mercoledì 10 ottobre 2012

Fu una splendida giornata

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In occasione del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, l’editore tedesco Herder pubblicherà a novembre nelle Gesammelte Schriften gli scritti conciliari di Joseph Ratzinger con il titolo Zur Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils in due volumi curati dall’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Di seguito in anteprima, in italiano e nell’originale tedesco, la premessa nella quale Benedetto XVI ricorda quel tempo di attesa diffusa e di grandi speranze. Proponendo una lettura del concilio che aiuti la sua necessaria ricezione nella vita della Chiesa.

di Benedetto XVI

Fu una giornata splendida quando, l’11 ottobre 1962, con l’ingresso solenne di oltre duemila Padri conciliari nella Basilica di San Pietro a Roma, si aprì il Concilio Vaticano II. Nel 1931 Pio XI aveva dedicato questo giorno alla festa della Divina Maternità di Maria, in memoria del fatto che millecinquecento anni prima, nel 431, il concilio di Efeso aveva solennemente riconosciuto a Maria tale titolo, per esprimere così l’unione indissolubile di Dio e dell’uomo in Cristo. Papa Giovanni XXIII aveva fissato per quel giorno l’inizio del concilio, al fine di affidare la grande assemblea ecclesiale, da lui convocata, alla bontà materna di Maria, e ancorare saldamente il lavoro del concilio nel mistero di Gesù Cristo. Fu impressionante vedere entrare i vescovi provenienti da tutto il mondo, da tutti i popoli e razze: un’immagine della Chiesa di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mondo, nella quale i popoli della terra si sanno uniti nella sua pace.
Fu un momento di straordinaria attesa. Grandi cose dovevano accadere. I concili precedenti erano stati quasi sempre convocati per una questione concreta alla quale dovevano rispondere. Questa volta non c’era un problema particolare da risolvere. Ma proprio per questo aleggiava nell’aria un senso di attesa generale: il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. Appariva essere diventato stanco e sembrava che il futuro venisse determinato da altri poteri spirituali. La percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo e del compito che ne conseguiva era ben riassunta dalla parola “aggiornamento”. Il cristianesimo deve stare nel presente per potere dare forma al futuro. Affinché potesse tornare a essere una forza che modella il domani, Giovanni XXIII aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi. Fu questa la grandezza e al tempo stesso la difficoltà del compito che si presentava all’assemblea ecclesiale.
I singoli episcopati indubbiamente si avvicinarono al grande avvenimento con idee diverse. Alcuni vi giunsero più con un atteggiamento d’attesa verso il programma che doveva essere sviluppato. Fu l’episcopato centroeuropeo — Belgio, Francia e Germania — ad avere le idee più decise. Nel dettaglio l’accento veniva posto senz’altro su aspetti diversi; tuttavia c’erano alcune priorità comuni. Un tema fondamentale era l’ecclesiologia, che doveva essere approfondita dal punto di vista della storia della salvezza, trinitario e sacramentale; a questo si aggiungeva l’esigenza di completare la dottrina del primato del Concilio Vaticano I attraverso una rivalutazione del ministero episcopale. Un tema importante per gli episcopati centroeuropei era il rinnovamento liturgico, che Pio XII aveva già iniziato a realizzare. Un altro accento centrale, specialmente per l’episcopato tedesco, era messo sull’ecumenismo: il sopportare insieme la persecuzione da parte del nazismo aveva avvicinato molto i cristiani protestanti e quelli cattolici; ora questo doveva essere compreso e portato avanti anche a livello di tutta la Chiesa. A ciò si aggiungeva il ciclo tematico Rivelazione-Scrittura-Tradizione-Magistero. Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto «Schema XIII», dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello «Schema XIII». Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale.
Inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio. Si tratta anzitutto della Dichiarazione sulla libertà religiosa, richiesta e preparata con grande sollecitudine soprattutto dall’episcopato americano. La dottrina della tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno. Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo. Dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione. Tuttavia, l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo. È stato certamente provvidenziale che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto.
Il secondo documento che si sarebbe poi rivelato importante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna è nato quasi per caso ed è cresciuto in vari strati. Mi riferisco alla dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. All’inizio c’era l’intenzione di preparare una dichiarazione sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo, testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah. I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposero a un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlare dell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parola sull’islam. Quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco. Infine crebbe l’intuizione che fosse giusto parlare anche di altre due grandi religioni — l’induismo e il buddhismo — come pure del tema religione in generale. A ciò si aggiunse poi spontaneamente una breve istruzione relativa al dialogo e alla collaborazione con le religioni, i cui valori spirituali, morali e socio-culturali dovevano essere riconosciuti, conservati e promossi (cfr. n. 2). Così, in un documento preciso e straordinariamente denso, venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile. Quale compito esso implichi, quanta fatica occorra ancora compiere per distinguere, chiarire e comprendere, appaiono sempre più evidenti. Nel processo di ricezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione.
Se all’inizio del concilio avevano prevalso gli episcopati centroeuropei con i loro teologi, durante le fasi conciliari il raggio del lavoro e della responsabilità comuni si è allargato sempre più. I vescovi si riconoscevano apprendisti alla scuola dello Spirito Santo e alla scuola della collaborazione reciproca, ma proprio in questo modo si riconoscevano come servitori della Parola di Dio che vivono e operano nella fede. I Padri conciliari non potevano e non volevano creare una Chiesa nuova, diversa. Non avevano né il mandato né l’incarico di farlo. Erano Padri del concilio con una voce e un diritto di decisione solo in quanto vescovi, vale a dire in virtù del sacramento e nella Chiesa sacramentale. Per questo non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”. Perciò un’ermeneutica della rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari.
Nel cardinale Frings ho avuto un “padre” che ha vissuto in modo esemplare questo spirito del concilio. Era un uomo di forte apertura e grandezza, ma sapeva anche che solo la fede guida ad uscire all’aperto, a quell’ampio orizzonte che rimane precluso allo spirito positivistico. È questa fede che voleva servire con il mandato ricevuto attraverso il sacramento dell’ordinazione episcopale. Non posso che essergli sempre grato per aver portato me — il professore più giovane della Facoltà teologica cattolica dell’università di Bonn — come suo consulente alla grande assemblea della Chiesa, permettendomi di essere presente in questa scuola e percorrere dall’interno il cammino del concilio. In questo volume sono raccolti i diversi scritti con i quali, in quella scuola, ho chiesto la parola. Si tratta di richieste di parola del tutto frammentarie, dalle quali traspare anche il processo di apprendimento che il concilio e la sua ricezione hanno significato e significano tuttora per me.
Mi auguro che questi molteplici contributi, con tutti i loro limiti, nel complesso possano comunque aiutare a comprendere meglio il concilio e a tradurlo in una giusta vita ecclesiale. Ringrazio di tutto cuore l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller e i collaboratori dell’Institut Papst Benedikt XVI. per lo straordinario impegno che hanno assunto per realizzare questo volume.
Castel Gandolfo, nella festa del santo vescovo Eusebio di Vercelli, 2 agosto 2012.
L'Osservatore Romano, 11 ottobre 2012

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 Il testo di Benedetto XVI sopra pubblicato in anteprima apre il numero speciale che «L’Osservatore Romano» ha realizzato in tre lingue (italiano, inglese, spagnolo) per il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Vaticano II. Con una narrazione basata sulle cronache dell’epoca, dettagli inediti o poco conosciuti, immagini e fotografie rare, testi dei Papi che hanno guidato il concilio o lo hanno vissuto. Anticipo uno stralcio dal saggio scritto dal curatore dello speciale (da oggi in vendita a cinque euro).
(Francesco M. Valiante) Papa da meno di tre mesi, Giovanni XXIII annuncia il 25 gennaio 1959, festa della conversione di san Paolo apostolo, la decisione di celebrare «un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale». Dopo aver assistito nella basilica Ostiense al pontificale a conclusione dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, il Pontefice incontra nella sala capitolare dell’attiguo monastero benedettino i diciassette cardinali intervenuti al rito. E comunica loro, «tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito», la volontà di indire l’assise conciliare.
Erano trascorsi novant’anni dall’apertura dell’ultimo concilio ecumenico, il Vaticano I, interrotto e aggiornato sine die da Pio IX il 20 ottobre 1870, un mese dopo la presa di Roma. L’idea di portare a compimento quel concilio era già stata accarezzata da Pio XI e, in particolare, da Pio XII, ma il proposito di Papa Roncalli sembra andare ben al di là di quello dei suoi immediati predecessori. Anche per questo l’annuncio suscita fin dall’inizio una vastissima eco, non soltanto nella Chiesa cattolica, e viene accolto con grande favore anche dall’opinione pubblica mondiale.
Nei mesi successivi il Pontefice torna in diverse occasioni a precisare scopi e prospettive dell’assise, la cui idea — confessa — «non è maturata quale frutto di prolungata considerazione, ma quale fiore spontaneo di inaspettata primavera». Intanto si mette in moto la macchina operativa. Il primo atto ufficiale pontificio è la costituzione di una commissione antepreparatoria, il cui annuncio viene pubblicato su «L’Osservatore Romano» del 17 maggio. Composto dagli assessori e dai segretari dei dicasteri della Curia romana, l’organismo è presieduto dal cardinale Domenico Tardini, segretario di Stato e prefetto della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, mentre la segreteria è affidata a monsignor Pericle Felici, uditore della Sacra Rota. Entrambi saranno destinati ad avere un ruolo centrale nell’iter preparatorio. E se il primo sarà costretto a uscire di scena già l’anno dopo a causa delle precarie condizioni di salute (morirà il 30 luglio 1961), il secondo (poi nominato arcivescovo il 3 settembre 1960) continuerà a svolgere compiti di primo piano fino a diventare una figura chiave nello svolgimento dell’assise ecumenica — di cui sarà segretario generale — e nella successiva fase di recezione dei documenti conciliari.
La commissione si riunisce per la prima volta il 26 maggio. Il cardinale presidente invia una lettera ai futuri padri conciliari sugli eventuali temi da trattare ed estende le consultazioni a rettori e presidi dei principali centri cattolici di studio. Alla fine verranno contattati 2.594 membri della gerarchia, 156 superiori religiosi e 62 istituti di studi superiori fra università, atenei romani e facoltà ecclesiastiche e teologiche. In tutto i soggetti interpellati saranno 2.812.
In base ai suggerimenti e alle indicazioni pervenute nei mesi successivi, già al principio del 1960 vengono preparati alcuni testi riassuntivi, con lo scopo di offrire una sintesi ragionata delle principali proposte pervenute. La fase antepreparatoria si avvia così a conclusione per lasciare il posto alla fase preparatoria vera e propria, il cui inizio viene annunziato dallo stesso Giovanni XIII il 30 maggio.
A quella data, le risposte pervenute a Roma a proposito dei temi conciliari hanno già superato le duemila. In totale, sommando anche quelle giunte in seguito, raggiungeranno il numero di 2.150. «Se alla suprema assise della Chiesa si potesse adattare un’aggettivazione tratta dalla vita pubblica e politica di oggi — commenta il giornale della Santa Sede — si dovrebbe convenire che non mai si è verificata altrettanta “democrazia” nella impostazione di un convegno di dimensioni mondiali».
Pochi giorni dopo, con la data del 5 giugno, viene pubblicato il motu proprio Superno Dei nutu, che stabilisce gli organismi preparatori del concilio. Vengono creati una commissione centrale, presieduta dallo stesso Pontefice, dieci commissioni di studio su diversi argomenti (il 17 novembre successivo ne venne aggiunta un’undicesima, la commissione cerimoniale) e due segretariati: il primo per la stampa e lo spettacolo, il secondo per l’unione dei cristiani, istituito «per mostrare maggiormente — spiega il Pontefice — il nostro amore e la nostra benevolenza verso coloro che si chiamano cristiani, ma sono separati da questa Sede Apostolica, affinché essi pure possano seguire i lavori del Concilio e più facilmente trovare la via per raggiungere quell’unità per la quale Gesù Cristo rivolse al Padre Celeste così ardente preghiera». Trova così espressione concreta la preoccupazione di Giovanni XXIII per il tema dell’ecumenismo, divenuto cruciale sin dall’annuncio del concilio anche alla luce di un’eventuale partecipazione di altre Chiese e confessioni cristiane ai lavori dell’assise. Non è un caso, del resto, che alla guida del segretariato il Papa scelga una personalità come il cardinale Agostino Bea, distintosi per il suo impegno a favore del dialogo ecumenico ma anche per la sua sensibilità verso la questione dei rapporti tra cattolici ed ebrei.
Il lavoro ferve e si intensifica nei mesi successivi, mentre Giovanni XXIII ne segue assiduamente gli sviluppi, riservando un’attenzione costante all’attività dei diversi organismi, alle cui sedute partecipa spesso di persona. Sul piano dell’informazione si fanno sempre più frequenti le occasioni di incontro e di comunicazione con i media italiani e internazionali, che rivelano un crescente interesse nei riguardi dell’avvenimento. Anche per questo comincia ad attrezzarsi la sede del futuro ufficio stampa del Vaticano II, che si inaugura il 18 aprile. Il favore col quale l’opinione pubblica guarda in questi mesi alla Chiesa viene confermato anche dall’accoglienza positiva ricevuta dalla nuova enciclica papale Mater et magistra, pubblicata il 15 maggio.
Il giorno di Natale del 1961 il Papa firma la costituzione apostolica Humanae salutis che indice e convoca per l’anno successivo il concilio. Di lì a poco verrà resa nota anche la data di apertura: 11 ottobre 1962, ricorrenza liturgica della Maternità di Maria istituita nel 1931 da Pio XI.
Con il motu proprio Appropinquante concilio del 6 agosto 1962 viene promulgato il regolamento dell’assise. In esso si definiscono i soggetti e gli organismi dell’assemblea conciliare, e vengono precisate le modalità dello svolgimento dei lavori. Il regolamento contiene anche le indicazioni per la partecipazione degli «osservatori inviati dalle Chiese cristiane separate», ai quali — spiega una nota riassuntiva del foglio vaticano — è consentito «assistere alle sessioni pubbliche e alle Congregazioni generali», ma senza poter «interloquire o votare». Ed è proprio in quelle settimane che, grazie all’intensificarsi di contatti e iniziative diplomatiche, si pongono le basi per l’arrivo a Roma di una delegazione di quattro rappresentanti del patriarcato di Mosca, che si affiancano agli altri osservatori e al gruppo di «ospiti» del segretariato per l’unione dei cristiani, tra i quali spiccano personalità come Roger Schutz e Max Thurian, della comunità di Taizé, e il teologo luterano Oscar Cullmann.
Quando manca poco più di un mese all’apertura, Giovanni XXIII dedica otto giorni — dal 10 al 17 settembre — a una sorta di personale «ritiro spirituale» in preparazione al concilio. Il 4 ottobre si reca in treno al santuario mariano di Loreto e ad Assisi per impetrare la protezione della Madonna e di san Francesco.
La vigilia conciliare di Giovanni XXIII trascorre tra preghiera e incontri con i più stretti collaboratori. La notte piove a dirotto. Ma la mattina seguente, contro ogni previsione, il cielo si rasserena. Tutto è pronto per l’inizio del Vaticano II.  

L'Osservatore Romano, 11 ottobre 2012

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  Il commento che segue è di Andrea Tornielli.

 La costituzione conciliare «Gaudium et spes» non ha chiarito ciò che era «essenziale e costitutivo dell’età moderna. Lo afferma Benedetto XVI nella prefazione di una pubblicazione dei suoi scritti conciliari che sarà prossimamente pubblicata dall’editore tedesco Herder. Il testo, inedito, viene anticipato nel numero speciale illustrato de «L’Osservatore Romano» dedicato al cinquantesimo del Vaticano II, che racconta la stagione conciliare, con una narrazione basata sulle cronache dell’epoca, dettagli inediti o poco conosciuti, immagini e fotografie rare.
Parlando del cosiddetto «Schema XIII», dal quale «poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», il Papa osserva: «Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?».
«Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” – continua Benedetto XVI – vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la Costituzione pastorale (“Gaudium et spes”, ndr.)esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale».
Ratzinger fa quindi notare che «inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne» nella grande Costituzione «Gaudium et spes», bensì «in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio». Innanzitutto nella Dichiarazione sulla libertà religiosa, richiesta e preparata «con grande sollecitudine – spiega il Papa – soprattutto dall’episcopato americano». La dottrina della tolleranza non appariva più «sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno».
«Si trattava – scrive Ratzinger della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali alla libertà dell’uomo». Il Papa spiega che «dalle sue ragioni più intime, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto».
«La fede cristiana rivendicava la libertà alla convinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione».
Ma, fa osservare ancora Benedetto XVI, «l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera del soggettivo».
«È stato certamente provvidenziale – aggiunge Ratzinger – che, tredici anni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni Paolo II sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione veniva contestata dal marxismo, vale a dire a partire da una particolare forma di filosofia statale moderna. Il Papa proveniva quasi da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto».
Il secondo documento importante per l’incontro con l’età moderna «è nato quasi per caso ed è cresciuto in vari strati. Mi riferisco alla dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane». Un testo inizialmente pensato solo per le relazioni con l’ebraismo, «testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orrori della shoah». I Padri conciliari dei Paesi arabi «non si opposero», ma spiegarono che «si doveva spendere anche qualche parola sull’islam. Quanto avessero ragione a riguardo, in occidente lo abbiamo capito solo poco a poco». Nel testo si sarebbe parlato anche di altre religioni e del tema religione in generale oltre che del dialogo tra le religioni.
Ma, riconosce Benedetto XVI, nel «processo di ricezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione». Un accenno, quello alle forme «malate e disturbate» di religione che può essere letto anche in riferimento al fondamentalismo.
Infine, il Papa torna sull’ermeneutica del Vaticano II ricordando che i vescovi «non potevano e non volevano creare una fede diversa o una Chiesa nuova, bensì comprenderle ambedue in modo più profondo e quindi davvero “rinnovarle”. Perciò un’ermeneutica della rottura è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei Padri conciliari».