mercoledì 2 settembre 2015

Dalla parte delle donne



(Adriano Prosperi) In occasione del prossimo Giubileo della Misericordia, papa Francesco scrive di aver «deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sacerdoti per l’Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono».
Questo è quanto si legge in una lettera a monsignor Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. È una misura speciale, che spicca insieme ad alcune altre — una tregua coi lefebvriani, un’offerta di amnistia dei peccati ai carcerati, auspicio — pensiamo — di una svolta simile nell’uso insensato e criminogeno dell’istituzione carceraria. Questa lettera complica e arricchisce il disegno generale proposto mesi fa con la bolla di indizione Misericordiae vultus . Là si parlava di un corpo speciale di “missionari della misericordia”, sacerdoti col potere di assolvere da ogni peccato. Ma ora si estende a ogni confessore il potere finora riservato ai vescovi, di assolvere dal peccato di aborto e dalla scomunica che comporta.
Non è la prima volta che questo Papa mostra quale uso si possa fare ai nostri tempi della storica strategia gesuitica della confessione come momento della misericordia accogliente e non della condanna severa. Ma il passo della lettera a monsignor Fisichella sulla questione dell’aborto introduce una variante non piccola e merita speciale attenzione.
Ora forse qualcuno penserà che papa Francesco abbia proclamato il “libero aborto in libera Chiesa”. Non è così. L’intreccio fra rispetto della tradizione dottrinale e innovative aperture strategiche è un tratto ormai abituale della predicazione di questo pontefice. La dottrina tradizionale papa Francesco l’aveva ribadita nell’udienza del 15 novembre 2014 ai ginecologi cattolici. Allora usò parole severissime contro l’eliminazione di esseri umani «soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli», i bambini non nati, i vecchi e malati. Ma — attenzione — non li condannò come peccati ma come esito sociale obbligato di quella che definì «cultura dello scarto», vale a dire il distorto funzionamento della società dei consumi, il conflitto radicale fra ricchezza e povertà estreme che sperimentiamo oggi nel mondo.
Allora usò immagini toccanti: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito — disse — ha il volto del Signore che prima ancora di nascere... ha sperimentato il rifiuto del mondo». Certo, pensare che cosa sarebbe accaduto nel mondo e del mondo se Gesù non fosse nato o fosse stato ucciso subito dopo la nascita è effettivamente meditare su di una controfattualità storica assai impegnativa, una vera fantascienza. Ma non c’è bisogno di essere cristiani e cattolici per capire come il volto ordinario dell’esperienza dell’aborto possa essere il pensare al figlio che si sta per rifiutare come un possibile messia, un portatore di salvezza anche solo nel privato ambito dei propri affetti.
Di fatto la lettera a monsignor Fisichella segna un passaggio importante nello stile proposto al corpo ecclesiastico e ai suoi figli obbedienti perché lo adottino da ora in poi, nei tempi corti del Giubileo e in quelli lunghi del futuro: qui c’è l’invito a chiudere l’epoca della faccia feroce, della guerra indetta da singoli, associazioni, partiti e Stati contro le donne e contro i medici che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. È una guerra antica che ha conosciuto secoli di scontri fra le donne e una Chiesa spalleggiata dagli Stati, quando gli aborti si praticavano di nascosto coi ferri da calza e spesso portavano a morte madre e figlio.
Questa guerra ha una precisa data di nascita, non è coetanea col cristianesimo e con la storia della Chiesa cattolica come immaginano i fanatici: è bene tenerlo presente perché com’è nata può anche terminare. Per secoli la dottrina e la pratica della confessione hanno oscillato in materia, colpendo con la scomunica solo l’aborto del feto già formato, uno stadio che si credeva atteso da Dio per insufflare nel corpo l’anima immortale. Era un peccato contro la vita eterna dell’anima immortale del non nato, condannata così a stazionare eternamente nel Limbo, nei pressi dell’Inferno.
Solo in tempi recenti si è formata la dottrina che definisce l’aborto un peccato puramente e semplicemente contro la vita: una svolta copernicana per la Chiesa, diventata così una forza schierata a difesa di questa terrena esistenza come pozione da sorbire sempre e comunque e fino in fondo, e determinata a usare tutta la sua influenza per impedire ogni forma di uscita anzitempo dal mondo — il suicidio, l’eutanasia. Perciò in Italia bisognava andare all’estero per abortire, così come oggi bisogna andare all’estero per morire: scelte di classe tutt’e due. Quanto all’aborto, una volta che con libera scelta referendaria gli italiani hanno voltato le spalle ai secoli dell’ortodossia obbligatoria e della guerra dei poteri ecclesiastici contro la donna, è cominciata la fase di guerra fredda: scontri pubblici, astuzie di medici “obiettori” che praticavano in segreto a caro prezzo quello che si rifiutavano di fare nell’ospedale, interventi normativi per rendere quella scelta già così dolorosa un calvario (sempre che si possa usare questa parola cristiana per il percorso di chi ha voluto abortire da noi).
Oggi papa Francesco guarda al mondo intero, alla disperata condizione dei poveri, all’esodo morale e religioso delle moltitudini dalla Chiesa e decide di spostare il fronte delle urgenze. Vedremo l’esito. Ma intanto va pur detto che uno sguardo altrettanto libero e umano vorremmo vederlo gettare da uno Stato veramente e compiutamente sovrano a tante strozzature civili — matrimonio, scuola, aborto e concepimento, scelta di morire — finora conservate per malintese sintonie coi poteri ecclesiastici.

La Repubblica

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Giuliano Ferrara: “Così la Chiesa rinuncia alla battaglia pro-life”
Repubblica.it
(Paolo Rodari) «La Chiesa cattolica e il Papa hanno tutto il diritto di trovare al proprio interno tempi e modi più opportuni per assolvere il peccato dell’aborto. In questo caso, è chiara la linea della misericordia messa in campo da Francesco. Ciò che tuttavia a mio avviso oggi manca è un discorso culturale forte che sappia rispondere alla sordità del mondo verso l’aborto stesso, un evento considerato ormai dalla stragrande maggioranza della gente un’opzione necessaria».Giuliano Ferrara, ex direttore del Foglio, l’amnistia sull’aborto ordinata da Francesco non la infastidisce?
«Assolutamente no. È nel pieno diritto del Papa amministrare la misericordia come crede. E non ho nessuna imputazione da muovere al pentimento. Il clero, il sacerdozio consacrato, possono risolvere al loro interno, nel segno che il Papa ha scelto della misericordia, la questione. Questa cosa non mi fa nessuno scandalo. Diverso è commisurare questa linea della misericordia a una certa sordità culturale sull’aborto in generale. Questa sordità mi fa più specie. E qui sì auspicherei che la Chiesa e i governi del mondo proponessero azioni concrete per combattere questa piaga, per darle il nome che si merita».
Ritiene che in passato la Chiesa abbia agito diversamente?
«Una legittimazione delle battaglie pro-life, per me opportuna, non viene dalla chiesa di Papa Francesco. Devo però dire, a onor del vero, che in merito anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno agito con una certa sofferenza e titubanza, anche se la loro predicazione andava nella direzione di una difesa esplicita e culturalmente rilevante della vita».
La cosa non avviene con Francesco?
«Il Papa sembra non volersene preoccupare troppo. Credo perché le sue frontiere sono quelle della povertà e delle miserie sociali, frontiere certamente importanti. Egli ritiene che la biogenetica, la bioingegneria, il trattamento strumentale della vita e la sordità verso l’aborto siano caratteristiche del tempo a cui non si può fare una vera e frontale opposizione. E questo non c’entra nulla con la legittimità del perdono conferito a chi abortisce. Sono due piani diversi».
Insomma, il problema di cui parla non è né sacramentale né religioso.
«Esatto. Per me la Chiesa è importante come cattedra di umanità, come luogo che riconosca pubblicamente il portato catastrofico della sentenza “Roe contro Wade” che il 22 gennaio 1973 decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava l’aborto. Da quel momento in poi la libertà di abortire diventò un diritto costituzionale. L’aborto divenne una questione di privacy delle donne, misconoscendo che il permissivismo in materia in materia di omicidio è un qualcosa di critico. La cosa sconcertante è che proprio come cattedra di umanità la Chiesa ha rinunciato a porre la questione da un punto di vista culturale».

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La scelta informale di Francesco, ma la dottrina non cambia 

(Luigi Accattoli) Allargata la facoltà di comprendere, resta la dimensione della «gravità» -- Un testo informale per decisioni forti: la lettera di ieri sull’indulgenza giubilare ha il tono dimesso e nuovo dell’apparizione di Francesco al balcone dopo l’elezione. Come quando scrive ai nuovi cardinali per richiamarli alla sobrietà, o quando dice a braccio ai vescovi italiani che occorre ridurre il numero delle diocesi, così per il «perdono» giubilare (indulgenza vuol dire perdono) dice di più dei predecessori senza ricorrere al latino e senza citare i sacri canoni.
Le decisioni che comunica con un testo in italiano, firmato «Francesco», sono tutte nel segno dell’avvicinamento della Chiesa all’umanità tribolata (donne che hanno abortito, malati, persone sole e anziani, carcerati) e nel segno della semplificazione del linguaggio e delle norme. Ma non è una bolla, non è un motu proprio , non è una «lettera apostolica», esce da tutte le forme della tradizionale decretazione pontificia: è una lettera all’arcivescovo Fisichella, responsabile organizzativo del Giubileo. In pratica, una comunicazione di servizio.
Per l’aborto c’è la scomunica e dunque ordinariamente il confessore dirà alla donna che ha interrotto la gravidanza: non posso assolverti, vai dal vescovo. Già i vescovi potevano concedere a tutti i sacerdoti, negli Anni Santi e in altre occasioni, la facoltà di assolvere quel peccato. Ma qualcuno lo faceva e qualcuno no: con la decisione di ieri il Papa ha dato a quella facilitazione la massima estensione.
«Non dobbiamo porre dogane, dobbiamo essere facilitatori della Grazia», ha detto una volta Francesco. Con questa disposizione non tocca la dottrina sulla gravità del «peccato d’aborto», che qualifica come un atto «profondamente ingiusto», ma vuole che nei mesi del Giubileo si dia un segno più ampio di comprensione per chi ne sia pentito.
Lo stesso per i carcerati: non possono andare in pellegrinaggio, ma forse possono andare alla cappella del carcere, o comunque hanno una porta che chiude la loro cella; ebbene, dice Francesco con un salto simbolico di straordinaria efficacia: ogni volta che passeranno per la porta della cella, «possa questo gesto significare il passaggio della Porta Santa».
Per le carceri Francesco non chiede formalmente «una grande amnistia», pur usando queste parole, ma forse la chiederà prossimamente. Il documento di ieri si limita a ricordare che la tradizione vedeva legati fra loro i giubilei e le amnistie: ieri parlava alla Chiesa, forse un giorno parlerà alle autorità degli Stati, come già Wojtyla nel 2000 e chiederà «un gesto di clemenza».
La lettera di Francesco è il documento papale con meno forma e più sostanza che sia mai stato fatto sul perdono giubilare, che una volta era anche detto «perdonanza». Esso potrebbe anche avere un effetto liberante rispetto allo spinoso tema delle indulgenze, che sono state all’origine della «protesta» di Lutero e che divide oggi gli stessi teologi cattolici tra quanti le ritengono imprescindibili e quanti le vorrebbero abbandonare.
Francesco le propone, ma con tale novità di linguaggio e di contenuti da sottrarle, almeno in parte, alla polemica. Non dice «lucrare» o «acquistare l’indulgenza», come voleva il linguaggio tradizionale, non distingue tra indulgenza parziale o «plenaria», usa la parola indulgenza come sinonimo di «grazia del Giubileo». Insomma riduce ancora, più di quanto non avessero fatto gli ultimi Papi, gli elementi rituali e normativi di questo aspetto della prassi penitenziale cattolica che arriva con il secondo millennio della storia cristiana e che risulta ostica ai cristiani che non appartengono alla Comunione cattolica.
Corriere della Sera