venerdì 19 ottobre 2012

I "Premi Nobel" della Teologia

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Domani, sabato 20 ottobre, nella Sala Clementina del Palazzo apostolico in Vaticano, alla presenza dei padri sinodali, che per l’occasione sospenderanno i loro lavori, Benedetto XVI consegnerà i riconoscimenti della seconda edizione del Premio Ratzinger. Di seguito due articoli scritti dai vincitori del premio.

Lo scacco che l'ateismo dà a se stesso

di Rémi Brague (*)

Nonostante i successi, l’ateismo, persino nelle sue forme più attenuate, comporta un grande inconveniente, che fa di esso una “malattia mortale”. Si tratta in effetti di un problema fondamentale sul quale non ha nulla da dire; addirittura si fonda sulla decisione di rinunciare a ogni risposta possibile da dare a una domanda di questo tipo. Non resta che enunciarla: supponendo che esista sulla terra un essere, conosciuto con il nome di homo sapiens, che sarebbe capace, da una parte di rendere ragione dell’Universo che lo circonda, e dall’altra di darsi da fare per formare con i suoi simili una comunità armoniosa, sarebbe un “bene” che esistesse un essere di questo tipo? Detto in altre parole: noi possiamo tentare di dare del mondo fisico una descrizione puramente immanente, che permetta all’uomo di dominarlo e di sfruttarlo a proprio beneficio, e quindi non abbiamo affatto bisogno di scoprire riguardo a esso una qualsivoglia verità ultima. Possiamo tra l’altro stabilire in modo puramente immanente le regole del gioco che permettono la coesistenza degli uomini. A tal fine basta ideare un contratto mediante il quale gli uomini si obbligheranno reciprocamente a risparmiarsi gli uni gli altri, per il semplice motivo che in ciò si trova il loro interesse.
Pertanto l’obiettivo finale è che l’umanità continui a esistere ed eventualmente progredisca. Resta comunque aperta la questione di sapere in quale misura questa esistenza e questo progresso sono in generale auspicabili. A tale interrogativo l’ateismo non dà alcuna risposta, non può addirittura dare alcuna risposta.
Per dimostrarlo, devo dire qui alcune parole sul modo in cui l’ateismo si distrugge da solo. Il fallimento dell’ateismo è una conseguenza diretta del suo successo. Si potrebbe così parlare di una dialettica, analoga alla “dialettica dell’Illuminismo”, espressione che Adorno e Horkheimer usarono come titolo del loro libro più famoso. Salvo che qui ci troviamo di fronte a una dialettica che assumerebbe dei tratti realmente concreti. Il progetto dell’ateismo moderno consiste nel realizzare l’emancipazione dell’uomo. L’uomo dovrebbe prendere in mano il proprio destino, darsi delle leggi da solo (autonomia). Ciò non è stato possibile nel passato, o comunque secondo il modo in cui il progetto moderno racconta la propria storia. Un tempo l’uomo si regolava in base a principi che si trovavano al di fuori di lui. Il ruolo decisivo era svolto sia dal bell’ordine del cosmo (espressione di natura tautologica) che bisognava imitare, sia da una legge divina alla quale bisognava obbedire. I due punti di riferimento erano d’altra parte legati: il Dio, che detta i comandamenti, è anche quello che ha creato il mondo, il Legislatore è anche il Creatore.
I tempi moderni si sono sempre più rifiutati di guardare in queste due direzioni. Il loro ideale sarebbe di fondare l’uomo sull’uomo e su nient’altro, di modo che ogni rapporto con qualsiasi elemento esteriore, distinto, superiore, sarebbe escluso, anzi diventerebbe un’assurdità inutile. Per dirla come il giovane Marx «la radice per l’uomo è l’uomo stesso». Per esprimere questo ideale, il XIX secolo ha forgiato una parola, che si trova tra l’altro anche nel giovane Marx: “umanesimo”. Il termine ha due accezioni. Abbiamo appena ricordato la prima. Per la storiografia designa il movimento di riscoperta e di riappropriazione dell’eredità letteraria antica iniziato nell’Italia del XIV secolo. Gli artefici di questo rinnovamento per altro non erano affatto avversari della religione, ma, a cominciare da Petrarca, persone veramente pie. È tuttavia interessante osservare che la formazione del termine come categoria storiografica è avvenuta simultaneamente al suo uso per esprimere le dichiarazioni d’indipendenza dell’uomo rispetto a Dio, ossia proprio all’inizio degli anni Quaranta del XIX secolo. L’“Umanesimo” come epoca della ripresa degli studi classici è stato senza dubbio proposto dallo storico Carl Heinrich Wilhelm Hagen. E “umanesimo” come intenzione di preoccuparsi solo dell’uomo si trova per la prima volta negli scritti di Arnold Ruge, e poi di Feuerbach, Proudhon e altri ancora.
Ebbene, questo umanesimo, proprio perché non riconosce nessuna istanza superiore all’uomo, si rende incapace di pronunciare un qualsivoglia giudizio sul valore o sull’assenza di valore dell’uomo. L’uomo non si può pronunciare a favore o a sfavore di se stesso; è chiaro che accetterebbe in blocco la propria esistenza e questa assoluzione sarebbe priva di qualsiasi peso.
In una conferenza pronunciata nell’immediato dopoguerra, Jean-Paul Sartre ha ben individuato il problema, prendendosi gioco di una frase di Jean Cocteau: «l’uomo è straordinario!». Forse, fa notare Sartre. Ma chi parla qui? Certamente non un cavallo o un cane, un qualche giudice imparziale, ma un uomo; è evidente che nessuno può emettere un giudizio obiettivo su se stesso. Ben inteso, potremmo accontentarci d’immaginare che l’istinto di conservazione assicurerà la sopravvivenza della specie umana. A quanto sembra, così è stato per secoli. È di fatto possibile che l’uomo in quanto specie continuerà a esistere perché si riprodurrà. Ma Schopenhauer ha cercato di mostrare che l’istinto sessuale non è altro che una trappola attraverso la quale si fa beffa di noi un’onnipotente Volontà di vivere, alla quale non importa un fico secco degli individui. Abbiamo una risposta da dargli? Certo, si può invocare l’istinto e affidarsi a esso. Molti di noi hanno avuto i propri figli senza volerli troppo. Perché le generazioni future non dovrebbero anch’esse confidare nella natura? Forse. Ma ciò corrisponderebbe a condannare in blocco il progetto dell’Illuminismo. Con esso non intendo solo il movimento divenuto consapevole di sé che si è dato questo nome nel XVIII secolo europeo, ma anche il progetto della filosofia in tutta la vastità delle sue realizzazioni.
Questo progetto è tanto antico quanto Socrate con la sua impresa che consisteva nell’interrogare ogni uomo con un mestiere preciso e nel chiedergli di dimostrare la propria competenza. Per farlo, il professionista doveva spiegare perché faceva esattamente quel che faceva, dunque doveva “rendere conto” (lògon didònai) delle proprie azioni. Da qui, sotto una forma più ampia, il programma che consiste nel ricercare, per ogni fenomeno, la ragione. In metafisica è stato Leibniz a porlo sul trono, formulando il principio di ragion sufficiente. Storicamente parlando questa esigenza ha riguardato soprattutto le istituzioni: ogni norma giuridica, ogni organizzazione sociale dovrebbe giustificarsi davanti al tribunale della ragione, per sapere se è capace di “resistere al suo esame libero e pubblico”. In generale, ogni azione, senza alcuna eccezione, deve poter essere fondata sulla ragione. Abbiamo il diritto di rinunciare a cercare e a fornire una ragione nel caso dell’esistenza dell’umanità? Se agiamo così, l’esistenza del solo essere che può essere depositario della ragione si ritrova affidata all’insensatezza.

L'Osservatore Romano 20 ottobre 2012


(*): Professore dal 1990 al 2010 all'Università della Sorbona, Rémi Brague ha attualmente la cattedra "Romano Guardini" di scienza e storia delle religioni e di Weltanschaung cristiana presso l'Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera. È stato inoltre "Visiting Professor" in varie università americane, spagnole e italiane. È membro dell'Institut de France, de l'Académie des Sciences Morales et Politiques. Gli è stato conferito il Grand prix de philosophie de l'Académie Française. Tra i suoi molti libri ricordiamo: "Europe, la voie romane"; "La Sagesse du monde. Historie de l'experience humaine de l'univers"; "Du Dieu des chrétiens et d'un ou deux autres"; "Les Ancres dans le ciel. L'infrastrucutre méthaphysique".

Rémi Brague, ha detto il Cardinale Ruini è "un filosofo vero e al contempo un grande storico del pensiero della cultura, che unisce alla forza speculativa e alla visione storica una fede cristiana e cattolica profonda ed esplicita".

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Massimo il Confessore e la metafisica della persona

di Brian Daley (*)


L’elemento centrale dell’ampia visione del mondo e del suo futuro di Massimo il Confessore è solitamente considerato essere quello che noi moderni chiamiamo la sua “cristologia”: la sua comprensione della persona del Figlio di Dio Incarnato come la “sintesi” vivente, realizzata personalmente — per usare il termine preferito di Hans Urs von Balthasar — delle realtà infinitamente diverse, e tuttavia irriducibilmente collegate tra loro, di Dio e della sua creazione.
Nel suo libro epocale su Massimo, Liturgia cosmica (1968), Balthasar giustamente identifica «il mistero più centrale della concezione del mondo di Massimo» con «un mistero che contiene dentro di sé la soluzione a tutti gli enigmi del mondo: l’unificazione tra Dio e il mondo, l’eterno e il temporale, l’infinito e il finito, nell’ipostasi di un singolo essere, il Dio che si è fatto uomo». Poche pagine più avanti Balthasar cita un famoso passo di Quaestiones ad Thalassium 60 (scritto tra il 630 e il 633 circa) quale sintesi della grande visione della storia della creazione e della salvezza di Massimo: «Ai fini di Cristo, o ai fini del Mistero di Cristo, ogni tempo e ogni essere che esso contiene ha il proprio inizio e la propria fine in Cristo. Tale sintesi, infatti, era già concepita prima di tutti i tempi: la sintesi del limite e dell’illimitato, della misura e dell’incommensurabile, del circoscritto e dell’incircoscritto, del Creatore con la creatura, dell’immobilità nel movimento; quella sintesi che in questi ultimi giorni è diventata visibile in Cristo, portando il disegno di Dio a compimento attraverso se stesso».
Una decina di anni dopo, in diversi luoghi, Massimo iniziò a sostenere che una fede ortodossa in Cristo, fondata nei decreti dei concili ecumenici e delle opere teologiche che ne scaturiscono, doveva riconoscere che il Salvatore, in quanto Dio ed essere umano completo, possiede e usa due volontà naturali: perfettamente armonizzate attraverso il fatto dell’Incarnazione, ma ciascuna funzionante a modo proprio in quanto appartenente a una realtà naturale più grande. Così, in diversi saggi dall’inizio degli anni Quaranta del settimo secolo, e nella famosa Disputatio cum Pyrrho — trascrizione di una disputa pubblica a Cartagine tra Massimo e il monaco Pirro, deposto patriarca di Costantinopoli, nel luglio 645 — il Confessore sviluppò in modo esauriente le sue riflessioni sulla metafisica della persona di Cristo. Le sue argomentazioni avrebbero poi influenzato fortemente le Chiese d’Oriente e d’Occidente (al sinodo lateranense del 649 e al terzo concilio di Costantinopoli del 680/681) nel riconoscere formalmente che un serio impegno verso la ormai classica cristologia di Calcedonia esigeva che si ammettesse che le due nature del Figlio di Dio incarnato continuano a essere pienamente operative, in congiunzione sintetica reciproca, negli atti naturali di volontà che fanno parte del funzionamento caratteristico di ogni essere spirituale.
La teologia di Massimo è dunque caratterizzata da una prima prospettiva fortemente cosmica e soteriologica dell’opera di Cristo nella creazione, come anche, più tardi, da un approccio più strettamente ontologico alla realtà di Dio, basato su un’attenta analisi della psicologia dell’esistenza umana, radicata nella filosofia tardo antica, rivelandoci forse un Massimo che fa congetture e, in seguito, un Massimo “scolastico”. Un Massimo che vede Cristo in termini storici più ampi e che ne scruta la persona e l’essere minutamente dall’interno.
Ma che cosa collega questi due approcci? Ciò che vorrei suggerire qui è che a far ritrovare l’orientamento al pensiero di Massimo, e a spingerlo a mettere questi accenti, potrebbe essere stata, durante le dispute degli anni Trenta del settimo secolo, la riscoperta, da parte sua, della cruciale importanza di testi, dibattiti e controversie del secolo precedente: dibattiti che coinvolgevano i difensori e i critici della cristologia calcedoniana, che aveva portato a un’attenta riformulazione, durante il secondo concilio di Costantinopoli (553), di come tale cristologia veniva ufficialmente espressa.
Il contesto di questa riscoperta, verso la metà degli anni Trenta del settimo secolo, della teologia “accademica” del sesto secolo (se così la possiamo definire), furono le critiche che a quanto pare accolsero la conclusione del “patto d’unione” tra il patriarca melkita Ciro d’Alessandria e gli anti-calcedoniani egiziani nel gennaio del 633, un decreto di Ciro nel quale si affermava che le due “nature” originali personalmente unite in Cristo erano tenute insieme da una singola attività o “operazione teandrica”. Questa frase, ripresa dalla fine della cosiddetta Quarta lettera dello Pseudo Dionigi, indirizzata a un certo Gaio, e dibattuta in modo inconcludente dai difensori e dai critici di Calcedonia sin dall’inizio degli anni Venti del settimo secolo, all’inizio sembra essere stata accolta con cauto entusiasmo da Sergio, patriarca di Costantinopoli che, con lo stesso imperatore Eraclio, era sempre alla ricerca di un linguaggio che potesse portare a un ravvicinamento tra i gruppi cristiani dissidenti nell’impero. In una lettera a Onorio, papa di Roma, scritta probabilmente alla fine del 633 o all’inizio del 634, Sergio stesso appoggiava la nozione di “singola attività teandrica” in Cristo, respingendo qualsiasi linguaggio che si potesse riferire a due volontà operanti nelle sue azioni; papa Onorio rispose in modo favorevole, seppure un poco timido, citando testi di san Paolo e la dottrina, allora conosciuta, della “comunione d’idiomi” in Cristo.
C’era però evidente preoccupazione tra alcune persone nella Chiesa d’Oriente. Poco dopo l’annuncio, ad Alessandria, del patto di unione tra calcedoniani e non-calcedoniani, l’anziano e venerabile monaco Sofronio (un siro che aveva trascorso molti anni nel deserto egiziano, si era recato a Roma e poi a Cartagine, dove era stato mentore spirituale di Massimo, ed era tornato ad Alessandria nel 633) rimase inorridito dinanzi alla nozione di una singola attività od operazione in Cristo, vedendo in ciò una nuova forma di apollinarismo. Si rimise subito in cammino per Costantinopoli, al fine di confrontarsi con Sergio e di impedirgli di dare al patto un sostegno ecumenico ufficiale. Le sue proteste ebbero successo: Sergio, che chiaramente prevedeva solo nuovi dissensi sulla scia del patto di Ciro, riunì il proprio sinodo nell’autunno del 633 ed emanò un decreto, o psèphos, con il quale ordinava alle guide della Chiesa semplicemente di evitare del tutto qualsiasi riferimento a “una attività” o “due attività” in Cristo.
A ogni modo, questi eventi di Alessandria e di Costantinopoli sono stati lo sfondo sul quale Massimo, a quanto pare, verso la metà degli anni Trenta del settimo secolo, ha iniziato a mostrare un interesse più profondo per la terminologia dei dibattiti sulla persona di Cristo del sesto secolo, che avevano portato ai canoni del secondo concilio di Costantinopoli. Massimo sembra avere avuto ottime conoscenze ad Alessandria; il suo amico e figlio spirituale Pietro “l’Illustre”, per molti anni il principale generale bizantino nell’Africa settentrionale, a quanto pare nel 633 era stato trasferito in Egitto, dinanzi alla crescente espansione islamica in Siria. Alessandria era caduta in mano agli eserciti dell’impero invasore persiano nel 619, e sembra che tutto il Mediterraneo orientale abbia vissuto per anni una situazione di scompiglio politico e religioso, fino a quando i persiani furono costretti a togliere l’assedio a Costantinopoli nel 626, ritirandosi verso Est. Ora, mentre il governo imperiale riprendeva forza in Egitto, l’imperatore provava ancora una volta a unire le persone dal punto di vista religioso, cercando un qualche compromesso tra calcedoniani e anti-calcedoniani. Un primo passo fu il patto d’unione (già citato) del giugno 633.
Il linguaggio che emerge dalle lettere della metà degli anni Trenta del settimo secolo è formale, quasi liturgico, vicino a quello di Calcedonia, sfumato per quanto riguarda Costantinopoli II. Viene data importanza ai particolari tecnici delle espressioni e delle frasi, alla precisione delle preposizioni, al significato del numero. Ora usa il linguaggio della controversia teologica accademica, piuttosto che quello contemplativo della cella monastica. Tuttavia direi che, nonostante il cambiamento di tono e di linguaggio — cambiamento che si avvertirà in modo più intenso nella sua appassionata difesa delle due volontà naturali di Cristo cominciata l’anno seguente — la visione cristologica di Massimo non ha perso nulla della sua ampiezza cosmica o profondità soteriologica. Semplicemente è giunto alla comprensione che, per poter essere colui che porta il mondo all’unione redentrice e trasformatrice con il suo Creatore, Cristo stesso, quale soggetto unico che agisce, deve poter operare sia come creatore sia come creatura, ovvero deve essere sia due, nell’irriducibile differenza tra l’infinito e il finito, e uno, nell’intervento indivisibile e decisivo del Dio che ha tanto amato il mondo da entrarvi e salvarlo.
Nei dotti paradossi dello scolasticismo calcedoniano, Massimo trovò il materiale per costruire la propria espressione caratteristica definitiva del mistero cristiano.

L'Osservatore Romano 20 ottobre 2012

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(*): ll Padre Brian Edward Daley è stato professore dal 1978 al 1996 di Teologia e Storia della Teologia presso la Weston School of Theology di Cambridge (Massachusetts) ed attualmente insegna alla University di Notre Dame. Ha lavorato molto in ambito ecumenico, specialmente per i rapporti tra cattolici e ortodossi; attualmente è Segretario esecutivo per parte cattolica dell'organismo consuntivo cattolico-ortodosso per il Nord America. È autore del volume "The hope of the Early Church: a Handbook of Patristic Eschatology". Ha contribuito al "Handbuch der Dogmengeschichte" e fra le altre pubblicazioni è autore di una antologia di testi di spiritualità dei gesuiti dal titolo: "Companions in the Mission of Jesus".

Brian E. Daley è "un grande storico della teologia patristica, ma anche un uomo impegnato con tutto se stesso nella vita e nella missione della Chiesa, che unisce esemplarmente il rigore scientifico alla passione per il Vangelo".