giovedì 11 ottobre 2012

Apertura dell'Anno della Fede - Omelia di Benedetto XVI


Di seguito il testo dell'omelia che Benedetto XVI ha tenuto questa mattina in Piazza san Pietro inaugurando l'Anno della Fede.
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Venerati Fratelli, cari fratelli e sorelle! Con grande gioia oggi, a 50 anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, diamo inizio all’Anno della fede. Sono lieto di rivolgere il mio saluto a tutti voi, in particolare a Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca di Costantinopoli, e a Sua Grazia Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. Un pensiero speciale ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche, e ai Presidenti delle Conferenze Episcopali. 
Per fare memoria del Concilio, che alcuni di noi qui presenti – che saluto con particolare affetto - hanno avuto la grazia di vivere in prima persona, questa celebrazione è stata arricchita di alcuni segni specifici: la processione iniziale, che ha voluto richiamare quella memorabile dei Padri conciliari quando entrarono solennemente in questa Basilica; l’intronizzazione dell’Evangeliario, copia di quello utilizzato durante il Concilio; la consegna dei sette Messaggi finali del Concilio e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica, che farò al termine, prima della Benedizione. Questi segni non ci fanno solo ricordare, ma ci offrono anche la prospettiva per andare oltre la commemorazione. Ci invitano ad entrare più profondamente nel movimento spirituale che ha caratterizzato il Vaticano II, per farlo nostro e portarlo avanti nel suo vero senso. E questo senso è stato ed è tuttora la fede in Cristo, la fede apostolica, animata dalla spinta interiore a comunicare Cristo ad ogni uomo e a tutti gli uomini nel pellegrinare della Chiesa sulle vie della storia.
L’Anno della fede che oggi inauguriamo è legato coerentemente a tutto il cammino della Chiesa negli ultimi 50 anni: dal Concilio, attraverso il Magistero del Servo di Dio Paolo VI, il quale indisse un «Anno della fede» nel 1967, fino al Grande Giubileo del 2000, con il quale il Beato Giovanni Paolo II ha riproposto all’intera umanità Gesù Cristo quale unico Salvatore, ieri, oggi e sempre. Tra questi due Pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, c’è stata una profonda e piena convergenza proprio su Cristo quale centro del cosmo e della storia, e sull’ansia apostolica di annunciarlo al mondo. Gesù è il centro della fede cristiana. Il cristiano crede in Dio mediante Gesù Cristo, che ne ha rivelato il volto. Egli è il compimento delle Scritture e il loro interprete definitivo. Gesù Cristo non è soltanto oggetto della fede, ma, come dice la Lettera agli Ebrei, è «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,2).
Il Vangelo di oggi ci dice che Gesù Cristo, consacrato dal Padre nello Spirito Santo, è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Questa missione di Cristo, questo suo movimento continua nello spazio e nel tempo, attraversa i secoli e i continenti. E’ un movimento che parte dal Padre e, con la forza dello Spirito, va a portare il lieto annuncio ai poveri di ogni tempo – poveri in senso materiale e spirituale. La Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come il corpo al capo. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Così disse il Risorto ai discepoli, e soffiando su di loro aggiunse: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). E’ Dio il principale soggetto dell’evangelizzazione del mondo, mediante Gesù Cristo; ma Cristo stesso ha voluto trasmettere alla Chiesa la propria missione, e lo ha fatto e continua a farlo sino alla fine dei tempi infondendo lo Spirito Santo nei discepoli, quello stesso Spirito che si posò su di Lui e rimase in Lui per tutta la sua vita terrena, dandogli la forza di «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», di «rimettere in libertà gli oppressi» e di «proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il Concilio Vaticano II non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all’uomo contemporaneo. Al riguardo, così si esprimeva il Servo di Dio Paolo VI due anni dopo la conclusione dell’Assise conciliare: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare [alcune] affermazioni conciliari (…) per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa» (Catechesi nell’Udienza generale dell’8 marzo 1967). Così Paolo VI nel 1967.
Ma dobbiamo ora risalire a colui che convocò il Concilio Vaticano II e che lo inaugurò: il Beato Giovanni XXIII. Nel Discorso di apertura, egli presentò il fine principale del Concilio in questi termini: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (AAS 54 [1962], 790.791-792). Così Papa Giovanni all'inizio del Concilio.
Alla luce di queste parole, si comprende quello che io stesso allora ho avuto modo di sperimentare: durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi. Perciò ritengo che la cosa più importante, specialmente in una ricorrenza significativa come l’attuale, sia ravvivare in tutta la Chiesa quella positiva tensione, quell’anelito a riannunciare Cristo all’uomo contemporaneo. Ma affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi ad una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla «lettera» del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento.
Se ci poniamo in sintonia con l’impostazione autentica, che il Beato Giovanni XXIII volle dare al Vaticano II, noi potremo attualizzarla lungo questo Anno della fede, all’interno dell’unico cammino della Chiesa che continuamente vuole approfondire il bagaglio della fede che Cristo le ha affidato. I Padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano. Invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità.
Se oggi la Chiesa propone un nuovo Anno della fede e la nuova evangelizzazione, non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa! E la risposta da dare a questo bisogno è la stessa voluta dai Papi e dai Padri del Concilio e contenuta nei suoi documenti. Anche l’iniziativa di creare un Pontificio Consiglio destinato alla promozione della nuova evangelizzazione, che ringrazio dello speciale impegno per l’Anno della fede, rientra in questa prospettiva. In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, ai tempi del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. E’ il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza. La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo. Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr Sir 34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono.
Venerati e cari Fratelli, l’11 ottobre 1962 si celebrava la festa di Maria Santissima Madre di Dio. A Lei affidiamo l’Anno della fede, come ho fatto una settimana fa recandomi pellegrino a Loreto. La Vergine Maria brilli sempre come stella sul cammino della nuova evangelizzazione. Ci aiuti a mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo Paolo: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda… E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di Lui a Dio Padre» (Col 3,16-17). Amen.
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Il commento è, come al solito, di Massimo Introvigne.

Questa mattina, 11 ottobre 2012, a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Benedetto XVI ha aperto l’Anno della fede. «Per fare memoria del Concilio», la solenne celebrazione in Piazza San Pietro «è stata arricchita – ha spiegato il Papa – di alcuni segni specifici: la processione iniziale, che ha voluto richiamare quella memorabile dei Padri conciliari quando entrarono solennemente in questa Basilica; l’intronizzazione dell’Evangeliario, copia di quello utilizzato durante il Concilio; la consegna dei sette Messaggi finali del Concilio e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica» al termine della Messa prima della Benedizione. Tutti questi segni hanno lo scopo per il Pontefice di farci entrare più profondamente nel Vaticano II, «per farlo nostro e portarlo avanti nel suo vero senso».
L’Anno della fede, in realtà, «è legato coerentemente a tutto il cammino della Chiesa negli ultimi 50 anni: dal Concilio, attraverso il Magistero del Servo di Dio Paolo VI [1897-1978], il quale indisse un “Anno della fede” nel 1967, fino al Grande Giubileo del 2000, con il quale il Beato Giovanni Paolo II [1920-2005] ha riproposto all’intera umanità Gesù Cristo quale unico Salvatore». Tutto il Magistero post-conciliare, afferma Benedetto XVI, mostra «una profonda e piena convergenza proprio su Cristo quale centro del cosmo e della storia, e sull’ansia apostolica di annunciarlo al mondo». L’evangelizzazione parte dal Padre e, mediante la forza dello Spirito, raggiunge tutta la storia umana in Gesù Cristo. E «la Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come il corpo al capo».
Il Concilio, ricorda ancora il Papa, «non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all’uomo contemporaneo». All’udienza generale dell’8 marzo 1967 lo ricordava con parole molto chiare il servo di Dio Paolo VI: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare [alcune] affermazioni conciliari (…) per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa».
E  Benedetto XVI cita pure il beato Giovanni XXIII (1881-1963), che nel solenne discorso di apertura del Concilio di cinquant’anni fa con altrettanta chiarezza ne indicava lo scopo ultimo: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito ed insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo».
Benedetto XVI afferma di averlo egli stesso sperimentato partecipando al Vaticano II: «durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi».
E tuttavia il Papa riconosce il rischio che questa tensione ad annunciare la fede «pecchi di confusione». Per evitare la confusione occorre poggiare sempre su «una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II»; occorre «ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito». La «vera eredità del Vaticano II» si trova nei testi: «il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità». In effetti, «il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento».
Nessuno è autorizzato ad alimentare equivoci in nome di un presunto «spirito» del Concilio sganciato dalla «lettera» dei testi. «I Padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano». Purtroppo, «negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità».
Dunque, se oggi il Papa propone un Anno della fede, «non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa!». Le cose non vanno meglio di allora. Vanno peggio. «In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso». Viviamo in un deserto. Ma è anche vero che spesso «nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita».
Come rispondere a questa sete? Occorre che chi ha sete incontri un evangelizzatore, una persona «che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni». «Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono».
Il Papa ha voluto anche ricordare che il giorno dell’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, ricorreva la festa di Maria Madre di Dio, fissata da Papa Pio XI (1857-1939) nel giorno della proclamazione del dogma della Divina Maternità della Madonna da parte del Concilio di Efeso nel 431. Il beato Giovanni XXIII tenne particolarmente a porre così il Concilio sotto il patrocinio della Madre di Dio.
 Quella giornata è rievocata in un articolo che lo stesso Benedetto XVI ha chiesto a L’Osservatore Romano di pubblicare in occasione del giorno cinquantenario, e che fungerà da prefazione dello stesso Pontefice a una raccolta degli interventi al Concilio dell’allora giovane teologo Joseph Ratzinger. Nell’articolo il Pontefice ricorda ancora una volta che «i concili precedenti erano stati quasi sempre convocati per una questione concreta alla quale dovevano rispondere. Questa volta non c’era un problema particolare da risolvere. Ma proprio per questo aleggiava nell’aria un senso di attesa generale: il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. Appariva essere diventato stanco e sembrava che il futuro venisse determinato da altri poteri spirituali». La parola spesso mal compresa «aggiornamento» significava in realtà proprio questo: il beato Giovanni XXIII aveva una chiara «percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo», e con il Concilio chiamava la Chiesa a «stare nel presente per potere dare forma al futuro.» Per questo Papa Roncalli «aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi. Fu questa la grandezza e al tempo stesso la difficoltà del compito che si presentava all’assemblea ecclesiale».
Alcuni episcopati – quelli dell’Europa del Nord – venivano al Concilio con idee di riforma più precise, e i vescovi francesi si preoccupavano soprattutto del cosiddetto «Schema XIII», da cui poi nacque la Costituzione Gaudium et spes. «Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?». Per rispondere compiutamente «sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna». A giudizio del Papa, «questo non è riuscito nello “Schema XIII”», cioè nella Gaudium et spes. «Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale».
E tuttavia, «inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale [Gaudium et spes], bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio»: la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae  e la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate. Non sfuggirà al lettore attento di questo articolo del Papa che si tratta proprio dei documenti il cui rifiuto sta al centro delle attuali difficoltà per il ritorno della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre (1905-1991), nella piena comunione con la Chiesa Cattolica. Qui il Pontefice ci dice che si tratta di documenti solo apparentemente minori, ma in realtà essenziali. Accettare o rifiutare il Concilio significa accettare o rifiutare questi due documenti.
Della Dignitatis humanae il Papa ricorda che fu «richiesta e preparata con grande sollecitudine soprattutto dall’episcopato americano». Proprio qui, nel linguaggio giuridico più statunitense che europeo, sta la radice di molte difficoltà d’interpretazione. Ma queste difficoltà – Benedetto XVI lo ha già affermato in altre occasioni, da ultimo nel recente viaggio in Libano – non potrebbero giustificare un rifiuto della nozione conciliare di libertà religiosa e un ritorno alla vecchia dottrina della tolleranza religiosa. «La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno». Il Concilio voleva affermare «la libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche [la] libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo». I Padri conciliari compresero che questa libertà ultimamente «non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano». Si può perfino, con buone ragioni storiche, sostenere che «il il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione».
Ma il Papa non si nasconde le difficoltà e i rischi. Infatti, «l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo». Affermare la libertà di religione poteva sembrare una concessione al relativismo. Non era così, secondo Benedetto XVI, ma per chiarirlo «fu certamente provvidenziale che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto».
Il secondo documento «che si sarebbe poi rivelato importante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna» nacque «quasi per caso» e crebbe «in vari strati». La Dichiarazione Nostra aetate all’inizio voleva essere solo un testo «sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo, testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah». Questo poneva delicati problemi politici nel contesto medio-orientale. «I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposero a un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlare dell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parola sull’islam». E «quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco». Per completezza, si aggiunsero riferimenti all’induismo e al buddhismo. Così, «venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile». La Nostra aetate è per il Papa un documento provvidenziale. Tuttavia negli ultimi anni è «via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione». Ogni riferimento all’11 settembre 2001 e al fondamentalismo, di cui Benedetto XVI ha parlato così spesso, non è casuale.
«Se all’inizio del concilio – continua il Pontefice – avevano prevalso gli episcopati centroeuropei con i loro teologi, durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più», così che non si può dire che alla fine una certa sensibilità nazionale abbia prevalso su un’altra. Quello che conta è ribadire l’essenziale: «I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo». Dunque «non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”. Perciò un’ermeneutica della rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari». L’Anno della fede servirà a rifiutare l’ermeneutica della rottura in tutte le sue versioni, e a riaffermare l’ermeneutica della riforma nella continuità che è quella del Magistero.