mercoledì 10 ottobre 2012

Sinodo: autocritica e missione.


      AFP

«Ci siamo rinchiusi in noi stessi mostriamo un’autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale». Sono parole pronunciate al Sinodo dei vescovi in corso in Vaticano dal presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, l’arcivescovo Rino Fisichella.
Parole ancora più dure sono quelle dette dall’arcivescovo filippino di Lingayen-Dagupan, Socrates B. Villegas: «Perché in alcune parti del mondo ci sono una forte ondata di secolarizzazione, una tempesta di antipatia o pura e semplice indifferenza verso la Chiesa che richiedono nuovi programmi di evangelizzazione?… La nuova evangelizzazione richiede nuova umiltà. Il Vangelo non può prosperare nell’orgoglio… L’evangelizzazione è stata ferita e continua ad essere ostacolata dall’arroganza dei suoi agenti. La gerarchia deve evitare l’arroganza, l’ipocrisia e il settarismo».
Da questi giudizi emerge la consapevolezza dei rischi che derivano da una Chiesa che si considera autosufficiente, tutta ripiegata sulle beghe infra-ecclesiali, flagellata dalla piaga del carrierismo, dall’arbitrio di chi arriva a stravolgere a piacimento l’essenziale del suo messaggio come pure dall’avanzare di un neo-clericalismo che si autodefinisce «ratzingeriano» ma che ha poco a che fare con la profondità dell’insegnamento di Benedetto XVI. Una Chiesa così occupata con se stessa e le sue discussioni ermeneutiche da appariredistante dal vissuto concreto delle persone. Perché in alcune parti del mondo ci sono una forte ondata di secolarizzazione, una tempesta di antipatia o – peggio – una pura e semplice indifferenza verso la Chiesa?
Sicuramente qualcuno risponderà – e giustamente – che la Chiesa non deve cercare di essere «simpatica», ricordando l’inevitabile segno di contraddizione e l’opposizione del «mondo» alla presenza di Cristo. Ma anche questo oggi può diventare un alibi. Perché anche «l’odio del mondo» può risultare ragione auto-assolutoria per discorsi teologicamente perfetti sulla missione, per un’infinità di pagine di documenti e piani pastorali che non toccano il cuore ferito degli uomini e delle donne del nostro tempo. Quando non copre lotte di potere e cordate, come hanno tristemente dimostrato le vicende vaticane degli ultimi anni.
Davanti alle critiche qualcuno nella Chiesa sembra quasi compiacersi. C’è chi dice: se ci odiano, questa è la prova che siamo testimoni autentici, senza sconti. Ma l’immagine di una Chiesa che deve quasi per statuto essere repellente finisce per stravolgere la dinamica stessa con cui si comunica il fatto cristiano, che è sempre stata ed è una dinamica di attrattiva: le persone si avvicinano a Gesù perché si avvicinano a qualcosa di bello, a Qualcuno dal quale ci si sente amati, accolti, voluti bene.
Il più grande errore che si può fare, nel leggere i giudizi autocritici emersi nel Sinodo è quello di pensare che riguardino gli altri: l’istituzione ecclesiastica, i prelati vaticani, le gerarchie insensibili, etc. etc. È quello di guardare a questa realtà senza dolore e compartecipazione, senza partire dalla necessaria consapevolezza che la Chiesa non è solo il Papa e non sono soli i cardinali e i vescovi, ma sono – siamo – tutti i battezzati. L’urgenza di una rinnovata testimonianza ci riguarda tutti.
Ha detto il Papa nella meditazione a braccio all’inizio dei lavori sinodali: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui».
L’anno scorso, ad Aquileia, Benedetto XVI disse: «È necessario che i cristiani, sostenuti da una “speranza affidabile”, propongano la bellezza dell’avvenimento di Gesù Cristo, via, verità e vita, ad ogni uomo e ad ogni donna, in un rapporto franco e sincero con i non praticanti, con i non credenti e con i credenti di altre religioni. Siete chiamati a vivere con quell’atteggiamento carico di fede che viene descritto dalla Lettera a Diogneto: non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli altri uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel cristianesimo, tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una “città” più umana, più giusta e solidale».
Stare in mezzo agli altri uomini «con simpatia», cioè, come ebbe a scrivere don Giovanni Battista Montini, guardando al mondo «non come a un abisso di perdizione ma come a un campo di messe». (A. Tornielli)

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 Il commento che segue è di Paolo Rodari.

E’ il Concilio Vaticano II, con le sue aperture alla modernità, che ha svuotato la chiesa di significato? O è il mondo che ha abbandonato la chiesa?
La domanda entra nel Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione – Benedetto XVI presente in silenzio ad ascoltare ogni seduta – che ha luogo “non a caso” in concomitanza con l’apertura dell’anno della fede, coi cinquant’anni del Concilio e i venti dalla pubblicazione del nuovo Catechismo, come dice monsignor Rino Fisichella, scelto dal Papa per studiare e promuovere l’evangelizzazione.
Di chi è la colpa se la chiesa sembra essersi smarrita nelle sfide della modernità? Domanda drammatica, per il decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano che, chiamato a intervenire fra i primi, parla esplicitamente di “gravi difficoltà”.
E cita Simon Pietro: “Abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti”. La chiesa le reti le ha gettate, negli ultimi decenni, ma con quali risultati? Sodano non ha risposte certe. Ma dice di essersi preparato al Sinodo leggendo gli Atti degli apostoli dove una prima fruttuosa evangelizzazione è in atto. Poi però spiega di aver letto anche l’Apocalisse dove in atto c’è pure “l’opera del maligno”. E’ inevitabile, dice, “l’uomo talora preferisce restare nelle tenebre”.
Fisichella sa dove vuole arrivare il Papa. Posto che “la secolarizzazione è un processo iniziato prima del Concilio, ci sono state interpretazioni dello stesso Concilio che non hanno permesso alla chiesa di epurare ciò che della secolarizzazione non avremmo dovuto fare nostro. In molti, ad esempio, hanno interpretato ambiguamente le lettere che il teologo Dietrich Bonhoeffer scrisse quando durante il nazismo si trovava rinchiuso nel carcere di Berlino”. Parlò della necessità di un Dio umile, di un Dio “del ritiro”, come condizione per essere credibili nel mondo. E molti lo interpretarono postulando “la necessità di vivere nel mondo come se Dio non esista”.
Ma, dice Fisichella in sala stampa vaticana, “è una forzatura. E’ vero, la costituzione Gaudium et spes – uno dei documenti più importanti del Vaticano II – riconosce elementi positivi nella secolarizzazione, come l’autonomia delle realtà terrene quali le scienze, la cultura… ma il percorso della chiesa verso il mondo non è stato unitario dopo il Concilio”. Troppe insomma le interpretazioni diverse. Ecco, allora, un tema fondamentale del Sinodo: “Ritrovare un percorso unitario”, in sostanza superare le diverse interpretazioni del Concilio in favore di un indirizzo comune. E’ l’obiettivo di questo mese e, successivamente, dell’anno della fede che a gennaio sarà scandito dall’intervento del Papa con una sua enciclica.
Il taglio di Giuseppe Betori. L’arcivescovo di Firenze, scuola ruiniana con grande indipendenza intellettuale e pastorale, papabile, segue la strada aperta da Fisichella e parla di un “taglio che la chiesa deve compiere ogni volta che annuncia la fede. Il Vangelo, del resto, è un taglio rispetto al mondo”.
E cita Basilio Magno che – riferendosi al coltivatore di sicomori che rende commestibile il frutto incidendolo prima di coglierlo – leggeva l’incontro tra la fede e la cultura al suo tempo “come una incisione che rendeva questa sana, valida. A Basilio fece riferimento nel 2002 l’allora cardinale Ratzinger che commentò: ‘L’evangelizzazione non è un semplice adattarsi alla cultura, ovvero un rivestirsi con elementi della cultura nel senso di un concetto superficiale di inculturazione… No, il Vangelo è un taglio, una purificazione, che diviene maturazione e risanamento’” Prosegue Betori: “Non c’è cultura che non sia impermeabile alla potenza risanante del Vangelo. Certo, l’ascolto e la comprensione del mondo è condizione ineludibile per l’evangelizzazione, ma non si deve subire la sudditanza psicologica rispetto al mondo. La parola di Dio non può essere piegata alle circostanze e alle differenze pur esistenti. Perché è la parola di Dio che giudica il mondo”.
E’ giusto, dice il cardinale arcivescovo di New York Timothy Dolan: nessuna sudditanza. Ma nemmeno presunzione. Dice: “Prima di evangelizzare occorre essere evangelizzati. Dobbiamo essere serbatoi vuoti da riempire, anzitutto”.
Un concetto sul quale soffia, con parole sorprendenti, anche Carlos María Franzini, vescovo di Rafaela in Argentina: “Prima di evangelizzare le gerarchie devono deporre l’arroganza che è loro propria, un certo settarismo che le contraddistingue”. Già oggi pomeriggio, del resto, iniziano i “circoli minori”, luoghi di confronto serrato e di nuove proposte.
Cinque papabili. Sono cinque fra i cardinali più rappresentativi del collegio cardinalizio – in rappresentanza dei cinque continenti, personalità di peso anche in vista di un futuro conclave – a dare la linea sui temi più spinosi e urgenti.
Péter Erdo, primate d’Ungheria cresciuto alla scuola di Hans Urs von Balthasar e della rivista teologica Communio, parla per l’Europa. Questa, dice aprendo il suo intervento, “deve essere evangelizzata”. Una piccola pausa per prendere fiato e poi: “Ne ha bisogno”. La fede non c’è più, c’è solo ignoranza. E i media “attaccano”, i loro articoli “abbondano di calunnie”, “disinformano”. Gli attacchi “sono anche giuridici e talora fisici”, mirati “contro la presenza visibile delle manifestazioni della fede”. Per questo “il Consiglio episcopale dell’Europa ha predisposto un’indagine per valutare come viene insegnata la religione nelle scuole”. Ma oltre a monitorare si può anche agire. Come? La “ricetta Erdo” è una: un’alleanza fra cristiani. Dice: “Malgrado il fatto che alcune nuove comunità sono fortemente anticattoliche, e che altri ambienti cristiani cercano di riaffermare la loro identità mediante attacchi contro la chiesa cattolica, la collaborazione pratica generale tra le chiese sta crescendo”.
L’arcivescovo John Atcherley Dew di Wellington e poi un altro pezzo da novanta, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar-es-Salaam. Se in Europa il problema è l’assenza di fede, in Africa è la presenza di un tipo di fede fondamentalista. Quale? “L’islam fondamentalista”. L’aula, Papa compreso, è tutta in silenzio. Vengono in mente le parole di Ratzinger a Ratisbona e le sostanziali scuse che egli ha dovuto rivolgere al mondo islamico che, offeso da una lectio nella quale condannava l’uso della violenza nel nome di Dio, mise a fuoco e fiamme mezzo mondo. Tutti guardano Ratzinger. E poi ancora Pengo che dice: “Gli evangelizzatori in Africa devono affrontare la difficoltà di dialogare con la grande maggioranza di bravi musulmani che però non si esprimono e con piccoli gruppi di fondamentalisti che invece non sono disposti ad accettare nemmeno la verità oggettiva che viene contrapposta alla loro posizione preconcetta”. Il fondamentalismo nemico della fede cristiana è anche il cuore delle parole del cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai. Non ci sono soltanto le Filippine e Timor Est, gli “attacchi fondamentalisti” sono in aumento e “destano allarme”. Sono Pengo e Gracias che danno coraggio ad altri presuli del medio oriente. Durante l’ora dedicata al confronto libero si alzano in piedi e uno dopo l’altro danno sfogo alle difficoltà che subiscono perché accusati da tutti, musulmani compresi, di “fare proselitismo”.
In settembre l’agguerrita pattuglia di padri sinodali sudamericani si è trovata a Roma per un pre-Sinodo. Lo scopo? Studiare strategie comuni anche per contare di più all’interno del collegio cardinalizio. E per portare avanti richieste comuni: fra queste, secondo le parole dell’arcivescovo di Tlalnepantla Carlos Aguiar Retes, la proposta che al centro della vita della chiesa, governo incluso, siano maggiormente valorizzati i laici.