mercoledì 10 ottobre 2012

Sinodo: l'intervento di Rowan Williams


Joseph Ratzinger con Rowan Williams

Santità, Reverendi Padri, fratelli e sorelle in Cristo, cari Amici 1. Sono profondamente onorato dall’invito del Santo Padre di parlare in questa assemblea: come dice il Salmista, “Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum”. 
L’assemblea dei vescovi in Sinodo per il bene di tutto il popolo di Cristo rappresenta una di quelle discipline che promuovono la salute della Chiesa di Cristo. Oggi, in particolar modo, non possiamo dimenticare la grande assemblea di “fratres in unum” che è stata il concilio Vaticano II, che tanto ha fatto per la salute della Chiesa ed ha contribuito a far sì che la Chiesa riprendesse gran parte dell’energia necessaria per proclamare con efficacia la Buona Novella di Gesù Cristo al mondo di oggi. Per molti della mia generazione, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica romana, quel concilio ha rappresentato il segno di una grande promessa, un segno che la Chiesa era sufficientemente forte da porsi alcune domande impegnative sull’adeguatezza della propria cultura e delle proprie strutture per il compito di condividere il Vangelo con lo spirito complesso, spesso ribelle, sempre inquieto, del mondo moderno.
2. Il concilio ha rappresentato, in molti modi, una riscoperta della sollecitudine e della passione evangelica, concentrata non solo sul rinnovamento della vita della Chiesa stessa, ma sulla sua credibilità nel mondo. Testi quali Lumen gentium e Gaudium et spes hanno dato vita a una fresca e gioiosa visione di come l’immutabile realtà di Cristo vivente nel suo Corpo sulla terra, possa parlare con parole nuove alla società del nostro tempo e perfino a persone di altre fedi grazie al dono dello Spirito Santo. Non sorprende che, dopo cinquant’anni, ci stiamo ancora confrontando con molti interrogativi di allora e con le implicazioni del concilio, e suppongo che la sollecitudine di questo Sinodo per la nuova evangelizzazione faccia parte di quella continua esplorazione del retaggio del concilio.
3. Ma uno degli aspetti più importanti della teologia del Vaticano II è stato un rinnovamento dell’antropologia cristiana. Al posto di un resoconto neoscolastico spesso forzato e artificiale su come natura e grazia si relazionavano nella costituzione degli esseri umani, il concilio si è rifatto alle migliori prospettive di una teologia che aveva operato un ritorno alle fonti primordiali e più ricche, la teologia di geni spirituali come Henri de Lubac, il quale ci ha ricordato cosa significava per il cristianesimo delle origini e quello medievale parlare dell’umanità fatta a immagine di Dio e della grazia che perfeziona e trasfigura quell’immagine così a lungo oppressa dalla nostra abituale “inumanità”. In questa luce, proclamare il Vangelo equivale a proclamare che in definitiva è possibile essere veramente umani: la fede cattolica e cristiana rappresenta un “vero umanesimo”, per prendere a prestito una frase di un altro genio dell’ultimo secolo, Jacques Maritain.
4. Eppure de Lubac è chiaro su quello che ciò non significa. Noi non sostituiamo il compito evangelico con una campagna di “umanizzazione”. “Umanizzare prima di cristianizzare?” si chiede. “Se l’impresa riesce, il cristianesimo giungerà troppo tardi: il suo posto sarà già stato occupato. E chi pensa che il cristianesimo non abbia un valore umanizzante?”, così scrive de Lubac nella sua meravigliosa raccolta di aforismi “Paradossi della fede”. È la stessa fede che modella l’opera di umanizzazione e l’iniziativa di umanizzare resterà vuota senza la definizione di umanità offerta dal Secondo Adamo. L’evangelizzazione, vecchia o nuova che sia, deve radicarsi in una profonda fiducia che tutti noi abbiamo uno specifico destino umano da mostrare e da condividere con il mondo. Vi sono tanti modi di spiegarlo con chiarezza, ma in queste brevi osservazioni, desidero concentrarmi in particolare su un aspetto.
5. Essere pienamene umani significa essere creati nuovamente a immagine dell’umanità di Cristo; e quell’umanità rappresenta la perfetta “traduzione” umana del rapporto dell’eterno Figlio con l’eterno Padre, un rapporto di donazione di sé nell’amore e nell’adorazione, una reciproca effusione di vita. In tal modo, l’umanità in cui cresciamo nello Spirito, l’umanità che cerchiamo di condividere con il mondo come frutto dell’opera redentrice di Cristo, è un’umanità contemplativa. Santa Edith Stein ha osservato che iniziamo a comprendere la teologia quando vediamo Dio come “Primo Teologo”, il primo a parlarci della realtà della vita divina, poiché “tutto ciò che si dice su Dio presuppone che Dio abbia parlato”; in modo analogo possiamo dire che iniziamo a comprendere la contemplazione quando vediamo Dio come il primo contemplativo, l’eterno paradigma di quell’attenzione generosa verso l’altro che porta non la morte ma la vita. Tutto il contemplare da parte di Dio presuppone la propria assorta e gioiosa conoscenza di sé di Dio e la contemplazione di sé nella vita trinitaria.
6. Essere contemplativi come lo è Cristo significa essere aperti a tutta la pienezza che il Padre vuole effondere nei nostri cuori. Con le nostre menti rese silenziose e pronte a ricevere, con le fantasie che noi stessi abbiamo generato su Dio e su noi stessi ridotte al silenzio, abbiamo finalmente raggiunto il punto in cui possiamo cominciare a crescere. E il viso che dobbiamo mostrare al nostro mondo è il viso di un’umanità in incessante crescita verso l’amore, un’umanità così incantata e impegnata dalla gloria di ciò a cui tende, che siamo pronti a intraprendere un viaggio senza fine per trovare la via che ci conduce più profondamente nel cuore della vita trinitaria. San Paolo dice (2 Cor 3, 18) come “a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, siamo trasfigurati da una luce sempre più forte. Questo è il volto che cerchiamo di mostrare ai nostri fratelli nell’umanità.
7. Lo cerchiamo non perché siamo alla ricerca di una qualche privata “esperienza religiosa” che ci farà sentire sicuri o santi. Lo cerchiamo perché in questo sguardo dimentico di sé, rivolto verso la luce di Dio in Cristo, noi impariamo a guardarci l’un l’altro e tutta la creazione di Dio. Nella Chiesa delle origini, si capiva chiaramente che dovevamo superare la comprensione o la contemplazione di noi stessi, che ci insegnava a dominare i nostri istinti e le nostre brame di avidità, per giungere alla “contemplazione naturale” che percepiva e venerava la saggezza di Dio nell’ordine del mondo e ci permetteva di vedere la realtà del creato per quello che era veramente alla luce di Dio (piuttosto che secondo le maniere in cui potevamo usarla o dominarla). Da lì, la grazia ci avrebbe fatto avanzare verso l’autentica “teologia”, verso lo sguardo silenzioso rivolto a Dio, che è la meta di tutto il nostro discepolato.
8. In questa prospettiva, la contemplazione è ben lungi dall’essere semplicemente qualcosa che fanno i cristiani: è la chiave della preghiera, delle liturgia, dell’arte e dell’etica, la chiave dell’essenza dell’umanità rinnovata che è in grado di vedere il mondo ed altri soggetti nel mondo con libertà (libertà dalle abitudini incentrate su di sé, avide, e dalla distorta comprensione che ne deriva). Per dirla chiaramente, la contemplazione rappresenta l’unica risposta definitiva al mondo irreale e folle che i nostri sistemi finanziari, la nostra cultura pubblicitaria e le nostre emozioni caotiche e incontrollate, ci incoraggiano ad abitare. Imparare la pratica contemplativa significa imparare ciò di cui abbiamo bisogno per vivere fedelmente, onestamente e amorevolmente. Si tratta di un fatto profondamente rivoluzionario.
9. Nella sua autobiografia Thomas Merton ha descritto un’esperienza poco dopo essere entrato nel monastero dove avrebbe trascorso il resto della sua vita (Elected Silence, p. 303). Ammalato di influenza, era stato confinato in infermeria per alcuni giorni, e, dice, sentiva una “segreta gioia” perché questo gli forniva un’opportunità di preghiera - e “di fare tutto quello che volevo, senza dover correre per tutto il convento a rispondere alle campanelle”. È costretto a riconoscere che questo atteggiamento rivela che “tutte le mie cattive abitudini... si erano insinuate nel monastero con me e avevano ricevuto l’abito religioso assieme a me: la gola spirituale, la sensualità spirituale, l’orgoglio spirituale”. In altre parole, sta cercando di vivere la vita cristiana con il bagaglio emotivo di qualcuno ancora profondamente attaccato alla ricerca della soddisfazione personale. È un forte monito: dobbiamo vegliare con cura affinché la nostra evangelizzazione non sia semplicemente un modo per persuadere le persone ad applicare a Dio e alla vita dello spirito tutti i desideri di dramma, di eccitazione e di autocompiacimento che spesso ci accompagnano nella vita di tutti i giorni. Ciò è stato espresso con forza ancora maggiore alcuni decenni fa dallo studioso di religione americano Jacob Needleman, in un libro controverso e stimolante dal titolo “Lost Christianity”: le parole del Vangelo, dice, sono rivolte ad esseri umani che “non esistono ancora”. Vale a dire, rispondere in modo generoso a ciò che il Vangelo esige da noi significa una trasformazione completa di tutta la nostra persona, sentimenti, pensieri e immaginario compresi. Essere convertiti alla fede non significa semplicemente acquisire un nuovo bagaglio di credenze, ma diventare una persona nuova, una persona in comunione con Dio e con gli altri attraverso Gesù Cristo.
10. La contemplazione è un elemento intrinseco di questo processo di trasformazione. Imparare a guardare a Dio senza considerare la mia soddisfazione personale immediata, imparare a esaminare e relativizzare gli appetiti e le fantasie che si manifestano in me - ciò significa consentire a Dio di essere Dio, e quindi consentire che la preghiera di Cristo, la relazione di Dio con Dio stesso, prenda vita dentro di me. Invocare lo Spirito Santo significa chiedere alla terza persona della Trinità di penetrare il mio spirito portando quella luce di cui ho bisogno per vedere fino a che punto sono schiavo dell’avidità e delle fantasie, donandomi pazienza e quiete mentre la luce e l’amore di Dio penetrano nella mia vita interiore. Solo quando ciò comincerà ad accadere sarò liberato dal considerare i doni di Dio come un’altra serie di elementi di cui posso appropriarmi per essere felice o dominare altre persone. E a mano a mano che si svolge questo processo, divento sempre più libero - per prendere a prestito una frase di Sant’Agostino - di “amare gli altri in modo umano”(Confessioni IV, 7), di amarli non per ciò che mi promettono, di amarli non perché mi aspetto che mi procurino sicurezza e benessere durevoli, ma come fragili creature che, come me, sono sostenute dall’amore di Dio. Come ho già detto, scopro la maniera in cui devo guardare altre persone e cose per ciò che sono in relazione a Dio, non a me. Ed è qui che, come il vero amore, l’autentica giustizia trova le sue radici.
11. Il volto umano che i cristiani desiderano mostrare al mondo è contrassegnato da questa giustizia e da questo amore, ed è quindi un volto modellato dalla contemplazione, dalla disciplina del silenzio e dal distacco di sé dagli oggetti che lo schiavizzano e dagli istinti incontrollati che lo possono trarre in inganno. Se l’evangelizzazione consiste nel mostrare “senza veli” al mondo il volto umano che riflette il volto del Figlio rivolto verso il Padre, allora deve accompagnarsi a un impegno serio per la promozione di tale preghiera e di tali pratiche. Non dovrebbe essere necessario dire che ciò non equivale affato ad affermare che una trasformazione “interiore” è più importante dell’azione a favore della giustizia; anzi, è una maniera di insistere sul fatto che la chiarezza e l’energia di cui abbiamo bisogno per fare giustizia ci richiede di lasciare spazio alla verità, affinché la realtà di Dio possa emergere. Altrimenti la nostra ricerca della giustizia o della pace si trasforma in un altro esercizio della volontà umana, insidiato dalla nostra umana capacità di ingannare noi stessi. Le due vocazioni sono inseparabili, la vocazione alla “preghiera e alla azione giusta”, come disse il martire protestante Dietrich Bonhoeffer, scrivendo dalla sua cella nel 1944. La preghiera autentica purifica il motivo, la vera giustizia è l’opera indispensabile di condividere e di liberare negli altri quell’umanità che abbiamo scoperto nel nostro incontro contemplativo.
12. Coloro che conoscono poco le istituzioni e le gerarchie della Chiesa (e se ne curano ancora di meno), attualmente si sentono spesso attratti e sfidati da esistenze che ne manifestano alcuni aspetti. Proprio le comunità religiose nuove e rinnovate sono quelle che raggiungono con maggiore efficacia coloro che non hanno mai conosciuto la fede o che l’hanno abbandonata come qualcosa di vuoto o di stantio. Quando la storia cristiana dei nostri tempi verrà scritta in una prospettiva prevalentemente (anche se non esclusivamente) europea e nordamericana, ci renderemo conto del ruolo centrale e vitale di luoghi come Taizé oppure Bose, ma anche di comunità più tradizionali, che sono diventate punti nodali per l’esplorazione dell’umanità in un senso più ampio e più profondo di quanto chiedono le abitudini sociali. E le grandi reti spirituali, come Sant’Egidio, i Focolari, Comunione e Liberazione mostrano a loro volta lo stesso fenomeno: sono aperte a una visione umana più profonda poiché tutte, ciascuna a modo suo, offrono una disciplina di vita personale e comune il cui scopo è far sì che la realtà di Gesù diventi viva in noi.
13. E, come mostrano questi esempi, l’attrazione e le sfide di cui parliamo possono produrre impegni ed entusiasmi che oltrepassano le frontiere confessionali storiche. Ormai ci siamo abituati a parlare dell’importanza decisiva dell’“ecumenismo spirituale”; ma ciò non deve trasformarsi in una maniera di opporre ciò che è spirituale e ciò che è istituzionale, né di sostituire agli impegni specifici un generico senso di comprensione cristiana. Se ci confrontiamo con una definizione salda e ricca di ciò che significa il termine stesso “spirituale”, definizione fondata su prospettive scritturistiche come quelle tratte dai passi di 2 Corinzi di cui abbiamo parlato, intenderemo l’ecumenismo spirituale come una ricerca condivisa per promuovere e per sviluppare discipline di contemplazione con la speranza di svelare il volto della nuova umanità. E quanto più ci distanziamo gli uni dagli altri in quanto cristiani, tanto più quel volto apparirà meno convincente. Poco fa ho ricordato il Movimento dei Focolari: ricorderete che l’imperativo fondamentale nella spiritualità di Chiara Lubich era di “diventare una cosa sola”, una cosa sola con il Cristo crocifisso e abbandonato, una cosa sola, per mezzo di lui, con il Padre, una cosa sola con tutti coloro che sono stati chiamati a questa unità e, in tal modo, una cosa sola con i bisogni più profondi del mondo. “Coloro che vivono l’unità ... la vivono lasciandosi sempre più penetrare in Dio. Diventano sempre più vicini a Dio ... e quanto più si avvicinano a lui, tanto più sono vicini ai cuori dei loro fratelli e sorelle” (Chiara Lubich, Essential Writings, p. 37). L’abitudine alla contemplazione ci spoglia da una sconsiderata sensazione di superiorità nei confronti degli altri battezzati e dal pregiudizio che nulla abbiamo da imparare da loro. Nella misura in cui l’abitudine alla contemplazione ci aiuta ad avvicinare qualsiasi esperienza come un dono, dovremmo chiederci costantemente cosa un fratello o una sorella possono condividere con noi, anche quando il fratello o la sorella sono in un modo o nell’altro separati da noi oppure da ciò che consideriamo come la pienezza della comunione. “Quam bonum et quam iucundum”.
14. In pratica, ciò può suggerire che ogni volta che si avviano iniziative per raggiungere in maniere nuove i cristiani caduti oppure un pubblico postcristiano, ci deve essere un serio lavoro previo su come questa azione possa essere fondata su una prassi contemplativa condivisa in maniera ecumenica. Oltre alla sorprendente maniera in cui Taizé ha sviluppato una “cultura” liturgica internazionale accessibile a molte persone di provenienze molto diverse, una rete come la World Community for Christian Meditation, con le sue forti radici e affiliazioni benedettine, ha aperto prospettive nuove in questo senso. Anzi, questa comunità si è impegnata molto per rendere le pratiche contemplative alla portata dei bambini e dei giovani: e questo è un fatto degno del nostro più forte incoraggiamento. Avendo osservato personalmente, nelle scuole anglicane in Gran Bretagna, con quanto fervore i bambini possono rispondere all’invito offerto dalla meditazione in questa tradizione, sono convinto che è veramente molto grande il suo potenziale per far conoscere ai giovani gli aspetti più profondi della nostra fede. E per coloro che si sono allontanati dalla frequentazione regolare della fede sacramentale, i ritmi e le pratiche di Taizé o della WCCM indicano spesso una via di ritorno verso questo cuore e questo focolare sacramentali.
15. Ciò che la gente di ogni età riconosce in queste pratiche è, semplicemente, la possibilità, di vivere in maniera più umana: vivere con un desiderio meno marcato di possedere, vivere con uno spazio di quiete, vivere nell’attesa di apprendere e, soprattutto, vivere con la consapevolezza che esiste una gioia salda e durevole che va scoperta in quella disciplina del dimenticare se stessi che è ben diversa dalla gratificazione di questo o di quell’impulso momentaneo. Se la nostra evangelizzazione non riesce ad aprire la porta a tutto ciò, rischierà di cercare di far poggiare la fede sul fondamento di un insieme non trasformato di abitudini umane ... e il risultato ben noto sarà che la Chiesa apparirà disgraziatamente altrettanto ansiosa, affaccendata, competitiva e dominante quanto molte altre istituzioni puramente umane. In un senso molto importante, un’autentica iniziativa di evangelizzazione sarà sempre anche una nuova evangelizzazione di noi stessi come cristiani, una riscoperta del motivo per cui la nostra fede è diversa, perché trasfigura; insomma, un ripristino della nostra nuova umanità.
16. E ovviamente ciò succede in maniera più efficace quando non lo pianifichiamo né lottiamo per ottenerlo. Per citare ancora una volta de Lubac: “Colui che meglio risponderà ai bisogni del suo tempo sarà qualcuno il cui primo scopo non era di rispondervi” (op. cit., pp. 111-2); e: “Colui che, nella dimenticanza di se stesso, cerca la sincerità invece della verità è come colui che cerca di essere distaccato invece di aprire se stesso all’amore” (p. 114). Il nemico di qualsiasi proclamazione del Vangelo è la consapevolezza di se stessi e, per definizione, non possiamo superare questo fatto diventando ancora più consapevoli di noi stessi. Dobbiamo ritornare a Paolo e chiederci: “Dove stiamo guardando?”. Guardiamo con ansia ai problemi di oggi, alle varie maniere che assume l’infedeltà o in cui vengono minacciate la fede e la morale, alla debolezza dell’istituzione? Oppure, cerchiamo di guardare verso Gesù, il volto senza veli dell’immagine di Dio alla luce del quale vediamo l’immagine che si riflette ancora in noi e nel nostro prossimo?
17. Tutto ciò ci ricorda semplicemente che l’evangelizzazione è sempre una sovrabbondanza di qualcos’altro: l’itinerario del discepolo verso la maturità in Cristo, un itinerario non organizzato da un io ambizioso, ma il risultato degli impulsi e delle spinte dello Spirito in noi. Nelle nostre riflessioni su come fare affinché il Vangelo di Cristo torni ancora una volta a essere irresistibilmente attraente per gli uomini e per le donne del nostro tempo, spero che non perderemo mai di vista ciò che lo rende attraente per noi, per ognuno di noi nei nostri vari ministeri. Quindi, vi auguro ogni gioia in queste discussioni; non semplicemente chiarezza oppure efficacia nella pianificazione, ma gioia nella promessa della visione del volto di Cristo e nella prefigurazione della pienezza nella gioia della comunione degli uni con gli altri qui e adesso.

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Di seguito un articolo scritto dai monaci di Bose che relaziona sulla visita dell'Arcivescovo di Canterbury alla Comunità.

Lo scorso mese di settembre la nostra comunità ha vissuto un momento di particolare grazia ricevendo la visita dell’arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione anglicana Rowan Williams, accompagnato dal can.Jonathan Goodall, suo assistente per le relazioni ecumeniche e anch’egli amico della nostra comunità, alla presenza anche del can. David Richardson, rappresentante dell’arcivescovo di Canterbury presso la santa Sede e direttore del Centro anglicano di Roma. Nonostante i suoi impegni ancora numerosi in questi mesi immediatamente precedenti la fine del suo ministero, l’arcivescovo ha risposto prontamente e con gioia al nostro invito a trascorrere due giorni con noi, occasione per celebrare con lui l’amicizia nata e cresciuta negli anni e per manifestargli il nostro grande riconoscimento per il ministero episcopale svolto in questi ultimi dieci anni a servizio dell’unità all’interno della Comunione anglicana e, più in là, a servizio di tutte le chiese. 
Sabato 15 settembre l’arcivescovo ha presieduto i primi vespri nella nostra chiesa monastica e alla sera ha avuto con la comunità un incontro fraterno in cui, rispondendo ad alcune domande, ha accennato a diverse questioni, nello stile evangelico, franco e dialogico al contempo, che lo contraddistingue. Parlando della chiesa, che ha definito “lo spazio di coloro che riconoscono di non avere altra dimora se non nell’amore reciproco”, egli ha sottolineato l’urgenza di raccogliere la sfida per offrire “un’immagine più globale di umanità”, diventando “in maniera autentica una comunità più eucaristica”; solo così – ha detto – i cristiani, “afferrati dall’amore di Dio più che da atti propri”, sapranno rispondere a “Dio che chiede parole nuove per situazioni nuove”. Parlando del suo ministero di comunione, ha evidenziato come la sofferenza maggiore sia stata per lui la consapevolezza della divisione all’interno della Comunione anglicana, e come invece la gioia più grande sia stata il vedere, nelle parrocchie, semi di vita nuova, forme di vita evangelica comunitaria più rispondenti alle necessità dell’uomo e della società di oggi. Parlando infine della spiritualità cristiana, l’arcivescovo ha sottolineato come essa debba assumere la forma di quella che ha definito “spiritualità della vulnerabilità”, e come la vita contemplativa e monastica possano esplicitare al meglio, di fronte all’umanità, questa spiritualità “in modo vulnerabile, autentico e gioioso”.

Domenica 16 settembre è stato il momento, fortemente desiderato, di più profonda e sentita celebrazione della storia di fraternità, amicizia e comunione tra l’arcivescovo Rowan e la nostra comunità. In unconfronto pubblico, alla presenza di numerosi ospiti, il priore di Bose Enzo Bianchi ha innanzitutto espresso, con toni di profonda gratitudine al Signore e di vero affetto per l’arcivescovo Rowan, tutto il nostro riconoscimento per la comunione vissuta con lui in questi anni, fin dalla sua prima sosta a Bose nel gennaio 2002 in preparazione all’insediamento sulla cattedra di Canterbury, una comunione nutrita da tanti e ripetuti segni di vicinanza, che “ci hanno aperto gli occhi e il cuore affinché conoscessimo e amassimo sempre più la via anglicana alla sequela di Gesù”.
Questa assiduità di relazioni fraterne si è intessuta attraverso le sue soste regolari per tempi di silenzio e di preghiera in gennaio, la sua partecipazione al Convegno su Thomas Merton nel 2004, l’invio di un suo delegato e di messaggi fraterni in occasione di tutti i nostri Convegni di spiritualità ortodossa e di liturgia, il contributo offerto al Simposio sul Martirologio ecumenico nel 2008, l’invito a un nostro fratello a partecipare nello stesso anno alla Conferenza di Lambeth, l’assemblea decennale dei vescovi della Comunione anglicana, la sua  visita alla nostra Fraternità di San Masseo in occasione dell’incontro interreligioso di  Assisi lo scorso 27 ottobre, e inoltre della possibilità offertaci di pubblicare in italiano diverse sue opere. Tutto questo – ha sottolineato fr. Enzo – “ha contribuito a incrementare non solo la stima per il pensiero di un grande teologo, profondamente radicato nella Scrittura e nei padri della Chiesa indivisa, ma anche la conoscenza della sua sollecitudine pastorale e del suo desiderio di trovare lo stile più adatto per l’annuncio del Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
Fr. Enzo ha anche in sintesi delineato, per i presenti, l’esemplarità del ministero svolto dall’arcivescovo Rowan in questi dieci anni: “Un costante sforzo di perseguire l’unità attraverso la conciliazione di opinioni diverse, la capacità di ascoltare l’altro e comprenderne le ragioni anche quando contrastano con le proprie convinzioni, la disponibilità a mettere da parte alcuni aspetti dei propri orientamenti teologici per non impedire la prosecuzione del dialogo, lo sforzo di ricondurre costantemente il dibattito nel suo alveo di ricerca di una maggiore obbedienza al Vangelo e alle sue esigenze radicali, il faticoso equilibrio tra responsabilità di chi presiede e pratica concreta della sinodalità, l’uso evangelico della potestà di sciogliere e legare, la costante dialettica tra giustizia e misericordia”.
Nel suo breve ma intenso intervento, cui sono seguite alcune domande da parte degli ospiti presenti, l’arcivescovo ha innanzitutto ricordato l’origine della sua storia di comunione con la nostra comunità: “Fin dalla mia prima visita dieci anni fa, ho trovato a Bose un’atmosfera, uno stile di vita cristiana, una visione della vita comune sotto l’autorità del Vangelo che per me sono risultati immediatamente attraenti, potenti, riconoscibili e arricchenti”. Poi ha sintetizzato la propria esperienza e la propria visione teologica sul tema del “Ministero di comunione e di unità”.

La Parola del Vangelo crea una nuova umanità in cui nessuno è più “straniero”, in cui tutti sono fatti “uno” perché nutriti dallo stesso cibo: “Questo – ha detto l’arcivescovo – il fondamento dell’unità della Chiesa, che non è semplicemente questione istituzionale, né questione di dire tutti la stessa cosa, ma è questione di riconoscere l’umanità gli uni negli altri”. Questo significa che “un aspetto del ministero di unità è di aiutare i cristiani a riconoscersi gli uni gli altri, di scoprire e illuminare per i cristiani la verità che il prossimo è nutrito dal medesimo cibo, la medesima verità di Cristo; un ministero che cerca sempre di aiutare a scoprire l’umanità del prossimo nel corpo di Cristo e persino oltre il corpo di Cristo, riconoscendo l’umanità che Dio ama e che Dio desidera trasfigurare”. 
Un secondo aspetto – ha ricordato l’arcivescovo – è che “il ministero di unità non guarda indietro, bensì in avanti; non è una sorta di nostalgia per un’unità perduta molto tempo fa, bensì un’appassionata testimonianza di speranza per un’unità che deve ancora realizzarsi e che è nelle mani di Dio … Un ministero di comunione innovativo è quello che dice: ‘Possiamo essere ancora più profondamente insieme, possiamo ancora riconoscerci con più amore e con più gratitudine, possiamo essere condotti, nella nostra umanità, ancora più profondamente in quella reciproca gioia che Dio desidera’ … E quest’unità non deriva dai nostri sforzi, dai nostri accordi, dalle nostre contrattazioni, ma dal pane vivo che è Gesù Cristo”. L’arcivescovo Rowan ha infine concluso il suo intervento riconoscendo l’importante ministero di riconciliazione che hanno le nuove comunità monastiche: “La vita di una comunità che quotidianamente e intensamente vive della Parola di Dio nella meditazione, nella preghiera e nei sacramenti diviene un segno che ricorda che cosa deve essere la Chiesa. Bose per me ha realizzato questa funzione, e perciò sono riconoscente a Dio per questo, per voi”.
La festa di ringraziamento si è poi naturalmente prolungata nel ringraziamento al Signore celebrato con l’eucaristia. Presieduta dall’arcivescovo Joseph Tobin, segretario della congregazione per i religiosi e amico dell’arcivescovo Rowan, e concelebrata dal vescovo di Pinerolo Pier Giorgio Debernardi, delegato per l’ecumenismo della conferenza episcopale piemontese, e dal vescovo emerito di Biella Massimo Giustetti,l’eucaristia è stata un’ulteriore, preziosa occasione per ricevere in dono, al momento dell’omelia, altro nutrimento spirituale nelle parole dell’arcivescovo Rowan.