lunedì 15 ottobre 2012

Virtù nuove ed antiche



Traggo da “Il Sole 24 Ore” di ieri, domenica 14 ottobre 2012, a firma del Cardinale Gianfranco Ravasi.
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Alcuni anni fa, giunto alla fine di un testo che avevo centrato sul settenario delle virtù classiche (la
triade "teologale" fede - speranza - carità e la tetrade "cardinale" etica: prudenza - giustizia -
fortezza - temperanza), mi sono posto l'interrogativo sollevato da non pochi moralisti: ci sono virtù
"moderne" oltre la costellazione delle tradizionali? In verità il più delle volte si tratta di nuove
declinazioni delle antiche. Un esempio per tutti: tolleranza, solidarietà, dialogo, rispetto dei diritti
umani e della privacy sono semplicemente corollari della carità. Similmente trovano una loro
collocazione in quel sistema settenario la semplicità, la modestia, l'umiltà, la cortesia, la pazienza, la
sincerità, il coraggio e così via.
Ebbene, proprio a questi volti più o meno inediti delle virtù sono dedicati alcuni volumi che
vorremmo ora raccogliere sotto il denominatore comune della moralità virtuosa. Partiamo proprio
da quel coraggio che - come diceva il povero don Abbondio manzoniano - uno se non ce l'ha, non se
lo può dare. In verità è possibile a tutti secernere dal proprio animo questa virtù: lo insegnano in un
libro molto didascalico e didattico (tutto a schemi, riquadri, elenchi, diagrammi) tre autrici di
matrice psico-educativa che pongono appunto le loro pagine all'insegna del titolo La pedagogia del
coraggio. La barriera più alta da scavalcare è "la grande Paura" per eccellenza, radice sotterranea di
ogni altra, cioè quella della morte. Woody Allen scherzava ma non troppo quando diceva: «Non ho
paura di morire. È solo che non vorrei essere lì quando questo succede».
Il sorriso, effettivamente, come il gioco e l'arte (ma potremmo aggiungere anche la fede), è uno dei
vaccini da assumere, così come lo è l'essere presi in cura (leggi: amàti) da un altro. In filigrana al
coraggio s'intravede, allora, sia la virtù cardinale della fortezza sia quella teologale della carità.
Coraggio che non deve scadere in incoscienza, anche perché il vecchio Baldassar Castiglione
insegnava al suo "cortegiano" che «molte volte più nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono
i coraggiosi». C'è, infatti, un coraggio talmente retorico da sconfinare nell'arroganza. Ecco, allora, la
necessità di un'altra virtù spesso ignorata e fin calpestata, il rispetto, al quale un teologo
benedettino tedesco, Mauritius Wilde, dedica un bel ritratto dai molteplici lineamenti.
Si deve rispettare se stessi, gli altri, il creato; c'è il rispetto tra le generazioni diverse, a scuola,
nell'educazione, sul lavoro; c'è il rispetto dell'avversario e, alla fine, di Dio. Se vogliamo ricorrere a
un sinonimo, dovremmo dire - con l'antico linguaggio biblico -che il rispetto è «il timor di Dio,
principio di sapienza». Il timore, infatti, non è paura, ma consapevolezza della dignità dell'altro, è
stima, è attenzione e riguardo. Bacon nei suoi Essays non esitava a considerare il rispetto come «il
freno principale di tutti i vizi, dopo la religione». Una virtù, ahimè, messa in fuga ai nostri giorni
dall'insolenza, dall'impertinenza, dalla prevaricazione, dall'indecenza. Anche in questo caso
potremmo risalire a una matrice generativa: il coraggio è un corollario di due delle virtù classiche
cardinali, la prudenza e la temperanza.
Alla temperanza potremmo ricondurre anche una mirabile esperienza umana, il silenzio eloquente.
Nella fede come nell'amore, i silenzi sono infatti più incisivi delle parole: non per nulla
"mistero/mistica" derivano dal verbo greco myein che significa "tacere", tener chiuse le labbra,
mentre due innamorati, esaurito l'arsenale delle parole più dolci ed efficaci, si fissano muti negli
occhi in un linguaggio ineffabile. A questa realtà - che il profeta Elia aveva sperimentato al Sinai
quando Dio si era reso percepibile in una qôl demamah daqqah, in una «voce di silenzio sottile»
(1Re 19,12) - il filosofo catalano Francese Torralba Roselló consacra un saggio stupendo, posto
all'insegna di un'intuizione folgorante di Henry de Montherlant: «Sono rare le parole che valgono
più del silenzio», sulla scia del precetto pitagorico secondo il quale il sapiente infrange il silenzio
solo quando ha da dire una cosa più importante del silenzio.
Il paradosso è che per comprendere il silenzio bisogna esprimerlo e compararlo alla parola.
Naturalmente qui è di scena il silenzio "bianco" che, come quel colore, è la sintesi dello spettro
cromatico, è "espressione inespressa", dotata di una sua semantica, e quindi da usare come se fosse
un linguaggio trascendente. Un linguaggio che la cultura contemporanea ha smarrito nella sua
grammatica: l'esilio del silenzio lo ha reso fonte di paura, anche perché esso ti costringe a un
Weg zum Denken, a un "cammino nel pensiero", per usare una locuzione heideggeriana, anzi a un
itinerario nella coscienza e nell'interiorità. Le pagine di Torralba, intessute di rimandi al pensiero
contemporaneo, procedono attraverso tutte le forme dell'umana espressività, dalla parola al gesto,
dal grido al pianto e al balbettio, per ascendere sino alla vetta del silenzio che si rivela come un
orizzonte dai mille profili.
C'è, infatti, il silenzio epidermico, che è mera assenza di comunicazione esterna e come tale è
"nero" ed è spontaneamente colmato con l'eccesso verbale e fonetico (la discoteca insegna), ma c'è
anche il silenzio interiore, c'è quello ostinato ma c'è anche il silenzio della pienezza, che si sfrangia
in tante iridescenze: il silenzio etico, estetico, compassionevole, creativo, mistico, ascetico,
liturgico, del neonato e della morte. Si accosta, però, anche il silenzio imposto, massificato,
crudele... Un testo di parole, quello di Torralba, ma capace di generare un silenzio supremo, dotato
di un fascino irresistibile, vera e propria catarsi dalla nebbia della chiacchiera e del rumore.
Sulla scia di questa straordinaria lezione del filosofo catalano, è da segnalare un'analisi parallela che
vede in azione autori diversi di grande finezza intellettuale e spirituale. Il titolo dell'opera dice già
tutto, Solitudine: deserto o giardino? Naturalmente qui l'accento cade sul secondo profilo per il
quale la solitudine è una dieta dell'anima che, libera e pura, passeggia nel giardino di Dio. Ma c'è
anche l'altro volto, quello dell'isolamento che il Creatore sana all'origine, dando la donna all'uomo
come una compagna che "gli stia di fronte" (kenegdô nell'ebraico di Genesi 2,18.20). Un isolamento
che diventa "il campo da gioco di Satana", come suggeriva Nabokov in Fuoco pallido. Ma è a
Emily Dickinson che gli autori del volume lasciano la prima parola: «C'è una solitudine dello
spazio, / una solitudine del mare, / una solitudine della morte, / ma queste non sarebbero che una
folla/ comparata a quel luogo profondo, / quella polare segretezza, / di un'anima ammessa al proprio
cospetto. / Finita Infinità».

Cristina Voglino, Giovanna Corni, Maria Varano, La pedagogia dei coraggio, Claudiana, Torino,
pagg. 2" € 14,90
Mauritius Wilde, Rispetto. L'arte della stima reciproca, Messaggero, Padova, pagg. 96, € 9,50
Francese Torralba Roselló, Volti del silenzio, Qiqajon, Bose (BI), pagg.198, €18,00
Enzo Bianchi, Christian Bobin, Xavier Lacroix e AA.VV., Solitudine: deserto o giardino?, Qiqajon, Bose
(BI), pagg. 174, € 15,00