sabato 5 settembre 2015

Tra sofismi e teologia

kasper

Breve esame critico della “relazione Kasper”.

di Enrico Maria Romano
Il Cardinale W. Kasper è stato invitato dal Papa a tenere l’unica relazione teologica del Concistoro straordinario sulla famiglia, convocato dallo stesso Pontefice nel febbraio 2014, in preparazione al Sinodo dei Vescovi, previsto per l’ottobre 2014 e poi da riprendersi nell’ottobre del 2015.
A suo tempo, tale relazione sembrava talmente astrusa, da non meritare grande attenzione. Visto però, che intere Conferenze episcopali (per esempio, quella tedesca, metà di quella portoghese, e altre) ne sono rimaste profondamente influenzate, vale la pena prenderla brevemente in esame, per dimostrare la sua totale inconsistenza teologica. Un breve esame critico.
Per brevità di discorso, consideriamo solo il nocciolo della relazione, contenente la nuova proposta, anche che se tutta la relazione è cosparsa di errori più o meno capziosi.
Dopo una lunga trafila storica che vuole dimostrare “diacronicamente” la continua tensione della Chiesa verso la virtù media, tra il lassismo e il rigorismo, avviandosi alla conclusione, Kasper afferma:
«La domanda è:
[a] Questa via al di là del rigorismo e del lassismo, la via della conversione, che sfocia nel sacramento della misericordia, il sacramento della penitenza, è anche il cammino che possiamo percorrere nella presente questione?
Un divorziato risposato:
[b] se si pente del suo fallimento nel primo matrimonio,
[c] se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro,
[d] se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile,
[e] se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede,
[f] se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e poi della comunione?
[g]Questa possibile via non sarebbe una soluzione generale. Non è la strada larga della grande massa, bensì lo stretto cammino della parte probabilmente più piccola dei divorziati risposati, sinceramente interessata ai sacramenti.
[h] Non occorre forse evitare il peggio proprio qui? Infatti, quando i figli dei divorziati risposati non vedono i genitori accostarsi ai sacramenti di solito anche loro non trovano la via verso la confessione e la comunione.
[i] Non mettiamo in conto che perderemo anche la prossima generazione, e forse pure quella dopo?
[l] La nostra prassi collaudata, non si dimostra controproducente? »
(La relazione al Concistoro sta in, W. Kasper, Bibbia, eros e famiglia, Il Foglio quotidiano, 1 marzo 2014. Si veda anche, per un inquadramento teologico più generale del problema, W. Kasper, Il matrimonio cristiano, Queriniana, Brescia, 2014, pp. 160).
Commento
  1. a) Kasper parla di una “via al di là del rigorismo e del lassismo”: ciò significa che la via della Chiesa contemporanea, che è quella di sempre, sarebbe una via “al di qua” del rigorismo e del lassismo, ovvero, sarebbe una via rigorista, visto che lo stesso Kasper si sente in dovere di correggerla, proponendo la “via della conversione” per i divorziati risposati. Evidentemente, secondo il porporato tedesco, finora la Chiesa non ha seguito questa via, e doveva esser lui a salvare la Chiesa dal rigorismo in cui era caduta, dalle origini fino ad oggi. Ma può essere rigorista un insegnamento della Sacra Scrittura e della Tradizione, considerato come irreformabile dal Magistero autentico della Chiesa (cfr CDF, Lettera del 14-9-1994)? Il Vangelo non è rigorista, ma esigente, perché è modellato su Dio, e non sugli uomini. Perciò, l’unica via della conversione necessaria per un divorziato risposato è quella di pentirsi del suo “secondo matrimonio”, ovvero, del suo stato di concubinaggio, come afferma l’autorevole documento della CDF, promulgato ad hoc (Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, del 14 settembre 1994. Con approvazione speciale del Santo Padre. Cfr Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000):
«Per i fedeli che permangono in tale situazione matrimoniale, l’accesso alla Comunione eucaristica è aperto unicamente dall’assoluzione sacramentale, che può essere data «solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”»(8). In tal caso essi possono accedere alla comunione eucaristica, fermo restando tuttavia l’obbligo di evitare lo scandalo».
Ma proprio di questo pentimento non parla, né esplicitamente, né implicitamente, la relazione di Kasper. Quella da lui proposta, dunque, sarebbe una “una via di conversione” senza vera conversione, il che è assurdo.
Ancora. «La via della conversione, che sfocia nel sacramento della misericordia, il sacramento della penitenza, è anche il cammino che possiamo percorrere nella presente questione?». A questa domanda ha già risposto negativamente, in modo irreformabile, il Magistero della Chiesa. Così nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio(1981), nella lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994 approvata da san Giovanni Paolo II, nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1650), e in vari altri interventi del Magistero pontificio autentico. Riportiamo solo il testo della lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, rimandando a studi specifici per la documentazione completa:
«5. La dottrina e la disciplina della Chiesa su questa materia sono state ampiamente esposte nel periodo postconciliare dall’Esortazione Apostolica Familiaris consortio. L’Esortazione […] ribadisce la prassi costante e universale, “fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati”, indicandone i motivi. La struttura dell’Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni».
Riaprire la questione significa mettere in dubbio una dottrina già definita dal Magistero come appartenente alla Sacra Scrittura e alla prassi costante della Chiesa. Significa, perciò, instillare subdolamente il dubbio di fede.
  1. b) Kasper parla di pentirsi del “fallimento del primo matrimonio”, come condizione per accedere alla via della conversione che porta ai sacramenti. Osserviamo che il pentimento di cui parla Kasper, oltre ad esser spesso privo delle condizioni di possibilità, è sempre del tutto irrilevante in ordine alla “vera conversione” di un divorziato risposato.
Tale pentimento, infatti, è impossibile, ad esempio, per il coniuge innocente, soprattutto quello che così è definito dal CCC, 2386. Per esempio: di cosa si deve pentire tale coniuge innocente, se l’altro, caduto in adulterio semplicemente per la veemenza della tentazione e per la propria debolezza, decide di lasciare il tetto coniugale per consumare la sua passione? Qui, il coniuge “innocente” non ha nulla di che pentirsi, ma solo da perdonare. Ci sarebbe allora la seguente assurdità: il coniuge innocente, che non può pentirsi del fallimento del primo matrimonio, non rientrerebbe nelle condizioni richieste da Kasper per accedere alla comunione, mentre il coniuge “colpevole”, ne avrebbe piena legittimazione, dopo il dichiarato “pentimento”.
Anche nel caso in cui fosse possibile il pentimento per detto fallimento, tale pentimento non conterrebbe nulla in ordine alla ricezione della Comunione sacramentale, perché:
– il fallimento umano di un matrimonio, con o senza pentimento, non estingue il suo vincolo sacramentale, che permane fino alla morte di uno dei due coniugi, impedendo ad essi di contrarre nuove nozze, secondo le parole di Cristo: “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito” (Mc 10, 9); “chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei” (Mc 10, 11).
– Il matrimonio “fallito” non è un matrimonio annullato. Nessun matrimonio rato e consumato è annullato davanti a Dio, nemmeno quello umanamente fallito. Se per vari motivi di necessità la convivenza non sarà più possibile, rimane tuttavia il vincolo sacramentale e, spesso, anche affettivo, che produrrà abbondanti frutti spirituali, dando ai coniugi separati la forza di vivere gioiosamente in una condizione di continenza.
– Ciò di cui necessariamente si deve pentire il divorziato risposato, non è di aver fallito il primo matrimonio, ma di condurre la propria vita sessuale al di fuori del sacramento del matrimonio, in uno stato di concubinaggio, condannato da Cristo (cfr Mt 19, 9) e da tutta la Tradizione cristiana.
  1. c) Se il divorziato risposato avesse davvero «chiarito gli obblighi del primo matrimonio», avrebbe capito che quello è il suo unico vero matrimonio, dal quale gli deriva l’obbligo di essere fedele al primo vero coniuge, in virtù del vincolo unico e indissolubile del sacramento matrimoniale. Ed è proprio questa fedeltà che viene meno nel divorziato risposato. Perciò, Kasper pretende una cosa letteralmente impossibile: chiarire gli obblighi del primo matrimonio, rimanendo in uno stato che contraddice apertamente a tali obblighi. È come se un ubriacone si proclamasse pentito del suo vizio, tra un bicchiere di vino e un boccale di birra.
«Se è definitivamente escluso che torni indietro». Nessuno lo può dire con certezza! Anche nel caso di coniugi che hanno formato nuove famiglie contraendo così l’obbligo morale di provvedere ai figli derivati dalla loro nuova convivenza. Se questa convivenza per varie ragioni venisse meno (per es. la morte del proprio compagno/a), chi può impedire ai coniugi legittimi di ritornare assieme, anche dopo una separazione di molti anni? Il caso forse raro non è puramente ipotetico.
  1. d) Prima di onorare gli «impegni assunti con il nuovo matrimonio civile» – che non è matrimonio, né per Dio, né per la Chiesa – bisogna onorare gli impegni assunti con il primo autentico matrimonio, l’unico riconosciuto da Dio e dalla Chiesa. E l’impegno inderogabile derivante dal primo matrimonio è la fedeltà al coniuge legittimo, benché fisicamente separato. Ma proprio questo impegno e questa fedeltà non è considerata più necessaria dalla proposta Kasper, contro la Sacra Scrittura, il Magistero e la Tradizione bimillenaria della Chiesa.
Gli unici «impegni assunti con il nuovo matrimonio civile», riconosciuti dalla Chiesa, benché non riconosca il secondo matrimonio, sono quelli di provvedere al bene spirituale e fisico dei propri figli e, contingentemente, anche del loro genitore, qualora fosse incapace di provvedere a se stesso. Per adempiere a quest’obbligo morale, di per sé, non è necessaria la coabitazione e, anche se in qualche caso fortuito lo fosse, è sempre possibile, e moralmente necessario, che i due genitori vivano “come fratello e sorella”, come previsto dal Magistero della Chiesa (vedi sopra, lettera della CDF). La loro coabitazione, infatti, è funzionale ai figli o, in certi casi, al reciproco aiuto materiale (soprattutto in caso di malattia grave o vecchiaia inoltrata), rimanendo intatto l’obbligo di mantenere la fedeltà nei confronti del proprio coniuge legittimo, ancora vivente, benché fisicamente separato. Perciò, chi «non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile», può e deve, altresì, abbandonare la convivenza “more uxorio” con il coniuge illegittimo, per essere fedele agli impegni assunti con il primo e unico matrimonio, davanti a Dio, alla Chiesa e alla società.
  1. e) Chi davvero «si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede», riconosce che il secondo matrimonio civile non vale davanti a Dio e, perciò, si sforza di scioglierlo o, se fosse impossibile, di viverlo nella perfetta continenza. Ma la parola “perfetta continenza”, o parole equivalenti, non c’è nella nuova proposta di Kasper, anche perché, se ci fosse, non sarebbe più una nuova proposta, ritornando alla dottrina di sempre; dottrina sottilmente impugnata da Kasper, anche se insegnata a chiare lettere da san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
  2. f) Se un divorziato risposato avesse ricevuto dalla grazia attuale di Dio il «desiderio dei sacramenti», avrebbe ricevuto anche il desiderio di abbandonare lo stato di peccato mortale nel quale si trova, che gli impedisce di ricevere fruttuosamente sia il sacramento della riconciliazione, sia quello dell’Eucaristia. Se li ricevesse nello stato di peccato mortale nel quale si trova, senza il desiderio di lasciarlo, “mangerebbe e berrebbe la propria condanna” (cfr 1 Cor 11, 29). In questo secondo caso, l’eventuale desiderio di ricevere i sacramenti non verrebbe da Dio, ma da uno spirito menzognero, per rendere ancor peggiore la condizione del divorziato risposato, spingendolo al sacrilegio.
Per Kasper, pare proprio così. Il desiderio del sacramento da parte di un divorziato risposato, sarebbe giustificato in quanto «fonte di forza nella sua situazione», che è una situazione di peccato; perciò, si desidera il sacramento per avere la forza di continuare a peccare. E’ mostruoso. È inconcepibile come si possano dire delle bestialità di questo genere, spingendo la povera gente che già si trova in stato di peccato mortale, alla rovina totale della propria anima, muovendoli al sacrilegio.
La domanda finale del punto f) ha per oggetto un divorziato risposato che, stando alle condizioni poste da Kasper: 1) non è pentito del suo stato di peccato mortale (anche se fosse pentito del fallimento del suo primo matrimonio); 2) non ha intenzione di lasciare lo stato di peccato mortale (anche se assolve agli obblighi civili derivanti dal primo matrimonio); 3) desidera il sacramento per continuare a vivere nel peccato mortale (che potrebbe sempre evitare, senza venir meno a nessun obbligo morale e civile verso chicchessia). Ciò nonostante, Kasper si chiede: «dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e poi della comunione? ». Da parte nostra, però, chiediamo a Kasper: Come si può parlare di conversione (metanoia) di un soggetto che non intende lasciare il suo stato di peccato mortale? Non è questa l’eresia luterana del “simul iustus et peccator”?
Perciò, alla domanda di Kasper, ha già risposto negativamente la Familiaris Consortio, la lettera del 14 sett. 1994 della CDF, il CCC, la Pontificia Commissione per l’interpretazione dei testi legislativi (24-6-2000), appellandosi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione. Ostinarsi su tale interrogativo, dunque, costituisce un grave dubbio di fede che, oltre ad essere un peccato di eresia, incorre nella scomunica latae sententiae comminata dal CIC.
Che il dubbio ostinato di fede sia un peccato di eresia, lo dice il Codice di Diritto Canonico del 1983:
«Vien detta eresia, l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa» (can. 751).
Che l’eretico, per il fatto stesso di esserlo, sia scomunicato, lo dice ancora lo stesso Codice di Diritto Canonico:
«L’apostata della fede, l’eretico e lo scismatico incorrono nella scomunica latae sententiae» (can 1364, § 1).
Che l’esclusione dalla comunione sacramentale dei divorziati risposati (more uxorio conviventi) sia una “verità pratica” che esige l’obbedienza di “fede divina e cattolica”, perché “proposta come divinamente rivelata dal magistero ordinario e universale della Chiesa”, lo dice la Familiaris Consortio, citata dalla lettera della CDF del 1994 (sopra riportata) e il can. 750 del CIC:
La prassi «fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla Comunione eucaristica i divorziati risposati» è «universale e costante… vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni».
Can. 750 – §1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell’unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sonoproposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.
Dunque, chi negasse o dubitasse ostinatamente della suddetta verità, cadrebbe nel peccato di eresia, e sarebbe ipso facto scomunicato.
Se poi si trattasse di una domanda retorica, com’è di fatto, a giudicare dal testo e dal contesto, essa già presuppone la risposta affermativa, che è formalmente eretica.
  1. g) «Questa possibile via non sarebbe una soluzione generale». Chi lo dice? Se le condizioni di ammissione valgono per tutti i divorziati rispostati, significa che tutti quelli che dichiareranno di possederle potranno accostarsi ai sacramenti. E poiché le condizioni poste sono facilmente realizzabili per quasi tutti i divorziati risposati, si può presupporre che quasi tutti le presenteranno come credenziali per esigere i sacramenti.
Anche perché quasi tutte le condizioni sono totalmente soggettive e, in quanto tali, indimostrabili nel foro esterno. Quali prove esterne potrebbero mai dimostrare il “pentimento del fallimento del primo matrimonio”, “lo sforzo di vivere al meglio il secondo matrimonio”, “il desiderio dei sacramenti…”, “l’esclusione di tornare indietro”? Nessuna. Perciò, in ultima analisi, tali condizioni sono semplicemente il paravento per rimettere l’accessibilità ai sacramenti al giudizio soggettivo di ciascun divorziato risposato. E chi può il più, può il meno: se i divorziati risposati, che hanno infranto pubblicamente la fedeltà al matrimonio, possono ricevere la santa comunione, perché non la potranno   ricevere i meri conviventi e gli adepti del libero amore oggi sempre più numerosi? Ma allora a che giova la confessione e il pentimento del male compiuto, se l’eucaristia viene data come le perle ai porci?
  1. h) «Non occorre forse evitare il peggio?». Ma non c’è nulla di peggio che commettere il sacrilegio, ammettendo un divorziato risposato ai sacramenti, giustificandolo con un’eresia. «Quando i figli dei divorziati risposati non vedono i genitori accostarsi ai sacramenti di solito anche loro non trovano la via verso la confessione e la comunione». Errore pastorale. Accade sempre più spesso che i figli di coppie non praticanti e non credenti siano spinti alla fede e ai sacramenti, anche per non ripetere gli stessi sbagli dei genitori. Al contrario, coppie che si accostano ai sacramenti in modo sacrilego, inducono al sacrilegio anche i loro figli, spingendoli così ad un peccato molto più grave della semplice mancanza di pratica sacramentale.
  2. i) «Non mettiamo in conto che perderemo anche la prossima generazione, e forse pure quella dopo?» Perderemo le prossime generazioni se perderemo la fedeltà alla Verità rivelataci da Cristo, e trasmessaci dalla Scrittura e dalla Tradizione. La fecondità della Chiesa dipende dalla fedeltà Cristo, non da stratagemmi umani che, nella misura in cui contraddicono la Verità rivelata, si ritorcono contro la Chiesa e contro l’umanità. Come la fecondità del tralcio è nella sua unione vitale con la vite, così la fecondità della Chiesa è nella sua unione con Cristo, nella fedeltà alla sua Parola.
La causa dell’apostasia delle nuove generazioni dalla fede cattolica, non è l’esclusione dei divorziati risposati alla comunione sacramentale, ma è la diminuzione della fede e della carità dei cristiani, della quale il fenomeno dei divorziati risposati è uno degli effetti più eclatanti e più dolorosi.
Per non perdere le prossime generazioni, non dobbiamo permettere ai divorziati risposati di comunicarsi sacramentalmente, ma dobbiamo fare in modo che diminuisca drasticamente il numero dei divorziati risposati e dei divorziati in genere. Questo sarà possibile solo se crescerà la nostra fede nel sacramento dell’Eucaristia e nell’unità e indissolubilità del matrimonio; fede che da viene minata da quanto visto sopra.
  1. l) «La nostra prassi collaudata, non si dimostra controproducente?». Niente affatto. I luterani e gli anglicani, che praticano da tempo l’ammissione dei divorziati risposati ai loro “sacramenti”, sperimentano un abbandono della fede e della pratica religiosa da parte delle nuove generazioni molto più grave della nostra.
Conclusione
Esattamente al contrario di quello che propone Kasper, il problema dei divorziati risposati, nella Chiesa, si risolve solo riaffermando la possibilità e il valore della fedeltà al proprio coniuge legittimo, anche se fisicamente separato. Fedeltà che, in alcuni casi, comporta l’accettazione della perfetta continenza, confidando nell’aiuto sovrabbondante della Grazia di Dio, alimentata e sostenuta da un’assidua vita sacramentale.