Francesco conversa alla radio Milenium di Buenos Aires. L’amico vero e l’albero di Martín Fierro
(Marcelo Figueroa) [Domenica 13 settembre la radio di Buenos Aires Milenium 106.7, nell’ambito del programma «Diálogos para el encuentro» ha trasmesso l’intervista rilasciata da Papa Francesco al giornalista Marcelo Figueroa, pastore evangelico, direttore per venticinque anni della Società Biblica Argentina. La conversazione si è svolta in Vaticano, nella Casa Santa Marta, lo scorso 25 agosto ed è la prima intervista che il Pontefice ha concesso a una radio indipendente, non confessionale, nel mondo. Pubblichiamo, in una nostra traduzione, le risposte di Francesco e una sintesi delle domande poste dal suo interlocutore.]
Innanzitutto Figueroa ha ringraziato per l’ospitalità.
Grazie a te per avermi invitato a questo dialogo per gli ascoltatori di radio Milenium su un tema che avevo lasciato in sospeso per andare al conclave nella registrazione che avevo fatto con il rabbino Skorka e con te: il tema dell’amicizia (cfr. «L’Osservatore Romano» del 28 agosto 2015, p. 8). Sono rimasto lì, non sono tornato, ho dovuto restituire il biglietto e il tema è restato in sospeso. Bene, parliamone ora.
Ricordando il valore da sempre dato da Bergoglio al concetto di amicizia e l’importanza che esso riveste anche nella Bibbia, la prima domanda è stata: come vive l’amicizia, ora, da Papa?
Che continui come prima. Perché se c’è un’amicizia, questa non cambia perché uno cambia funzione. Non è così? Non ho mai avuto tanti amici, tra virgolette, come ora. Tutti sono amici del Papa. L’amicizia è qualcosa di molto sacro. La Bibbia dice: «Abbi uno o due amici». Prima di considerare qualcuno un amico, lascia che il tempo lo dimostri, vedi come reagisce di fronte a te. Ed è ciò che è successo nella nostra storia. Tu evangelico, io cattolico, lavoriamo insieme per Gesù. Non solo dal punto di vista funzionale, ma anche creando questa amicizia che ha coinvolto pure tua moglie, i tuoi figli. E nella quale ci sono stati anche momenti bui. Non è vero? Come quando sei dovuto passare per quel tunnel dell’incertezza che ti dà una malattia. Lo ammetto, sentivo il bisogno di stare vicino a te, a tua moglie, ai tuoi figli. Perché un amico non è un conoscente, uno con cui passare un buon momento di conversazione. L’amicizia è qualcosa di profondo. Io credo che Gesù ha voluto che nascesse. Al di là della tua battuta che sei “la mia pecora protestante”, c’è questo avvicinamento umano che permette di parlare di cose comuni in modo profondo.
Ringraziando ancora l’amico Pontefice per il gesto (Francesco lo chiamò, preoccupato, il Venerdì santo, poco prima di andare al Colosseo), Figueroa ha sottolineato come l’amicizia vada coltivata proprio nei momenti difficili e come sia difficile incontrare veri amici: la società contemporanea sta sfaldando certi valori profondi.
Dell’amico per interesse parlava già il nostro Martín Fierro: «Fatti amico del giudice e non dargli di che lamentarsi. È sempre bene avere un tronco d’albero ove potere andare a grattarsi». Amicizia interessata: ma che vantaggio posso trarre dall’avvicinarmi a quella persona e diventarne amico... Ciò mi rattrista. E io mi sono sentito usato da persone che si sono presentate come amiche e che forse avevo visto una o due volte nella mia vita, e hanno usato questo fatto a loro vantaggio. Ma l’amicizia interessata è un’esperienza per la quale passiamo tutti. Amicizia è accompagnare la vita dell’altro a partire da un tacito presupposto. In generale le vere amicizie non si esplicitano, nascono e si coltivano. Al punto che l’altra persona entra nella mia vita come preoccupazione, come buon desiderio, come sana curiosità di sapere come sta lei, la sua famiglia, i suoi figli. Ossia si entra a poco a poco.
C’è poi un’altra caratteristica per distinguere la buona amicizia da altre forme di amicizia, che si chiamano così ma che sono cameratismo, e via dicendo. È che con un amico, non ti vedi per molto tempo, a volte passano mesi o persino un anno, ma quando lo incontri è come se lo avessi visto ieri, ti ci ritrovi subito. È una caratteristica molto umana dell’amicizia.
A questo punto si fa riferimento all’amicizia di Dio e al fatto che l’amicizia abbia anche un contenuto spirituale.
Di fatto l’atteggiamento di Dio verso il suo popolo è permeato di affetto paterno, naturalmente, ma anche di amicizia. Non so come possiamo interpretare il fatto che Dio parla a Mosè faccia a faccia, come un amico parla a un altro amico. Cioè: Dio amico di Mosè! Quella capacità di confidargli tutto, i suoi piani, quello che avrebbe fatto.
Richiamando l’amicizia di Dio con Mosè e con Abramo, Figueroa suggerisce un altro aspetto: l’amicizia come fondamentale nelle diverse confessioni di fede. E chiede a Francesco come percepisce l’urgenza dell’incontro, del dialogo e dell’amicizia tra le varie confessioni.
Nella Bibbia c’è una parola dopo la caduta di Adamo ed Eva. Dio dice al serpente: porrò inimicizia tra te e la donna; e poco dopo Caino uccide suo fratello in un atto d’inimicizia. Noi uomini, per il nostro peccato, per la nostra debolezza, fomentiamo la cultura dell’inimicizia. Dalla guerra alle chiacchiere di quartiere, o sul posto di lavoro, dove si denigra, calunnia e diffama l’altro con molta libertà, come se fosse la cosa più naturale, anche se non è vero, pur di avere una posizione più alta o qualche altra cosa. Di fronte alla cultura dell’inimicizia, uscendo da quello che è l’amicizia personale per parlare dell’amicizia sociale, bisogna lavorare per una cultura dell’incontro, ossia di fraternità. Nella Bibbia c’è una scena che inizia con la cultura dell’inimicizia e finisce anni dopo con un incontro d’amore: è la storia di Giuseppe. Giuseppe per gelosia viene venduto dai suoi stessi fratelli. E quando li ritrova casualmente, per il disegno di Dio, dopo tanti anni, si nasconde per piangere, perché dentro di sé prova ancora amore per i suoi fratelli, nonostante lo abbiano venduto. Qui hai un esempio di amore, di amicizia, di cultura dell’incontro: «Io sono Giuseppe, vostro fratello. Come sta nostro padre?».
A tale riguardo, il pastore ha raccolto il suggerimento biblico del Papa e lo ha approfondito rilevando come in quella storia si parli anche di potere e del fatto che alla fine emerga come l’unico giudice delle azioni umane debba essere Dio.
È vero, giudice è solo Dio. A noi piace tantissimo ergerci a giudici. Perché? Per distanziarci. Giudicare l’altro crea distanza, semina distanza. Come quell’uomo della parabola del Vangelo che la notte andò a seminare zizzania, e seminò distanza, seminò inimicizia. E in questa cultura dell’inimicizia che pervade tutto, i nostri gesti e le nostre ricerche devono stare dalla parte dell’amicizia.
«È una responsabilità speciale», ha aggiunto Figueroa, che coinvolge in maniera particolare gli uomini di fede, i quali hanno un ruolo fondamentale nella costruzione della pace.
Nessuna religione è immune ai propri fondamentalismi. In ogni confessione ci sarà un gruppetto di fondamentalisti il cui lavoro è distruggere in nome di un’idea, non di una realtà. E la realtà è superiore all’idea. Dio, sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo, sia nell’islamismo, nella fede di questi tre popoli, accompagna il suo popolo, è una presenza di compagnia. Noi lo vediamo nella Bibbia e gli islamici nel Corano. Il nostro è un Dio vicino, che accompagna. I fondamentalisti allontanano Dio dalla compagnia del suo popolo, lo disincarnano, lo trasformano in un’ideologia. Allora, in nome di questo Dio ideologo, uccidono, attaccano, distruggono, calunniano. In termini più concreti, trasformano questo Dio in un Baal, in un idolo.
Sollecitato dalla riflessione di Francesco, il pastore evangelico ha continuato parlando di un «mondo spiritualmente ferito», di una sorta di «coltre di oscurità che attraversa tutti i settori: sociale, economico e politico. Abbiamo bisogno della luce che viene da Dio».
È un’oscurità trasversale che ci toglie orizzonte, ci chiude in convinzioni, lo dico tra virgolette, in ideologie. È un muro, allora non c’è incontro, cerco sempre nell’altro lo scontro. Creo un muro invece di gettare un ponte e così non può esserci l’amicizia dei popoli.
Riguardo a tutto ciò, Figueroa ha chiesto se il Papa nutre ottimismo.
L’ottimismo è un atteggiamento psicologico, che è sano, è buono. Ci sono momenti in cui sono pessimista. Il problema è se uno ha speranza, e io ho speranza. La speranza non delude. L’ottimismo ti può deludere. Domani ti alzi con male al fegato e sei pessimista. La speranza è sapere che lì c’è la promessa di Dio. È ciò che dice Paolo a Timoteo: se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso; un Dio che è la fedeltà. E per questo spera, soffre, ha pazienza. È bello parlare della pazienza di Dio. È un mistero la pazienza di Dio, come occorre pazienza anche per forgiare una buona amicizia tra due persone. Tempo e pazienza. Come dicono gli arabi: bisogna mangiare tanti chili di sale. Bisogna parlare a lungo, stare insieme, conoscersi, e così si forgia un’amicizia. Quella pazienza nella quale un’amicizia è reale, solida. Perché in quel tempo accadono molte cose a cui bisogna rispondere o con amicizia o con indifferenza.
A questo punto il giornalista ha introdotto nella discussione la figura di Gesù: «Cosa significa oggi l’amicizia con Gesù?».
Nella Cena ha detto loro: io non vi chiamo servi ma amici. Il servo non sa che cosa farà il suo signore, l’amico sì. Cioè ne conosce i segreti. Il che oggi significa lasciarsi chiamare amico da Lui. Perché, di fronte alla parola di Gesù che ti chiama amico, o sei stupido, sciagurato e non capisci cosa significa, o apri il tuo cuore e entri in quel dialogo di amicizia. Gesù scommette molto su questo, perché avrebbe potuto dire il maestro, il dottore, avrebbe potuto dire tanti titoli. No, voi siete miei amici, e io vi ho scelti come amici.
Un’amicizia, quella di Gesù, che il Papa, ha notato Figueroa, sembra voler testimoniare quando si ferma con i fedeli.
Sento il bisogno di avvicinarmi; la vicinanza, la prossimità. A volte ci sono ragazzi che mi commuovono, ci sono malati che mi commuovono, e sento questo bisogno. Una delle ultime volte in piazza, passo e vedo una vecchietta con degli occhi proprio belli. Allora chiedo di fermarci e scendo e le domando: «Nonna, quanti anni hai»? «Novantadue». Era forte, stava lì, dritta. Le dico: «Nonna, perché non mi dai la ricetta»?. «Mangio ravioli e li faccio io!». Che senso dell’umorismo! Che meraviglia! Non dico che quella signora è una mia amica, ma che c’è stato un avvicinamento a una vita. E mi ha segnato, perché mi ha insegnato a sorridere, mi ha insegnato a guardare in modo limpido, mi ha insegnato il senso dell’umorismo.
Ha quindi incalzato Figueroa: «Per questa donna, e per molti altri, questo abbraccio, il tuo sguardo viene interpretato come lo sguardo tenero e l’abbraccio di Gesù».
È che Gesù mi abbraccia in lei. Non do soltanto ma ricevo anche. Non solo la ricetta dei ravioli, ma ricevo una vita contenta, gioiosa, una testimonianza di vita. Io ho bisogno dei fedeli, i fedeli danno a me, danno a me qualcosa della loro vita. A volte quando gridano, quando mi avvicino a salutarli uno per uno e mi raccontano le loro sofferenze, io li accolgo. Il prete deve essere un ponte, perciò si dice pontefice, cioè uno che fa ponti, non uno che si isola. Come quando si isola in un atteggiamento ieratico o legalista, o da principe. E quando dico prete, dico vescovo, Papa. Quando si allontana, in qualche modo incarna quei personaggi ai quali Gesù dedica tutto il capitolo 23 del Vangelo di Matteo. Quei legalisti, farisei, sadducei, dottori della legge che in un certo senso si sentivano “puri”. Quant’è bella quella parabola del Vangelo in cui il fariseo davanti all’altare dice: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini... e neppure come questo pubblicano», che era un povero peccatore. E l’altro diceva: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Che cosa dice Gesù? «Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro». Se un pastore non si avvicina al suo popolo, non solo per dare ma anche per ricevere dal suo popolo, che ha il suo stesso battesimo, ossia la sua stessa identità, non è pastore.
Il ricordo personale dell’arcivescovo che a Buenos Aires passava ore a salutare i fedeli spinge il pastore evangelico a chiedere quanto sia importante l’esempio dato dai capi religiosi.
Non è solo dare l’esempio, è la mia identità. Mi sento prete, e mi viene spontaneo. Se no, non sarei prete, sarei un impiegato della Chiesa. A me viene spontaneo essere prete. Incontrare i fedeli e ascoltare non solo le confidenze dei loro dolori, ma anche i buoni consigli che danno.
Riferendosi al fatto che molti vedono il Papa come un referente mondiale per la pace, e pensano di premiarlo, Figueroa si è chiesto come egli viva tanta considerazione.
So di essere un peccatore, e allora parlo con Gesù e un po’ sorrido: «Quant’è buona la gente, quello che pensa, quant’è buona». Quello che ho di buono lo devo a Lui. Puro regalo, puro dono. Di plagiato non ho nulla, è puro dono.
Sicuramente, ha sottolineato il giornalista, tanta naturalezza nell’avvicinare la gente coinvolge anche i non cattolici.
Un pastore, qualunque sia la sua confessione, non ha limiti. È pastore e basta. E uno deve lottare contro i propri egoismi, anch’io li ho, affinché non annullino quello che Gesù ti chiede, cioè di essere pastore, di stare in mezzo al suo popolo. Nel Vangelo di Gesù si legge che la gente lo apretujaba [in italiano “si accalcava”], usa proprio questo verbo.
Un altro capitolo si apre nel grande tema dell’amicizia. È quello dell’amicizia tra uomo e creato. Naturalmente con riferimento all’enciclica Laudato si’.
È evidente che noi maltrattiamo il creato. Non siamo amici del creato. A volte lo trattiamo come il peggior nemico. Pensa alla deforestazione, al cattivo uso dell’acqua, ai metodi di estrazione dei minerali con elementi come l’arsenico e il cianuro, che poi finiscono col fare ammalare la gente. Dio ci ha dato una incultura perché la rendessimo cultura. Quando dice: crescete e moltiplicatevi, dominate la terra, prendetevene cura! Cioè, un’incultura perché ne facessimo cultura e così è stato con il progredire della civiltà, l’uomo ne ha fatto cultura. Ma è giunto il momento in cui l’uomo non è più colui che ha la missione di fare la cultura, ma si sente padrone. Allora va avanti, senza tener conto di ciò che significa prendersi cura della terra, e la trascura. Trascura il creato per anteporgli i suoi propositi. E allora l’uomo finisce con l’essere il creatore di una seconda incultura. La prima incultura ce la dà Dio perché ne facciamo cultura. Quando io me ne approprio con sufficienza e superbia, al di là dei limiti che la stessa natura mi sta dando, inizio a creare l’incultura.
L’energia atomica è buona. Abbiamo scoperto un’energia che va curata, protetta, ma che non è cattiva in se stessa. Ma quando guardi Nagasaki e Hiroshima, andando settant’anni indietro, vedi che cosa è la cultura trasformata in incultura.
In diverse occasioni ho raccontato la storia di un rabbino medievale, del xiii secolo. Quando ho parlato della Torre di Babele, sicuramente mi avrai sentito raccontarla. Diceva che era un lavoro molto arduo perché bisognava fare i mattoni e per farli bisognava preparare il fango, cercare la paglia, impastarli, e dopo averli impastati, bisognava preparare i mattoni, farli seccare, metterli nel forno, cuocerli, e poi portarli sulla torre. Stavano facendo una cultura, volevano fare una grande torre. Se cadeva un mattone era un disastro e chi lo aveva fatto cadere veniva castigato. Se cadeva un operaio, non succedeva nulla, era morto.
Si è chiesto allora Figueroa come si debba affrontare un sistema tanto perverso da degradare non solo la natura, ma l’uomo stesso.
Chiaramente la prima cosa è prenderne coscienza. È un sistema che, per guadagnare denaro, perché dietro a tutto c’è il denaro, il “vitello” è sempre d’oro, l’idolo è d’oro e sta al centro. L’uomo è stato spostato e ora al centro c’è il denaro. Non si tiene conto del creato, e in esso dell’uomo. La schiavitù, il lavoro schiavo, il non prendersi cura del creato, il non prendersi cura del re del creato: ossia, in questo momento, abbiamo un cattivo rapporto con il creato. Mi viene in mente un’espressione molto portegna, non so se appropriata sulla bocca di un Papa: perché nos pasamos de rosca (cioè: superiamo il limite). Non ci prendiamo cura del creato, per poter sfruttare meglio le miniere, tagliamo le foreste per fare la monocoltura, mentre la terra ha bisogno di varie colture. Mi ricordo quando studiavo chimica: tre anni il mais, due l’erba medica, ossia tutto il processo di nitrogenizzazione della terra. Ora monocultura finché la terra non si esaurisce.
Naturalmente il motivo è solo economico, ha commentato l’interlocutore.
Per esempio le dighe idroelettriche che sono state progettate in Amazzonia. L’Amazzonia include vari Paesi, sicché non so in quale Paese, e perciò non parlo male di nessuno. Dighe idroelettriche che però significano uno squilibrio totale nell’ecosistema.
Ancora un cenno all’enciclica dove si legge che «l’ingiustizia non è invincibile»: è troppo tardi o possiamo nutrire speranza?
Ricordo la frase di un dirigente politico molto importante a livello mondiale: «Non si tratta di prendersi cura del creato per formare un mondo migliore per i nostri figli, tanto non ci sarà». Se continuiamo a questo ritmo non ci sarà. Si tratta di prendersi cura del creato in questo momento. Siamo al limite dell’irreversibile, e ciò è tragico. Ma, d’altra parte, non è invincibile perché, anche se si arriva alla catastrofe, credo nella nuova terra e nuovi cieli. Ho speranza e so che il creato sarà trasformato.
Infine Figueroa ha chiesto un messaggio per i radioascoltatori.
Vi ringrazio per aver dedicato parte del vostro tempo ad ascoltare noi due, che non siamo proprio una telenovela divertente. Vi ringrazio per tutto il bene che potete fare nel prendervi cura del creato. Vi chiedo di pregare per me, ne ho bisogno. E di tutto cuore vi auguro che Dio vi benedica.
Grazie a te per avermi invitato a questo dialogo per gli ascoltatori di radio Milenium su un tema che avevo lasciato in sospeso per andare al conclave nella registrazione che avevo fatto con il rabbino Skorka e con te: il tema dell’amicizia (cfr. «L’Osservatore Romano» del 28 agosto 2015, p. 8). Sono rimasto lì, non sono tornato, ho dovuto restituire il biglietto e il tema è restato in sospeso. Bene, parliamone ora.
Ricordando il valore da sempre dato da Bergoglio al concetto di amicizia e l’importanza che esso riveste anche nella Bibbia, la prima domanda è stata: come vive l’amicizia, ora, da Papa?
Che continui come prima. Perché se c’è un’amicizia, questa non cambia perché uno cambia funzione. Non è così? Non ho mai avuto tanti amici, tra virgolette, come ora. Tutti sono amici del Papa. L’amicizia è qualcosa di molto sacro. La Bibbia dice: «Abbi uno o due amici». Prima di considerare qualcuno un amico, lascia che il tempo lo dimostri, vedi come reagisce di fronte a te. Ed è ciò che è successo nella nostra storia. Tu evangelico, io cattolico, lavoriamo insieme per Gesù. Non solo dal punto di vista funzionale, ma anche creando questa amicizia che ha coinvolto pure tua moglie, i tuoi figli. E nella quale ci sono stati anche momenti bui. Non è vero? Come quando sei dovuto passare per quel tunnel dell’incertezza che ti dà una malattia. Lo ammetto, sentivo il bisogno di stare vicino a te, a tua moglie, ai tuoi figli. Perché un amico non è un conoscente, uno con cui passare un buon momento di conversazione. L’amicizia è qualcosa di profondo. Io credo che Gesù ha voluto che nascesse. Al di là della tua battuta che sei “la mia pecora protestante”, c’è questo avvicinamento umano che permette di parlare di cose comuni in modo profondo.
Ringraziando ancora l’amico Pontefice per il gesto (Francesco lo chiamò, preoccupato, il Venerdì santo, poco prima di andare al Colosseo), Figueroa ha sottolineato come l’amicizia vada coltivata proprio nei momenti difficili e come sia difficile incontrare veri amici: la società contemporanea sta sfaldando certi valori profondi.
Dell’amico per interesse parlava già il nostro Martín Fierro: «Fatti amico del giudice e non dargli di che lamentarsi. È sempre bene avere un tronco d’albero ove potere andare a grattarsi». Amicizia interessata: ma che vantaggio posso trarre dall’avvicinarmi a quella persona e diventarne amico... Ciò mi rattrista. E io mi sono sentito usato da persone che si sono presentate come amiche e che forse avevo visto una o due volte nella mia vita, e hanno usato questo fatto a loro vantaggio. Ma l’amicizia interessata è un’esperienza per la quale passiamo tutti. Amicizia è accompagnare la vita dell’altro a partire da un tacito presupposto. In generale le vere amicizie non si esplicitano, nascono e si coltivano. Al punto che l’altra persona entra nella mia vita come preoccupazione, come buon desiderio, come sana curiosità di sapere come sta lei, la sua famiglia, i suoi figli. Ossia si entra a poco a poco.
C’è poi un’altra caratteristica per distinguere la buona amicizia da altre forme di amicizia, che si chiamano così ma che sono cameratismo, e via dicendo. È che con un amico, non ti vedi per molto tempo, a volte passano mesi o persino un anno, ma quando lo incontri è come se lo avessi visto ieri, ti ci ritrovi subito. È una caratteristica molto umana dell’amicizia.
A questo punto si fa riferimento all’amicizia di Dio e al fatto che l’amicizia abbia anche un contenuto spirituale.
Di fatto l’atteggiamento di Dio verso il suo popolo è permeato di affetto paterno, naturalmente, ma anche di amicizia. Non so come possiamo interpretare il fatto che Dio parla a Mosè faccia a faccia, come un amico parla a un altro amico. Cioè: Dio amico di Mosè! Quella capacità di confidargli tutto, i suoi piani, quello che avrebbe fatto.
Richiamando l’amicizia di Dio con Mosè e con Abramo, Figueroa suggerisce un altro aspetto: l’amicizia come fondamentale nelle diverse confessioni di fede. E chiede a Francesco come percepisce l’urgenza dell’incontro, del dialogo e dell’amicizia tra le varie confessioni.
Nella Bibbia c’è una parola dopo la caduta di Adamo ed Eva. Dio dice al serpente: porrò inimicizia tra te e la donna; e poco dopo Caino uccide suo fratello in un atto d’inimicizia. Noi uomini, per il nostro peccato, per la nostra debolezza, fomentiamo la cultura dell’inimicizia. Dalla guerra alle chiacchiere di quartiere, o sul posto di lavoro, dove si denigra, calunnia e diffama l’altro con molta libertà, come se fosse la cosa più naturale, anche se non è vero, pur di avere una posizione più alta o qualche altra cosa. Di fronte alla cultura dell’inimicizia, uscendo da quello che è l’amicizia personale per parlare dell’amicizia sociale, bisogna lavorare per una cultura dell’incontro, ossia di fraternità. Nella Bibbia c’è una scena che inizia con la cultura dell’inimicizia e finisce anni dopo con un incontro d’amore: è la storia di Giuseppe. Giuseppe per gelosia viene venduto dai suoi stessi fratelli. E quando li ritrova casualmente, per il disegno di Dio, dopo tanti anni, si nasconde per piangere, perché dentro di sé prova ancora amore per i suoi fratelli, nonostante lo abbiano venduto. Qui hai un esempio di amore, di amicizia, di cultura dell’incontro: «Io sono Giuseppe, vostro fratello. Come sta nostro padre?».
A tale riguardo, il pastore ha raccolto il suggerimento biblico del Papa e lo ha approfondito rilevando come in quella storia si parli anche di potere e del fatto che alla fine emerga come l’unico giudice delle azioni umane debba essere Dio.
È vero, giudice è solo Dio. A noi piace tantissimo ergerci a giudici. Perché? Per distanziarci. Giudicare l’altro crea distanza, semina distanza. Come quell’uomo della parabola del Vangelo che la notte andò a seminare zizzania, e seminò distanza, seminò inimicizia. E in questa cultura dell’inimicizia che pervade tutto, i nostri gesti e le nostre ricerche devono stare dalla parte dell’amicizia.
«È una responsabilità speciale», ha aggiunto Figueroa, che coinvolge in maniera particolare gli uomini di fede, i quali hanno un ruolo fondamentale nella costruzione della pace.
Nessuna religione è immune ai propri fondamentalismi. In ogni confessione ci sarà un gruppetto di fondamentalisti il cui lavoro è distruggere in nome di un’idea, non di una realtà. E la realtà è superiore all’idea. Dio, sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo, sia nell’islamismo, nella fede di questi tre popoli, accompagna il suo popolo, è una presenza di compagnia. Noi lo vediamo nella Bibbia e gli islamici nel Corano. Il nostro è un Dio vicino, che accompagna. I fondamentalisti allontanano Dio dalla compagnia del suo popolo, lo disincarnano, lo trasformano in un’ideologia. Allora, in nome di questo Dio ideologo, uccidono, attaccano, distruggono, calunniano. In termini più concreti, trasformano questo Dio in un Baal, in un idolo.
Sollecitato dalla riflessione di Francesco, il pastore evangelico ha continuato parlando di un «mondo spiritualmente ferito», di una sorta di «coltre di oscurità che attraversa tutti i settori: sociale, economico e politico. Abbiamo bisogno della luce che viene da Dio».
È un’oscurità trasversale che ci toglie orizzonte, ci chiude in convinzioni, lo dico tra virgolette, in ideologie. È un muro, allora non c’è incontro, cerco sempre nell’altro lo scontro. Creo un muro invece di gettare un ponte e così non può esserci l’amicizia dei popoli.
Riguardo a tutto ciò, Figueroa ha chiesto se il Papa nutre ottimismo.
L’ottimismo è un atteggiamento psicologico, che è sano, è buono. Ci sono momenti in cui sono pessimista. Il problema è se uno ha speranza, e io ho speranza. La speranza non delude. L’ottimismo ti può deludere. Domani ti alzi con male al fegato e sei pessimista. La speranza è sapere che lì c’è la promessa di Dio. È ciò che dice Paolo a Timoteo: se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso; un Dio che è la fedeltà. E per questo spera, soffre, ha pazienza. È bello parlare della pazienza di Dio. È un mistero la pazienza di Dio, come occorre pazienza anche per forgiare una buona amicizia tra due persone. Tempo e pazienza. Come dicono gli arabi: bisogna mangiare tanti chili di sale. Bisogna parlare a lungo, stare insieme, conoscersi, e così si forgia un’amicizia. Quella pazienza nella quale un’amicizia è reale, solida. Perché in quel tempo accadono molte cose a cui bisogna rispondere o con amicizia o con indifferenza.
A questo punto il giornalista ha introdotto nella discussione la figura di Gesù: «Cosa significa oggi l’amicizia con Gesù?».
Nella Cena ha detto loro: io non vi chiamo servi ma amici. Il servo non sa che cosa farà il suo signore, l’amico sì. Cioè ne conosce i segreti. Il che oggi significa lasciarsi chiamare amico da Lui. Perché, di fronte alla parola di Gesù che ti chiama amico, o sei stupido, sciagurato e non capisci cosa significa, o apri il tuo cuore e entri in quel dialogo di amicizia. Gesù scommette molto su questo, perché avrebbe potuto dire il maestro, il dottore, avrebbe potuto dire tanti titoli. No, voi siete miei amici, e io vi ho scelti come amici.
Un’amicizia, quella di Gesù, che il Papa, ha notato Figueroa, sembra voler testimoniare quando si ferma con i fedeli.
Sento il bisogno di avvicinarmi; la vicinanza, la prossimità. A volte ci sono ragazzi che mi commuovono, ci sono malati che mi commuovono, e sento questo bisogno. Una delle ultime volte in piazza, passo e vedo una vecchietta con degli occhi proprio belli. Allora chiedo di fermarci e scendo e le domando: «Nonna, quanti anni hai»? «Novantadue». Era forte, stava lì, dritta. Le dico: «Nonna, perché non mi dai la ricetta»?. «Mangio ravioli e li faccio io!». Che senso dell’umorismo! Che meraviglia! Non dico che quella signora è una mia amica, ma che c’è stato un avvicinamento a una vita. E mi ha segnato, perché mi ha insegnato a sorridere, mi ha insegnato a guardare in modo limpido, mi ha insegnato il senso dell’umorismo.
Ha quindi incalzato Figueroa: «Per questa donna, e per molti altri, questo abbraccio, il tuo sguardo viene interpretato come lo sguardo tenero e l’abbraccio di Gesù».
È che Gesù mi abbraccia in lei. Non do soltanto ma ricevo anche. Non solo la ricetta dei ravioli, ma ricevo una vita contenta, gioiosa, una testimonianza di vita. Io ho bisogno dei fedeli, i fedeli danno a me, danno a me qualcosa della loro vita. A volte quando gridano, quando mi avvicino a salutarli uno per uno e mi raccontano le loro sofferenze, io li accolgo. Il prete deve essere un ponte, perciò si dice pontefice, cioè uno che fa ponti, non uno che si isola. Come quando si isola in un atteggiamento ieratico o legalista, o da principe. E quando dico prete, dico vescovo, Papa. Quando si allontana, in qualche modo incarna quei personaggi ai quali Gesù dedica tutto il capitolo 23 del Vangelo di Matteo. Quei legalisti, farisei, sadducei, dottori della legge che in un certo senso si sentivano “puri”. Quant’è bella quella parabola del Vangelo in cui il fariseo davanti all’altare dice: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini... e neppure come questo pubblicano», che era un povero peccatore. E l’altro diceva: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Che cosa dice Gesù? «Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro». Se un pastore non si avvicina al suo popolo, non solo per dare ma anche per ricevere dal suo popolo, che ha il suo stesso battesimo, ossia la sua stessa identità, non è pastore.
Il ricordo personale dell’arcivescovo che a Buenos Aires passava ore a salutare i fedeli spinge il pastore evangelico a chiedere quanto sia importante l’esempio dato dai capi religiosi.
Non è solo dare l’esempio, è la mia identità. Mi sento prete, e mi viene spontaneo. Se no, non sarei prete, sarei un impiegato della Chiesa. A me viene spontaneo essere prete. Incontrare i fedeli e ascoltare non solo le confidenze dei loro dolori, ma anche i buoni consigli che danno.
Riferendosi al fatto che molti vedono il Papa come un referente mondiale per la pace, e pensano di premiarlo, Figueroa si è chiesto come egli viva tanta considerazione.
So di essere un peccatore, e allora parlo con Gesù e un po’ sorrido: «Quant’è buona la gente, quello che pensa, quant’è buona». Quello che ho di buono lo devo a Lui. Puro regalo, puro dono. Di plagiato non ho nulla, è puro dono.
Sicuramente, ha sottolineato il giornalista, tanta naturalezza nell’avvicinare la gente coinvolge anche i non cattolici.
Un pastore, qualunque sia la sua confessione, non ha limiti. È pastore e basta. E uno deve lottare contro i propri egoismi, anch’io li ho, affinché non annullino quello che Gesù ti chiede, cioè di essere pastore, di stare in mezzo al suo popolo. Nel Vangelo di Gesù si legge che la gente lo apretujaba [in italiano “si accalcava”], usa proprio questo verbo.
Un altro capitolo si apre nel grande tema dell’amicizia. È quello dell’amicizia tra uomo e creato. Naturalmente con riferimento all’enciclica Laudato si’.
È evidente che noi maltrattiamo il creato. Non siamo amici del creato. A volte lo trattiamo come il peggior nemico. Pensa alla deforestazione, al cattivo uso dell’acqua, ai metodi di estrazione dei minerali con elementi come l’arsenico e il cianuro, che poi finiscono col fare ammalare la gente. Dio ci ha dato una incultura perché la rendessimo cultura. Quando dice: crescete e moltiplicatevi, dominate la terra, prendetevene cura! Cioè, un’incultura perché ne facessimo cultura e così è stato con il progredire della civiltà, l’uomo ne ha fatto cultura. Ma è giunto il momento in cui l’uomo non è più colui che ha la missione di fare la cultura, ma si sente padrone. Allora va avanti, senza tener conto di ciò che significa prendersi cura della terra, e la trascura. Trascura il creato per anteporgli i suoi propositi. E allora l’uomo finisce con l’essere il creatore di una seconda incultura. La prima incultura ce la dà Dio perché ne facciamo cultura. Quando io me ne approprio con sufficienza e superbia, al di là dei limiti che la stessa natura mi sta dando, inizio a creare l’incultura.
L’energia atomica è buona. Abbiamo scoperto un’energia che va curata, protetta, ma che non è cattiva in se stessa. Ma quando guardi Nagasaki e Hiroshima, andando settant’anni indietro, vedi che cosa è la cultura trasformata in incultura.
In diverse occasioni ho raccontato la storia di un rabbino medievale, del xiii secolo. Quando ho parlato della Torre di Babele, sicuramente mi avrai sentito raccontarla. Diceva che era un lavoro molto arduo perché bisognava fare i mattoni e per farli bisognava preparare il fango, cercare la paglia, impastarli, e dopo averli impastati, bisognava preparare i mattoni, farli seccare, metterli nel forno, cuocerli, e poi portarli sulla torre. Stavano facendo una cultura, volevano fare una grande torre. Se cadeva un mattone era un disastro e chi lo aveva fatto cadere veniva castigato. Se cadeva un operaio, non succedeva nulla, era morto.
Si è chiesto allora Figueroa come si debba affrontare un sistema tanto perverso da degradare non solo la natura, ma l’uomo stesso.
Chiaramente la prima cosa è prenderne coscienza. È un sistema che, per guadagnare denaro, perché dietro a tutto c’è il denaro, il “vitello” è sempre d’oro, l’idolo è d’oro e sta al centro. L’uomo è stato spostato e ora al centro c’è il denaro. Non si tiene conto del creato, e in esso dell’uomo. La schiavitù, il lavoro schiavo, il non prendersi cura del creato, il non prendersi cura del re del creato: ossia, in questo momento, abbiamo un cattivo rapporto con il creato. Mi viene in mente un’espressione molto portegna, non so se appropriata sulla bocca di un Papa: perché nos pasamos de rosca (cioè: superiamo il limite). Non ci prendiamo cura del creato, per poter sfruttare meglio le miniere, tagliamo le foreste per fare la monocoltura, mentre la terra ha bisogno di varie colture. Mi ricordo quando studiavo chimica: tre anni il mais, due l’erba medica, ossia tutto il processo di nitrogenizzazione della terra. Ora monocultura finché la terra non si esaurisce.
Naturalmente il motivo è solo economico, ha commentato l’interlocutore.
Per esempio le dighe idroelettriche che sono state progettate in Amazzonia. L’Amazzonia include vari Paesi, sicché non so in quale Paese, e perciò non parlo male di nessuno. Dighe idroelettriche che però significano uno squilibrio totale nell’ecosistema.
Ancora un cenno all’enciclica dove si legge che «l’ingiustizia non è invincibile»: è troppo tardi o possiamo nutrire speranza?
Ricordo la frase di un dirigente politico molto importante a livello mondiale: «Non si tratta di prendersi cura del creato per formare un mondo migliore per i nostri figli, tanto non ci sarà». Se continuiamo a questo ritmo non ci sarà. Si tratta di prendersi cura del creato in questo momento. Siamo al limite dell’irreversibile, e ciò è tragico. Ma, d’altra parte, non è invincibile perché, anche se si arriva alla catastrofe, credo nella nuova terra e nuovi cieli. Ho speranza e so che il creato sarà trasformato.
Infine Figueroa ha chiesto un messaggio per i radioascoltatori.
Vi ringrazio per aver dedicato parte del vostro tempo ad ascoltare noi due, che non siamo proprio una telenovela divertente. Vi ringrazio per tutto il bene che potete fare nel prendervi cura del creato. Vi chiedo di pregare per me, ne ho bisogno. E di tutto cuore vi auguro che Dio vi benedica.
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Intervista di Papa Francesco a Rádio Renascença. L’Europa torni a essere madre
(Aura Vista Miguel)[Pubblichiamo una nostra traduzione dell’intervista che Papa Francesco ha rilasciato l’8 settembre scorso alla vaticanista di Rádio Renascença. La lunga conversazione è stata messa in onda dall’emittente portoghese il 14 settembre.]
Innanzitutto, Santità, grazie per questa intervista. È veramente un privilegio per Rádio Renascença poter avere con lei un’intervista in esclusiva.
Anche per me è un piacere perché in questi giorni ci sono qui tutti i Vescovi del Portogallo e ieri sono stato tutta la mattina con loro. Perciò questa intervista viene a proposito.
Un Papa che viene «dalla fine del mondo», come vede il Portogallo e i portoghesi?
In Portogallo sono stato solo una volta, all’aeroporto, anni fa, mentre venivo a Roma, in un aereo della Varig che faceva scalo a Lisbona, e così conosco l’aeroporto, però sì, conosco molti portoghesi. E nel seminario di Buenos Aires c’erano molti impiegati migranti portoghesi. Persone buone, che avevano grande familiarità con i seminaristi. E papà aveva un compagno di lavoro portoghese. Mi ricordo che si chiamava Adelino, una brava persona, e un volta mi è capitato di conoscere una signora portoghese ultraottantenne e anche lei mi fece una buona impressione. Insomma, non ho conosciuto nessun portoghese cattivo.
Nel suo discorso ai vescovi portoghesi, oltre a elogiare il popolo portoghese e guardare alla Chiesa con serenità, lei, Santo Padre, esprime due preoccupazioni: una riguardo ai giovani e l’altra rispetto alla catechesi. Ricorre a un’immagine, dicendo che il vestito della prima comunione non serve più alla gioventù, ma ci sono comunità che insistono a farglielo indossare. Qual è il problema?
È un modo di dire, no? I giovani sono più informali e hanno un loro ritmo proprio. Il giovane va lasciato crescere. Il giovane va accompagnato. Non bisogna lasciarlo solo, ma accompagnarlo. E saperlo accompagnare con prudenza, saper parlare al momento opportuno, saper ascoltare molto. Il giovane è irrequieto. Non vuole essere infastidito. E in tal senso, si può dire che il vestito della prima comunione non gli va. Invece ai bambini, quando fanno la comunione, piace indossare il vestito. È una aspettativa. I giovani hanno altre aspettative, che sono spesso molto buone, ma bisogna rispettarli, perché loro stessi non si capiscono, perché stanno cambiando, stanno crescendo, stanno cercando qualcosa. Poi il giovane va lasciato crescere, va accompagnato, rispettato; bisogna parlargli in modo paterno.
Perché, allo stesso tempo, c’è un impegno da proporre ma, spesso, questo impegno non è attraente.
Per questo occorre cercare qualcosa che per un giovane sia attraente e che lo impegni. Un esempio, un caso concreto. Se lei propone a un giovane — e questo lo vediamo ovunque — di fare una camminata, di andare in campeggio o in missione in un altro posto, o a volte di andare in un “cottolengo” a curare i malati una settimana o quindici giorni, lui si appassiona, perché vuole fare qualcosa per gli altri. È coinvolto.
Coinvolto?
Sì, entra dentro, s’impegna. Non guarda da fuori. Si coinvolge, s’impegna.
Allora, perché non rimane?
Perché sta camminando.
E qual è la sfida che la Chiesa deve allora affrontare? Lei, Santo Padre, ha anche parlato di una catechesi, che molte volte resta teorica e manca questa capacità di proporre l’incontro.
Ebbene, è importante che la catechesi non sia puramente teorica. Non serve. Catechesi è dare dottrina per la vita e, quindi, deve avere tre linguaggi, tre lingue: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. E che il catechista entri in questi tre linguaggi. Che il giovane pensi e sappia qual è la fede, ma che, allo stesso tempo, senta nel suo cuore che cos’è la fede. E allo stesso tempo, faccia cose. Se alla catechesi manca uno di questi tre linguaggi, di queste tre lingue, non funziona. I tre linguaggi: pensare ciò che si sente e ciò che si fa, sentire ciò che si pensa e ciò che si fa, fare ciò che si sente e ciò che si pensa.
Ascoltandola, Santità, sembra tutto chiaro. Ma, se ci si guarda intorno — soprattutto nella vecchia Europa, nella vecchia cristianità — non è così. Che cosa manca? Cambiare la mentalità? Come si fa?
Cambiare la mentalità, non saprei. Non conosco tutto. Ma sì, è vero, la metodologia catechetica a volte non è completa. Occorre cercare una metodologia catechetica che unisca le tre cose: le verità in cui bisogna credere, quello che si deve sentire e quello che si fa, quello che si deve fare, tutto insieme.
Santità, per il centenario delle apparizioni della Madonna di Fátima, l’aspettiamo in Portogallo. Tre Papi ci hanno già visitato e Giovanni Paolo ii per tre volte. Lei, che ama tanto la Madonna, che cosa si aspetta dalla sua visita nel 2017?
Dunque, chiariamo le cose. Io ho voglia di andare in Portogallo per il centenario. Nel 2017 si celebra anche il terzo centenario del ritrovamento della statua della Vergine di Aparecida.
Una data stereofonica, su due lati!
Così, ho voglia di andare anche lì. Ho promesso di andare lì. In Portogallo, ho detto, ho voglia di andare e mi piacerebbe andare. È più facile andare in Portogallo perché si può andare e tornare lo stesso giorno, una giornata piena o, al massimo, un giorno e mezzo o due giorni. Andare dalla Vergine. La Vergine è Madre, è profondamente madre, e la sua presenza accompagna il popolo di Dio. Per questo vorrei andare in Portogallo, che è privilegiato.
Che cosa si aspetta da noi portoghesi? Come possiamo prepararci a riceverla e anche a seguire ciò che la Madonna ci chiede?
La Vergine, quello che chiede sempre è che preghiamo, che curiamo la famiglia, i comandamenti. Non chiede cose strane. Che preghiamo per quanti sono disorientati, i cosiddetti peccatori. Lo siamo tutti, io per primo. Ma la Vergine chiede, e ci si può preparare proprio con quelle richieste della Vergine, con quei messaggi così da madre si manifesta ai bambini. È curioso, cerca sempre anime molto semplici, molto semplici.
Stiamo facendo questa intervista in piena crisi dei profughi. Lei, Santo Padre, come sta vivendo questa situazione?
È la punta di un iceberg. Vediamo questi profughi, questa povera gente, che fugge dalla guerra, che fugge dalla fame, ma è solo la punta dell’iceberg. Al di sotto c’è la causa. E la causa è un sistema socio-economico malvagio, ingiusto, perché dentro un sistema economico, dentro tutto, dentro il mondo, per parlare del problema ecologico, dentro la società socio-economica, dentro la politica, al centro ci deve essere sempre la persona. E il sistema economico dominante oggigiorno ha decentrato la persona e al centro c’è il dio denaro, c’è l’idolo di moda. Ci sono statistiche, non ricordo bene — forse non è esatto, potrei sbagliarmi — secondo le quali il 17 per cento della popolazione del mondo detiene l’80 per cento delle ricchezze.
E lo sfruttamento delle ricchezze dei Paesi più poveri a medio termine ha come conseguenza che tutte queste persone adesso vogliono venire in Europa.
Che è lo stesso che accade nelle grandi città. Perché si formano lefavelas nelle grandi città?
Il criterio è lo stesso.
Sì, lo stesso. È gente che viene dalla campagna perché hanno tagliato le foreste, hanno fatto la monocultura, non hanno lavoro, e vanno nelle grandi città.
Lo stesso sta avvenendo in Africa.
In Africa. Cioè, è lo stesso fenomeno. Allora, questa gente emigrata viene in Europa — è la stessa cosa — alla ricerca di un posto e, chiaro, per l’Europa in questo momento è una sorpresa, perché è difficile credere che stia succedendo, ma succede.
Ma lei, Santo Padre, quando è stato a Strasburgo ha detto che era necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti. Sembra però che nessuno abbia ascoltato e ora gli effetti sono visibili....
Bisogna andare alle cause.
E nessuno ha ascoltato, molto probabilmente.
Dove la causa è la fame, bisogna creare fonti di lavoro, investimenti. Dove la causa è la guerra, bisogna cercare la pace, adoperarsi per la pace. Oggigiorno il mondo è in guerra, è in guerra contro se stesso, ossia il mondo è in guerra — come dico io — guerra a puntate, guerra a pezzi — ma è anche in guerra contro la terra, perché sta distruggendo la terra, cioè la nostra casa comune, l’ambiente: i ghiacciai si stanno sciogliendo. Nell’artico l’orso bianco sta andando sempre più a nord per poter sopravvivere.
E la preoccupazione per l’uomo e per il suo destino sembra venire ignorata. Come vede lei la reazione attuale dell’Europa, con tante prese di posizione: alcuni costruiscono muri, altri scelgono i profughi a seconda della loro religione, altri approfittano della situazione per fare discorsi populisti.
Ognuno trae dalla sua cultura un’interpretazione. E a volte l’interpretazione ideologica o delle idee è più facile che fare le cose, che la realtà. Allontaniamoci dall’Europa e vediamo un altro fenomeno che mi ha addolorato tanto. I rohingya, che sono stati espulsi dal loro Paese e che stanno su un barca e vanno, arrivano a un porto o a una spiaggia; danno loro acqua, da mangiare e poi, di nuovo in mare. Non li accolgono, ossia manca la capacità di accoglienza dell’umanità.
Perché non si tratta di tollerare; è più che tolleranza, è accoglienza.
Accogliere, accogliere la gente. E accogliere chiunque venga. Io sono figlio di migranti e appartengono all’ondata migrante del 1929, ma in Argentina, dal 1884, iniziarono ad arrivare italiani, spagnoli, portoghesi — non so quando è arrivata la prima ondata portoghese — persone soprattutto di questi tre Paesi. Arrivavano lì, alcuni avevano i soldi, altri andavano all’ostello per immigranti e da lì li mandavano nelle città. Ci andavano per lavorare, cercavano lavoro. È vero che a quell’epoca c’era lavoro, ma la mia stessa famiglia, che aveva lavoro — era arrivata nel ‘29 — nel ‘32, dopo la crisi economica del ‘30, si ritrovò in mezzo alla strada, senza nulla, e mio nonno comprò un negozio di alimentari con duemila pesos che gli prestarono. E mio padre, che era ragioniere, faceva le consegne con un cesto. Avevano voglia di lottare, di vincere. Io so che cos’è la migrazione. E dopo vennero le migrazioni della seconda guerra mondiale, soprattutto dall’Europa centrale, molti polacchi, slovacchi, croati, sloveni, e anche dalla Siria e dal Libano. E siamo sempre andati tutti d’accordo. In Argentina non c’è stata xenofobia e ora in America c’è una migrazione interna, vengono in Argentina da altri Paesi americani, anche se in questi ultimi anni è diminuita per mancanza di lavoro in Argentina.
E anche dal Messico verso gli Stati Uniti. È un fenomeno molto vasto.
Il fenomeno migratorio è una realtà, ma vorrei affrontare un tema, ovvero che — senza voler rimproverare nessuno — quando c’è uno spazio vuoto la gente cerca di riempirlo. Se un Paese non ha figli, vengono i migranti a occupare il posto. Penso al tasso di natalità in Italia, Portogallo e Spagna. Credo che sia vicino allo zero per cento. Allora, se non ci sono figli, ci sono spazi vuoti. Il non voler avere figli, è in parte — è una mia interpretazione, non so se è giusta — un po’ frutto della cultura del benessere, no? Ho inteso dire nella mia stessa famiglia, qui dai miei cugini italiani, anni fa: «No, figli no, preferiamo viaggiare durante le vacanze o comprare una villa, o questo o quello». E allora gli anziani restano soli. Credo che la grande sfida dell’Europa sia tornare a essere la madre Europa.
E non la...
Nonna Europa. Mi correggo, ci sono Paesi in Europa che sono giovani. Per esempio l’Albania. L’Albania mi ha colpito, gente di quaranta, quarantacinque anni. E la Bosnia ed Erzegovina. Ossia Paesi che si sono ricostruiti dopo una guerra.
Per questo lei, Santo Padre, li ha visitati.
Sì, chiaro. È un segno all’Europa.
Ma questa sfida dell’accoglienza ai profughi che stanno entrando, nella sua prospettiva, può essere molto positiva per l’Europa. È un beneficio? È una provocazione? Insomma, in un certo senso, l’Europa si può risvegliare, può cambiare rotta?
Può darsi. È vero, devo anche riconoscere che le condizioni di sicurezza territoriale oggi non sono le stesse del passato, perché, è vero, a 400 chilometri dalla Sicilia abbiamo una guerriglia terrorista estremamente crudele. Allora c’è il pericolo dell’infiltrazione, non è vero?
Che può arrivare fino a Roma.
Ah, sì. Nessuno ha assicurato che Roma è immune a ciò, no? Ma si possono prendere precauzioni e la gente che viene, viene tutta a lavorare. Chiaro, c’è anche un altro problema, è che l’Europa ha una crisi lavorativa molto grande. Parlo di tre Paesi, — non dirò quali — tre Paesi importanti dell’Europa. Da 25 anni in qua, la disoccupazione dei giovani dai 25 anni in giù, in uno di questi è del 40 per cento, nell’altro del 47 per cento e nell’altro ancora del 50 per cento. C’è una crisi lavorativa. I giovani non trovano lavoro. Ossia si mescolano molte cose. Non bisogna essere semplicisti in questo. Ovvio, viene un profugo con misure di sicurezza di ogni sorta, e va accolto, perché è un comandamento della Bibbia. Mosè dice al suo popolo: «amerai lo straniero perché anche tu sei stato straniero in Egitto».
L’ideale sarebbe però che loro non debbano fuggire, che restino nelle loro terre, no?
Sì, certo.
Santo Padre, nell’Angelus di domenica 6, ha lanciato questa sfida dell’accoglienza capillare. Ci sono già state delle reazioni? Che cosa in concreto?
Io ho chiesto che ogni parrocchia, ogni istituto religioso, ogni monastero, accolga una famiglia. Una famiglia, non una persona. Una famiglia dà più garanzie di contenimento, per evitare che ci siano infiltrazioni di ogni sorta. Quando dico che una parrocchia accolga una famiglia, non dico che vada a vivere nella canonica, nella casa parrocchiale, ma che tutta la comunità parrocchiale veda se c’è un posto, un angolo di una scuola per creare un “appartamento”, nel peggiore dei casi, che si affitti un modesto appartamento per quella famiglia, ma che abbia un tetto, che sia accolta, che si integri nella comunità. E ci sono state molte reazioni, veramente molte. Ci sono conventi che sono quasi vuoti.
Due anni fa lei, Santo Padre, ha già fatto questo appello e quali risultati ci sono stati?
Quattro solamente. Uno dei gesuiti. Hanno fatto molto bene i gesuiti. Ma il problema è serio. E c’è anche la tentazione del dio denaro. Alcune congregazioni dicono: «No, ora che il convento è vuoto, facciamo un hotel, un albergo, e possiamo ricevere gente, così ci manteniamo e ci guadagniamo». Ebbene, se vuoi fare questo, paga le tasse. Una scuola religiosa non le paga perché il religioso è esente dal pagarle, ma se lavora come hotel, che paghi le tasse, come qualsiasi altra persona. Sennò l’attività non è molto sana.
E lei, Santo Padre, ha già detto che qui in Vaticano accoglierà due famiglie.
Due famiglie, sì. Certo, ieri mi hanno detto che già sono state trovate, le due parrocchie del Vaticano si sono incaricate di cercarle.
Sono già state individuate?
Sì. Se ne è occupato il cardinale Comastri, che è il mio vicario generale per il Vaticano, insieme all’incaricato dell’Elemosineria, monsignor Konrad Krajewski, che lavora con la gente, con i senzatetto. È stato lui a organizzare le docce sotto il colonnato, il servizio del barbiere. È proprio straordinario che porti la gente di strada a vedere i musei e la Cappella Sistina.
E queste famiglie fino a quando resteranno?
Finché il Signore lo vorrà. Non si sa, non si sa come andrà a finire. In ogni modo, voglio dire che l’Europa ne ha preso coscienza. La ringrazio, ringrazio i Paesi dell’Europa che ne hanno preso coscienza.
Rádio Renascença, la radio che la sta intervistando, ha aderito in Portogallo a un’iniziativa congiunta che riunisce istituzioni cristiane e anche di altre religioni, con questo desiderio di accogliere e di mobilitarsi a favore dei profughi. Lei, Santo Padre, può dire alcune parole di sostegno a quanti aiutano e anche ai nostri ascoltatori e ai colleghi di lavoro?
Mi congratulo con voi. Vi ringrazio per quello che state facendo e vi do un consiglio: il giorno del giudizio finale, sappiamo già su cosa verremo giudicati — sta scritto nel capitolo 25 di san Matteo — quando Gesù vi dirà: «Avevo fame, e voi mi avete dato da mangiare?», voi risponderete di sì. «E quando sono stato senza rifugio, come rifugiato, mi avete aiutato?», voi risponderete di sì. Mi congratulo con voi, supererete l’esame. Ma vorrei dire anche un’altra cosa. Riguarda il lavoro con i giovani disoccupati. Credo che lì sia urgente che, soprattutto le congregazioni religiose che hanno come carisma l’educazione, ma anche i laici, gli educatori laici, inventino piccoli corsi, scuole di emergenza. Allora un giovane che è disoccupato, studia sei mesi per fare il cuoco, o il gassista o il termoidraulico o — visto che il soffitto va sempre rifatto — il pittore. Allora, con un mestiere, ha la possibilità di trovare un lavoro, anche se temporaneo, per il momento. Fare quello che noi chiamiamo una changa, un lavoro occasionale. Una changa, sì. E così non è del tutto disoccupato. Ma oggi è il giorno, è il momento dell’educazione di emergenza, che è ciò che fece don Bosco. Don Bosco, quando vide quanti bambini c’erano in strada, disse che bisognava fare educazione, ma mandare i bambini a fare le medie, gli studi umanistici, no. Mestieri. Allora, preparò carpentieri, idraulici, e insegnava loro a lavorare e già erano in grado di guadagnarsi il pane. Don Bosco fece questo. E ora voglio raccontare un aneddoto su don Bosco. Qui, a Roma c’è Trastevere che era una zona molto povera, ma che ora è la zona di moda dei giovani per la movida. Ebbene, don Bosco passò di lì, era su una carrozza, o su un carro, non lo so, e gli tirarono una sassata che ruppe il vetro. Fece fermare il carro e disse: «Questo è il luogo dove dobbiamo fondare». Ossia, non la visse come un’aggressione. La visse come una sfida, per aiutare la gente, i bambini, i giovani, che sapevano solo aggredire. E oggi lì c’è una parrocchia salesiana che forma giovani e ragazzi, con le sue scuole, le sue attività. Tornando al tema dei giovani, oggi è molto importante offrire a quelli che non hanno lavoro un’educazione di emergenza in qualche mestiere affinché possano guadagnarsi da vivere.
Santo Padre, lei è molto critico anche sullo stile di vita occidentale e dell’Europa, il cosiddetto primo mondo, molto incentrato sul benessere. Che cosa la disturba di più?
Bene, anche nelle grandi città americane, cioè del Nord America e del Sud America, c’è lo stesso problema. Non è solo dell’Europa. Sì, nelle grandi città. A Buenos Aires c’è una grande zona della cultura del benessere, e ci sono anche quei cordoni attorno alle città, le favelas. Oggi io all’Europa non rinfaccerei tanto ciò. Bisogna riconoscere che l’Europa ha una cultura eccezionale. Davvero, ha secoli di cultura. E questo dà anche un benessere culturale, e in ogni caso, quello che direi dell’Europa è che ha la capacità di riprendere la leadership nel concerto delle nazioni. Ovvero, che torni a essere l’Europa che segna rotte, perché ha la cultura per farlo.
Ma l’Europa oggi conserva la sua identità? È in grado di affermare la sua identità?
Quello che ho detto a Strasburgo, l’ho pensato molto prima di dirlo. Lo riprendo un po’. L’Europa ancora non è morta. È un po’ nonnetta, ma può tornare a essere madre. Ho fiducia nei politici giovani. I politici giovani parlano un’altra lingua. Esiste un problema a livello mondiale, che non riguarda solo l’Europa, ma tutto il mondo ed è il problema della corruzione. La corruzione a tutti i livelli. Ciò indica anche un basso livello morale.
Lei, Santo Padre, parla proprio di questo nella sua ultima enciclica e chiede alle popolazioni di prenderne maggiormente coscienza. C’è stato tuttavia un forte astensionismo. Se guardiamo al risultato delle elezioni, l’astensionismo è quasi più grande di un partito.
Perché la gente è delusa. In parte dalla corruzione, in parte dalla inefficienza. In parte dagli impegni previamente assunti. E ciononostante l’Europa può e deve e ribadisco quello che ho detto a Strasburgo. L’Europa deve assumere il suo ruolo, deve cioè recuperare la sua identità. È vero che l’Europa ha sbagliato. Non glielo rinfaccio, lo ricordo semplicemente. Quando ha voluto parlare della sua identità, non ha voluto riconoscere forse la parte più profonda della sua identità, ovvero le sue radici cristiane. Così ha sbagliato. Ma tutti nella vita sbagliamo. È ancora in tempo per tornare indietro.
Santità, una domanda per il semplice ascoltatore, anche a motivo di questa ondata d’individualismo: che cosa può toccare la libertà di uno che fa quello che vuole e che è stato educato fin da bambino a un’idea di felicità secondo la quale la felicità è non avere problemi? In generale, i bambini vengono educati all’idea che la felicità è non avere problemi e fare quello che si vuole.
Una vita senza problemi è noiosa. È noia. L’uomo sente dentro di sé il bisogno di affrontare e risolvere conflitti, e di risolvere problemi. Chiaramente, un’educazione a non avere problemi è un’educazione asettica, sì asettica. Faccia l’esperienza lei stessa. Beva un bel bicchiere di acqua minerale, un’acqua comune o acqua del rubinetto, e poi beva un bicchiere di acqua distillata. La disgusterà. L’acqua distillata non ha problemi. È come educare i bambini nel laboratorio. Per favore!
Rischiare è importante.
Il rischio... Bisogna sempre proporre mete. Per educare, occorre usare tutti e due i piedi. Educare bene. Avere un piede ben poggiato sul pavimento. Con l’altro piede faccio un passo avanti e vedo se posso poggiarlo. E quando l’ho poggiato, alzo l’altro. Questo è educare. Poggiarsi su qualcosa di sicuro, cercare di fare un passo avanti e quando sento il piede sicuro alzo l’altro.
È più faticoso educare così.
È rischiare. Perché? Forse perché rischio di mettere male il piede e di cadere. Ebbene, ti alzi e continui.
Santità, nell’ondata d’individualismo che viviamo — lei, Santo Padre, ne ha parlato a Strasburgo — sembra un capriccio esigere sempre più diritti separati dalla ricerca della verità. Crede che questo sia anche un problema nel modo di vivere la fede?
Può darsi. Esigere, senza la generosità di dare. È come volere i miei diritti e non i miei doveri verso la società, non è vero? Credo che diritti e doveri vadano insieme. Inoltre, ciò crea l’educazione dello specchio, perché l’educazione dello specchio è narcisismo e oggi viviamo in una civiltà narcisista.
Come la si vince, come la si combatte?
Con l’educazione. Per esempio, diritti e doveri. Con l’educazione ai rischi ragionevoli. Cercando mete, andando avanti, e non stando fermi o guardandosi allo specchio. Ci succederà quello che è successo a Narciso, che a forza di guardarsi nell’acqua e di trovarsi così bello è affogato.
Santità, lei ha detto che preferisce una Chiesa incidentata piuttosto che una Chiesa malata. Che cosa intende con “Chiesa incidentata”?
Mi spiego: è un’immagine della vita. Se uno nella propria casa tiene chiuso un locale, una stanza per molto tempo, si formano umidità, muffa, cattivo odore. Se una chiesa, una parrocchia, una diocesi, un istituto, vive chiuso in se stesso, si ammala. Gli succede lo stesso che alla stanza chiusa. E allora abbiamo una Chiesa rachitica, con norme fisse, senza creatività, sicura, o meglio più che sicura assicurata, con una compagnia di assicurazioni, ma non sicura. Invece se uno esce — una Chiesa, una parrocchia — esce a evangelizzare, può accaderle lo stesso che accade a qualsiasi persona che scende in strada: può avere un incidente. Allora, tra una Chiesa malata e una Chiesa incidentata, preferisco quella incidentata perché per lo meno è uscita. Voglio ripetere una cosa che ho già detto in un’altra occasione: nella Bibbia, nell’Apocalisse, c’è una bella immagine di Gesù dove parla a una Chiesa e le dice: «Ecco sto alla porta e busso». Gesù sta bussando. «Se qualcuno mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui». Ma io mi domando: quante volte, nella Chiesa, Gesù bussa alla porta, ma dal di dentro, perché non lo lasciamo uscire ad annunciare il Regno?. A volte ci appropriamo di Gesù e ci dimentichiamo che una Chiesa che non è una Chiesa in uscita, una Chiesa che non esce, tiene Gesù prigioniero, imprigionato.
È per questo che Lei è stato eletto Papa?
Questo lo chieda allo Spirito Santo.
Santo Padre, da quando è Papa, pensa che la Chiesa sia più incidentata?
Non lo so. So che, per quel che mi dicono, Dio sta benedicendo molto la sua Chiesa. È una fase che non dipende dalla mia persona, ma dalla benedizione che Dio ha voluto dare alla sua Chiesa in questo momento, no? E ora, con questo Giubileo della misericordia, spero che molta gente senta la Chiesa come Madre, perché alla Chiesa può accadere quello che è accaduto all’Europa, no? Essere troppo nonna e non madre. Incapace di generare vita.
Questo è il motivo del Giubileo della misericordia.
Che vengano tutti. Che vengano e sentano l’amore, il perdono di Dio. A Buenos Aires ho conosciuto un frate cappuccino — un po’ più giovane di me — che è un grande confessore. C’è sempre la fila per lui, molta gente, sì, passa tutto il giorno a confessare. Lui è un grande perdonatore. Perdona, ma a volte gli viene il dubbio di aver perdonato troppo. E allora, una volta mentre chiacchieravamo, mi ha detto: «A volte mi viene questo dubbio». E io gli ho chiesto: «Che cosa fai quando ti viene il dubbio?». «Vado davanti al sacrario, guardo il Signore e gli dico:
«Signore, perdonami, oggi ho perdonato molto, ma sia chiaro eh?, la colpa è tua perché il cattivo esempio me lo hai dato tu».
Perciò in tal senso, lei, Santo Padre, ha anche deciso, nella lettera a monsignor Fisichella, di proporre il perdono alle situazioni più difficili e ora ha addirittura pubblicato i motuproprio che accelerano i processi di nullità. Anche questo ha a che vedere con il Giubileo?
Sì, semplificare, facilitare la fede alla gente. E che la Chiesa sia madre.
Il motivo di queste lettere motuproprio per la nullità è di rendere più agili i processi?
Rendere più agili, più agili i processi in mano al vescovo. Un giudice, un difensore del vincolo, una sola sentenza, perché finora c’erano due sentenze. No, una sola. Se non c’è appello, finisce lì. Se c’è appello, al metropolita, per rendere più agile e anche gratuiti i processi.
Lei, Santo Padre, ha fatto ciò anche pensando al Sinodo e al Giubileo?
È tutto collegato.
So già che lei non vuole parlare del Sinodo ma il suo cuore di pastore universale che cosa chiede?
Io chiedo che si preghi molto. Del Sinodo voi giornalisti conoscete già l’Instrumentum laboris. Si parlerà di questo. Saranno tre settimane, un tema, un capitolo per ogni settimana. E si attendono molte cose. Perché, è chiaro, la famiglia è in crisi. I giovani non si sposano. Non si sposano. O con questa cultura del provvisorio, «bene, convivenza, o mi sposo, finché dura l’amore, poi ciao».
E cosa dice lei, Santo Padre, a chi non vive conformemente alle indicazioni della Chiesa e ha questa ansia di perdono?
Lì, nel Sinodo, si parlerà di tutte le possibilità di aiutare questa famiglia. Che sia chiara una cosa, cosa che Papa Benedetto ha detto molto chiaramente: le persone che vivono una seconda unione non sono scomunicate e devono essere integrate nella vita della Chiesa. In questo è stato chiarissimo. E io l’altro giorno, nella catechesi, l’ho detto chiaramente. Avvicinare alla Messa, alla catechesi, all’educazione dei figli, alle opere di carità, mille cose.
Santità, vorrei concludere con qualche domanda sulla sua vocazione. All’inizio di marzo 2013, lei si stava preparando per andare “in pensione”. Aveva già deciso dove andare a vivere. Invece è diventato uno degli uomini più famosi a livello mondiale. Come vive questa circostanza?
Non ho perso la pace. È un dono. La pace è un dono di Dio. È un dono che Dio mi ha dato, qualcosa che non immaginavo neppure, per la mia età, per tutto. Non solo, ma avevo già programmato il ritorno, pensando che nessun Papa inizia il ministero nella Settimana Santa. Allora, se tarderemo a eleggerlo, anticiperò la funzione al sabato prima della Domenica delle Palme. E ho fatto il biglietto per tornare, di modo che la Domenica delle Palme avrei potuto celebrare la messa, e ho lasciato l’omelia pronta sulla mia scrivania. È stato qualcosa che non mi aspettavo. Pensavo che già a dicembre del 2013 avrei lasciato l’incarico. Pensavo a chi sarebbe stato nominato mio successore.
Ha una vera e propria avventura ora di fronte a sé.
Vero, ma non ho perso la pace. Non ho perso la pace.
Lei, Papa Francesco, è amato in tutto il mondo, la sua popolarità sta crescendo, come mostrano i sondaggi, e tanti vogliono vederla candidato al premio Nobel. Ma Gesù ha avvertito i suoi: «Sarete odiati a causa del mio nome». Come si sente lei, Santità?
Molte volte mi chiedo come sarà la mia croce, com’è la mia croce. Perché le croci esistono. Non si vedono ma ci sono. E anche Gesù a un certo punto era molto popolare e poi è finito com’è finito. Ossia, nessuno possiede la felicità terrena. L’unica cosa che chiedo è che mi conservi la pace del cuore e che mi conservi nella sua grazia, perché fino all’ultimo momento uno è peccatore e può rinnegare la sua grazia. Una cosa mi consola, che San Pietro ha commesso un peccato molto grave, rinnegare Gesù. Dopodiché lo hanno fatto Papa. Se con quel peccato lo hanno fatto Papa, con tutti quelli che ho io, mi consolo, il Signore si prenderà cura di me come si è preso cura di Pietro. Ma Pietro è morto crocifisso, per cui non so come finirò io. Che decida Lui. Purché mi dia la pace, che faccia quel che vuole.
Santo Padre, come vive la sua libertà da Papa? Come mai ha partecipato a una messa mattutina a san Pietro ed è andato da un ottico a far riparare i suoi occhiali? Ha bisogno del contatto con la gente?
Sì. Ho bisogno di uscire, però è un po’... Non è il momento. Ma, poco a poco, il contatto con la gente ce l’ho il mercoledì e questo mi aiuta molto. Sì, l’unica cosa che mi manca di Buenos Aires è uscire acallejar, a camminare per strada.
E concludiamo con alcune rapide domande: Che cosa le toglie il sonno?
Posso dirle la verità? Dormo come un ghiro.
Che cosa la fa correre?
Quando c’è molto lavoro.
Che cosa non è mai urgente, che cosa può attendere?
Che cosa non è urgente? Piccole cose che possono aspettare fino a domani, dopodomani. Ci sono cose che sono molto urgenti. Altre che non lo sono. Ma non saprei dirle in concreto questo è più urgente di quello.
Con che frequenza si confessa?
Ogni quindici, venti giorni. Mi confesso con un padre francescano, Padre Blanco, che è così gentile da venire qui, a confessarmi. E sì, non ho mai dovuto chiamare un’ambulanza per riportarlo indietro, spaventato dai miei peccati.
Come e dove le piacerebbe morire?
Dove Dio vorrà. Davvero, dove Dio vorrà.
Ultima domanda: come immagina l’eternità?
Quando ero più giovane, l’immaginavo molto noiosa. Ora penso che è un Mistero di incontro. È quasi inimmaginabile, ma deve essere una cosa molto carina, molto bella, incontrare il Signore.
Grazie, Santo Padre.
Grazie a lei e un grande saluto a tutti gli ascoltatori di questa radio. E, per favore, chiedo che preghiate per me. Che Dio vi benedica e la Vergine di Fátima vi protegga.
L'Osservatore Romano