, 25; 1 Cor 15,1-3); in maniera ancora più pregnante e sintetica: “Gesù è il Signore!” (Atti 2, 36; Rom 10,9).
Una prima dilatazione di questa punta si ha con la nascita dei quattro vangeli, scritti per spiegare quel nucleo iniziale, e con il resto del Nuovo Testamento; dopo di ciò viene la tradizione della Chiesa, con il suo magistero, la sua liturgia, la sua teologia, le sue istituzioni, le sue leggi, la sua spiritualità. Il risultato finale è un immenso patrimonio che fa pensare appunto alla scia del vascello nella sua massima dilatazione.
A questo punto, se si vuole rievangelizzare il mondo scristianizzato, si impone una scelta. Da dove partire? Da un punto qualsiasi della scia, o dalla punta? La ricchezza immensa di dottrina e di istituzioni può diventare un handicap se cerchiamo di presentarci con essa all’uomo che ha smarrito ogni contatto con la Chiesa e non sa più chi è Gesù. Sarebbe come mettere uno di quegli enormi e pesanti piviali di broccato di una volta addosso a un bambino.
Bisogna aiutare questo uomo a stabilire un rapporto con Gesù; fare con lui quello che Pietro fece il giorno della Pentecoste con le tremila persone presenti: parlargli di Gesù che noi abbiamo crocifisso e che Dio ha risuscitato, portarlo al punto in cui anche lui, toccato nel cuore, chieda: “Che dobbiamo fare, fratelli?” e noi risponderemo, come rispose Pietro: “Pentitevi, fatevi battezzare, se non lo siete ancora, o confessatevi se siete già battezzati. I modi e i tempi in cui fare questo dipendono dalla nostra capacità creativa e possono variare, come variano già nel Nuovo Testamento: dal discorso di Pietro alle folle il giorno di Pentecoste, a quello, da persona a persona, di Filippo all’eunuco della regina Candace (At 8,27).
Quelli che risponderanno all’annuncio si uniranno, come allora, alla comunità dei credenti, ascolteranno l’insegnamento degli apostoli e prenderanno parte alla frazione del pane; a seconda della chiamata e della rispondenza di ognuno, potranno fare proprio, a poco a poco, tutto quell’immenso patrimonio nato dal kerygma. Non si accetta Gesù sulla parola della Chiesa, ma si accetta la Chiesa sulla parola di Gesù.
Abbiamo un alleato in questo sforzo: il fallimento di tutti i tentativi fatti dal mondo secolarizzato per sostituire il kerygma cristiano con altri “gridi” e altri “manifesti”. Io porto spesso l’esempio del celebre dipinto del pittore norvegeseEdvard Munch, intitolato “L’urlo”.Un uomo su un ponte, su uno sfondo rossastro, con le mani intorno alla bocca spalancata, emette un grido che, si capisce immediatamente, è un grido di angoscia, un grido vuoto, senza parole, solo suono. Mi sembra la descrizione più efficace della situazione dell’uomo moderno che, avendo dimenticato il grido pieno di contenuto che è il kerygma, si ritrova a dovere urlare a vuoto la propria angoscia esistenziale.
3. Cristo, nostro contemporaneo
Ora vorrei cercare di spiegare perché è possibile, nel cristianesimo, ripartire, in ogni momento, dalla punta del vascello, senza che questo sia una finzione mentale, o una semplice operazione di archeologia. Il motivo è semplice: quel vascello solca ancora il mare e la scia comincia ancora con una punta!
C’è un punto in cui non sono d’accordo con il filosofo Kierkegaard che pure ha detto cose bellissime sulla fede e su Gesù. Uno dei suoi temi preferiti è quello della contemporaneità di Cristo. Ma egli concepisce tale contemporaneità come un farci noi contemporanei di Cristo. “Colui che crede in Cristo –scrive – è obbligato a farsi suo contemporaneo nell’abbassamento”3. L’idea è che per credere veramente, con la stessa fede richiesta agli apostoli, bisogna prescindere dai duemila anni di storia e di conferme su Cristo e mettersi nei panni di coloro ai quali Gesù rivolgeva la sua parola: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt 11,28). Proprio lui, un uomo che non aveva una pietra su cui posare il capo!
La vera contemporaneità di Cristo è un’altra: è lui che si fa nostro contemporaneo, perché, essendo risorto, vive nello Spirito e nella Chiesa. Se fossimo noi a farci contemporanei di Cristo, sarebbe una contemporaneità solo intenzionale; se è Cristo che si fa nostro contemporaneo, è una contemporaneità reale. Secondo un pensiero ardito della spiritualità ortodossa, “l’anamnesi è un ricordo gioioso che rende il passato ancora più presente di quando fu vissuto”. Non è una esagerazione. Nella celebrazione liturgica della Messa l’evento della morte e risurrezione di Cristo diventa più reale per me di quanto lo fosse per coloro che assistettero di fatto e materialmente all’evento, perché allora era una presenza “secondo la carne”, ora si tratta di una presenza “secondo lo Spirito”.
Lo stesso quando uno proclama con fede: “Cristo è morto per i miei peccati, è risorto per la mia giustificazione, egli è il Signore”. Un autore del IV secolo scrive: “Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione”4.
Mi rendo conto che non è facile e forse neppure possibile dire queste cose alla gente, meno che meno, al mondo secolarizzato di oggi; ma è quello che dobbiamo avere ben chiaro noi evangelizzatori per attingere da esso il coraggio e credere alla parola dell’evangelista Giovanni che dice: “Colui che è in voi è più forte di colui che è nel mondo” (1 Gv 4,4).
4. I laici, protagonisti dell’evangelizzazione
Dicevo all’inizio che, dal punto di vista dei protagonisti, la novità, nella fase odierna dell’evangelizzazione, sono i laici. Del loro ruolo nell’evangelizzazione hanno trattato il concilio nell’”Apostolicam actuositatem”, Paolo VI nell’”Evangelii nuntiandi”, Giovanni Paolo II nella “Christifideles laici”.
Le premesse di questa universale chiamata alla missione si trovano già nel Vangelo. Dopo il primo invio degli apostoli in missione, Gesù, si legge nel vangelo di Luca, “designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (Lc10, 1). Questi settantadue discepoli erano probabilmente tutti quelli che egli aveva raccolto fino a quel momento, o almeno tutti quelli che erano disposti a impegnarsi seriamente per lui. Gesù dunque invia tutti i suoi discepoli.
Ho conosciuto un laico degli Stati Uniti, padre di famiglia, che, accanto alla sua professione, svolge anche un intensa evangelizzazione. È un tipo pieno di humour ed evangelizza a suono di fragorose risate, quali solo gli americani sanno fare. Quando va in un nuovo posto, comincia dicendo molto serio: “Duemila e cinquecento vescovi, riuniti in Vaticano, mi hanno chiesto di venire ad annunciarvi il vangelo”. La gente naturalmente è incuriosita. Lui allora spiega che i duemila cinquecento vescovi sono quelli che presero parte al concilio Vaticano II e scrissero il decreto sull’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem), in cui si esorta ogni laico cristiano a partecipare alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Aveva perfettamente ragione di dire “mi hanno chiesto”. Quelle parole non sono dette al vento, a tutti e a nessuno; sono indirizzate personalmente a ogni laico cattolico.
Oggi conosciamo l’energia nucleare che si sprigiona dalla “fissione” dell’atomo. Un atomo di uranio viene bombardato e “spezzato” in due dall’urto di una particella chiamata neutrone, liberando, in questo processo, dell’energia. Inizia da ciò una reazione a catena. I due nuovi elementi “fissano”, cioè rompono, a loro volta, altri due atomi, questi altri quattro e così via per miliardi di atomi, sicché l’energia “liberata”, alla fine, risulta immensa. E non necessariamente energia distruttiva, perché l’energia nucleare può essere usata anche per scopi pacifici, a favore dell’uomo.
In questo senso possiamo dire che i laici sono una specie di energia nucleare della Chiesa sul piano spirituale. Un laico raggiunto dal Vangelo, vivendo accanto ad altri, può “contagiare” altri due, questi altri quattro, e siccome i laici cristiani non sono solo alcune decine di migliaia come il clero, ma centinaia di milioni, essi possono davvero svolgere un ruolo decisivo nel diffondere nel mondo la luce benefica del vangelo. Quello che rende più meritoria l’evangelizzazione dei laici è che è fatta gratuitamente, spesso rimettendoci di tasca propria.
Dell’apostolato dei laici non si è cominciato a parlare solo con il concilio Vaticano II, se ne parlava già da tempo. Quello però che il concilio ha apportato di nuovo in questo campo riguarda il titolo con cui i laici concorrono all’apostolato della gerarchia. Essi non sono semplici collaboratori chiamati a dare il loro contributo professionale, il loro tempo e le loro risorse; sono portatori di carismi, con i quali, dice la Lumen gentium, “sono resi adatti e pronti ad assumersi opere e uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa”5.
Gesù volle che i suoi apostoli fossero pastori di pecore e pescatori di uomini. Per noi del clero, risulta più facile essere pastori che non pescatori; cioè, nutrire con la parola e i sacramenti quelli che vengono in chiesa, che non andare alla ricerca dei lontani, negli ambienti più disparati della vita. La parabola della pecorella smarrita si presenta oggi rovesciata: novantanove pecore si sono allontanate e una è rimasta all’ovile. Il pericolo è di passare tutto il tempo a nutrire quell’unica rimasta e non avere tempo, anche per la scarsità del clero, di andare alla ricerca delle smarrite. In questo l’apporto dei laici si rivela provvidenziale.
La realizzazione più avanzata in questo senso sono i movimenti ecclesiali. Il loro contributo specifico all’evangelizzazione è di offrire agli adulti un’occasione per riscoprire il loro battesimo e diventare membri attivi e impegnati della Chiesa. Molte conversioni di non credenti e ritorni alla pratica religiosa di cristiani nominali avvengono oggi nell’ambito di questi movimenti. Uno degli scopi del convegno sull’evangelizzazione tenuto nell’Ottobre scorso era proprio, mi pare, quello di raccogliere le diverse, e a volte originali, forme di evangelizzazione da essi sperimentate.
Recentemente, il Santo Padre Benedetto XVI è ritornato sull’importanza della famiglia in vista dell’evangelizzazione, parlando di “un protagonismo” delle famiglie cristiane in questo campo. “Come sono in relazione l’eclissi di Dio e la crisi della famiglia, diceva, così la nuova evangelizzazione è inseparabile dalla famiglia cristiana”6.
Commentando il passo sui 72 discepoli, san Gregorio Magno scrive che Gesù li manda “a due a due, “ perché meno che tra due non ci può essere amore”, e l’amore è ciò da cui gli uomini potranno riconoscere che siamo suoi discepoli. Questo vale per tutti, ma in modo tutto speciale per due genitori. Se essi non possono fare più nulla per aiutare nella fede i loro figli, farebbero già molto se, guardandoli, essi potessero dire tra loro: “Guardate come si amano papà e mamma”. “L’amore è da Dio”, dice la Scrittura (1 Giovanni 4, 7) e questo spiega perché dovunque c’è un po’ di amore vero, lì è sempre annunciato Dio.
La prima evangelizzazione comincia tra le mura di casa. A un giovane che gli chiedeva cosa doveva fare per essere salvo, Gesù un giorno rispose: “Va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri…, poi vieni e seguimi” (Mc10, 21); ma a un altro giovane che voleva lasciare tutto e seguirlo, non glielo permise, ma gli disse: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha usato con te” (Mc5, 19).
C’è un famoso canto spiritual negro intitolato “There is a balm in Gilead” “C’è un balsamo in Gilead”. Alcune sue parole possono incoraggiare i laici, e non solo loro, nel compito di una evangelizzazione da persona a persona, da porta a porta.Dice:
“If you cannot preach like Peter, if you cannot preach like Paul, go home and tell your neighbor that Jesus died for all”.
“Se non sai predicare come Pietro; se non sai predicare come Paolo, va’ a casa tua e di’ ai tuoi vicini: Gesù è morto per noi!”
Fra due giorni è Natale. È di conforto ai fratelli laici ricordare che intorno alla culla di Gesù, oltre Maria e Giuseppe, c’erano i loro rappresentanti, i pastori e i magi.
Il Natale ci riporta alla punta della punta della scia del vascello, perché tutto è iniziato da lì, da quel Bambino nella mangiatoia. Nella liturgia sentiremo proclamare “Hodie Christus natus est, hodie Salvator apparuit”, “Oggi Cristo è nato, oggi è apparso il Salvatore”. Ascoltandole, ripensiamo a quello che abbiamo detto dell’anamnesi che rende l’evento più presente di quando accadde la prima volta”. Sì, Cristo nasce oggi, perché egli nasce davvero per me nel momento in cui riconosco e credo nel mistero. “Che giova a me che Cristo sia nato una volta a Betlemme da Maria, se non nasce di nuovo per fede nel mio cuore?”: sono parole pronunciate da Origene e ripetute da sant’Agostino e da san Bernardo7.
Facciamo nostra l’invocazione scelta dal nostro Santo Padre per i suoi auguri natalizi di quest’anno e ripetiamola con lui con tutto l’anelito del cuore: “Veni ad salvandum nos”, Vieni, Signore, e salvaci!
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1 Motu proprio “Ubicunque et semper”.
2 Sacrosanctum concilium, n. 7.
3 S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, I, E (L’arresto) (in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 708).
4 Omelia pasquale dell’anno 387 (SCh 36, p. 59 s.)
5 L.G., 12.
6 Benedetto XVI, discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la famiglia, in “L’Osservatore Romano”, 2 Dicembre, p. 8.
7 Origene, Commento al Vangelo di Luca, 22,3 (SCh. 87, p. 302).