lunedì 3 ottobre 2011

Francesco d'Assisi: Articoli e Conferenze del p. Raniero Cantalamessa ofmcapp.

“Osserviamo la regola che abbiamo promesso”


2009-04-15- Assisi, Capitolo delle Stuoie, nell’VIII Centenario dell’approvazione della Regola di S. Francesco



1. Il carisma allo stato nascente Raniero Cantalamessa

La mia riflessione inizia con una domanda: cosa ricordiamo esattamente in questo anno 2009? Non l’approvazione della “Regola che abbiamo promesso”, che è la Regola Bollata, ma l’approvazione orale, da parte di papa Innocenzo III, della primitiva regola, perduta, di san Francesco. Fra quattordici anni, nel 2023, si celebrerà il centenario della Regola Bollata e in quell’occasione, si può essere sicuri, si parlerà in lungo e in largo di essa e della sua importanza. Quest’anno abbiamo una occasione unica per risalire al carisma francescano nel suo stesso sbocciare, per così dire “allo stato puro”. È un kairòs per tutto l’ordine e il movimento francescano, non possiamo lasciarlo passare invano.

I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo “statu nascenti”. Parlando degli stati di effervescenza collettiva, Durkheim ha scritto: “L’uomo ha l’impressione di essere dominato da forze che non riconosce come sue, che lo trascinano, che egli non domina…Si sente trasportato in un mondo differente da quello in cui si svolge la sua esistenza privata. La vita qui non è soltanto intensa, ma è qualitativamente differente”[1]. Per Max Weber la nascita di tali movimenti è legata alla comparsa di un capo carismatico che, rompendo con la tradizione, trascina i suoi seguaci in una avventura eroica, e produce in chi lo segue l’esperienza di una rinascita interiore, una ‘metanoia’, nel senso di san Paolo[2]. La prospettiva di questi autori è sociologica; non spiega da sola i movimenti religiosi, aiuta tuttavia a capirne la dinamica.

Secondo Francesco Alberoni, sono i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica; noi possiamo aggiungervi senza esitazione: e del movimento francescano. Vi è, secondo Alberoni, una indubbia analogia tra la nascita di questi movimenti e il fenomeno dell’innamoramento[3]. Questo fu, in ogni caso, ciò di cui si trattò per Francesco e per suoi seguaci: un innamoramento.

Vi sono fiori che non si riproducono piantando di nuovo il loro seme o un ramoscello della pianta, ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera. Tali sono, tra quelli che conosco, i tulipani e le calle. Io credo che anche l’ordine francescano ha bisogno di ripartire dal bulbo. E il bulbo è la primitiva intuizione, o meglio ispirazione (“Il Signore mi rivelò…”), che Francesco d’Assisi ebbe nel 1209 e che presentò a Innocenzo III.

Il vantaggio enorme di questa fase del carisma francescano, rispetto alla sistemazione giuridica del 1223, è che quest’ultima risente molto più delle contingenze storiche e delle esigenze giuridiche del momento; è assai più datata della regola primitiva e quindi meno trasferibile al nostro tempo. In essa il movimento è già diventato istituzione, con tutti gli acquisti, ma anche le perdite che tale passaggio comporta. Francesco, nota il Sabatier, troverà nelle norme ecclesiastiche, recepite nella Regola definitiva, “delle direttive che daranno una forma precisa a idee intuite vagamente, ma vi troverà anche delle strutture in cui il suo pensiero perderà qualcosa della sua originalità e forza: il vino nuovo sarà messo negli otri vecchi”[4]. Senza togliere nulla al valore inestimabile della Regola definitiva, è a quel primo momento fondante dunque che dobbiamo rifarci se, come si legge nella Lettera dei Generali per questo incontro, vogliamo affrontare con successo “la sfida della rifondazione”.

Per nostra fortuna, il contenuto della regola primitiva è una delle cose meglio conosciute e meno controverse dell’intera storiografia francescana, nonostante che il suo testo sia andato perduto. Nella sua bolla di approvazione della Regola del 1223 “Solet annuere”, papa Onorio III scrive: “Vi confermiamo con l’autorità apostolica, la Regola del vostro ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria, e qui trascritta”. Si direbbe, da queste parole, che si tratta sempre della stessa Regola, solo “trascritta”, cioè messa per iscritto. Sappiamo però che non è così. Senza voler calcare le tinte, come ha fatto un filone ben noto della storiografia francescana, e parlare della Regola definitiva come di qualcosa strappato a Francesco, più che da lui voluto, non c’è dubbio che molta acqua è passata sotto i ponti tra le due date. E molta “acqua” è passata anche sopra la primitiva regola!

Sul tenore di questa primitiva regola siamo informati direttamente da Francesco che nel Testamento scrive: “E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo . Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo confermò”.

Scrive il Celano: “Vedendo che di giorno in giorno aumentava il numero dei suoi seguaci, Francesco scrisse per sé e per i frati presenti e futuri, con semplicità e brevità, una norma di vita o Regola, composta soprattutto di espressioni del Vangelo, alla cui osservanza perfetta continuamente aspirava. Ma vi aggiunse poche altre direttive indispensabili e urgenti per una santa vita in comune[5].

Le “poche parole”, messe per iscritto, comprendevano senza dubbio i testi evangelici che avevano colpito Francesco durante la famosa lettura del vangelo in una Messa e cioè i passi sull’invio in missione dei primi discepoli da parte di Gesù, con le istruzioni a non portare “né oro, né argento, né pane, né bastone, né calzature, né veste di ricambio”[6]. Si pensa, non senza ragione, che parte di questi testi siano quelli contenuti nel capitolo primo della Regola non bollata.

Ma queste non erano che esemplificazioni parziali. Il proposito vero di Francesco è racchiuso nell’espressione che si ritroverà in tutti gli stadi successivi della Regola e che il santo ribadirà nel Testamento: “vivere secondo la forma del santo Vangelo”. Il proposito è un ritorno semplice e radicale al vangelo, cioè alla vita di Gesù e dei suoi primi discepoli. Giustamente i Ministri generali hanno dato alla loro lettera di convocazione di questo capitolo il titolo “Vivere secondo il Vangelo”.

2. Carismatici itineranti

In questa prima fase, Francesco non ha analizzato i contenuti della sua scelta: quali aspetti del Vangelo si proponeva, cioè, di rivivere. Seguendo il suo istinto del “sine glossa”, lo ha preso in blocco, come qualcosa di indivisibile. Noi però possiamo oggi rilevare alcuni contenuti concreti della sua scelta, basandoci su quello che lo vediamo mettersi a fare prima e dopo il viaggio a Roma e l’incontro con il papa. Possiamo parlare delle tre “P” di Francesco: predicazione, preghiera, povertà.

La prima cosa che Francesco si mette a fare è di andare lui stesso e mandare i suoi compagni in giro per i villaggi e i paesi a predicare la penitenza, esattamente come aveva sentito che faceva Gesù. Gesù intercalava la predicazione con tempi di preghiera: di notte, di giorno, sul fare del mattino, a sera tarda, dalla preghiera partiva e alla preghiera ritornava dopo i suoi viaggi; lo stesso fa ora il piccolo gruppo raccoltosi intorno a Francesco. La preghiera faceva da bordo augusto a tutte le attività del giorno. Tutto questo accompagnato da uno stile di vita povero nel senso più comprensivo della parola, cioè fatto di povertà materiale radicale, ma anche di povertà spirituale, cioè semplicità, umiltà, fuga dagli onori: cose tutte che più tardi Francesco racchiuderà nel nome di “Minori” dato ai suoi frati.

È da rilevare un dato importante: questa primitiva esperienza è interamente laicale. Il grande storico Joseph Lortz ha affermato con forza: “Il centro più intimo della pietà del santo cattolico, Francesco d’Assisi, non è clericale”[7].

L’intuizione di Francesco trova una singolare conferma nell’orientamento più recente degli studi sul Gesù storico. E’ divenuto abbastanza comune definire il gruppo di Gesù e dei suoi discepoli, dal punto di vista della sociologia religiosa, come “carismatici itineranti”, anche se il modo con cui questa qualifica è intesa da taluni è soggetta a non poche riserve[8]. “Carismatici” indica il carattere profetico della predicazione di Gesù, accompagnata da segni e prodigi; “itineranti” il suo carattere mobile e il rifiuto di stabilirsi in un luogo fisso, confermato dal detto di Cristo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Non si potrebbe trovare una definizione più adatta di questa per il primitivo gruppo riunito intorno a Francesco: carismatici itineranti.

3. Da Francesco a Cristo

È ora adesso di provare a passare all’oggi, per vedere che cosa possiamo imparare da questo inizio degli inizi del movimento francescano. Il primo pericolo, o illusione, da evitare è quella di poter riprodurre nelle forme esterne e concrete l’esperienza di Francesco. La vita e la storia sono come un fiume: non tornano mai indietro.

I tentativi di riforme francescane in cui prevale l’attenzione ai tratti esterni del francescano nell’immaginario popolare, possono attirare sul momento le simpatie della gente che ammira istintivamente l’anticonformismo e un certo stile hippie, oppure ha nostalgia di un certo passato preconciliare, ma non reggono alla prova del tempo e della vita. È la linfa da cui è nato l’albero che si deve ritrovare, non ripiantare in terra la sua chioma.

Dobbiamo anzitutto metterci nella prospettiva giusta. Quando Francesco guardava indietro vedeva Cristo; quando noi guardiamo indietro vediamo Francesco. La differenza tra lui e noi è tutta qui, ma è enorme. Domanda: In che consiste allora il carisma francescano? Risposta: nel guardare a Cristo con gli occhi di Francesco! Il carisma francescano non si coltiva guardando Francesco, ma guardando Cristo con gli occhi di Francesco.

Cristo è tutto per Francesco: è la sua sola sapienza e la sua vita. Prima di diventare una visione teologica in san Bonaventura e Scoto, il cristocentrismo fu una esperienza vissuta, esistenziale e irriflessa di Francesco. Non c’è tempo, e neppure bisogno, di moltiplicare le citazioni. Alla fine della vita, a un fratello che lo esortava a farsi leggere le Scritture, Francesco rispondeva: “Per quanto mi riguarda, mi sono già preso tanto dalle Scritture, da essere più che sufficiente alla mia meditazione e riflessione. Non ho bisogno di più, figlio: conosco Cristo povero e Crocifisso”[9].

Siamo nell’anno paolino ed è sommamente istruttivo un confronto tra la conversione di Paolo e quella di Francesco. L’una e l’altra sono state un incontro di fuoco con la persona di Gesù; entrambi sono stati “afferrati da Cristo” (Fil 3, 12). Entrambi hanno potuto dire: ”Per me vivere è Cristo” e “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Fil 1, 21; Gal 2,20); entrambi hanno potuto dire –Francesco in senso ancora più forte che Paolo: “Io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo” (Gal 6,17). È significativo che i testi della Liturgia delle ore e della Messa della festa di san Francesco siano presi in gran parte dalle lettere di Paolo.

La famosa metafora delle nozze di Francesco con Madonna Povertà che ha lasciato tracce profonde nell’arte e nella poesia francescane può essere deviante. Non ci si innamora di una virtù, fosse pure la povertà; ci si innamora di una persona. Le nozze di Francesco sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo. La risposta di Francesco a chi gli chiedeva se intendeva prendere moglie: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista”, viene di solito male interpretata. Dal contesto appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la perla preziosa, cioè Cristo. “Sposa, commenta il Celano, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli è il tesoro nascosto che egli cercò”[10].

4. Una predicazione francescana rinnovata

Alla luce di queste premesse proviamo a vedere come potremmo oggi attuare quei tre aspetti fondamentali della primitiva esperienza francescana che ho evidenziato: predicazione, preghiera e povertà.

A proposito del primo, la predicazione, ci si deve porre anzitutto una domanda inquietante: che posto occupa oggi la predicazione nell’ordine francescano? In una mia predica alla Casa Pontificia feci una volta delle riflessioni che credo possono servire anche a noi qui. Nelle chiese protestanti, e specialmente in certe nuove chiese e sètte, la predicazione è tutto. Di conseguenza, è ciò a cui vengono avviati e in cui trovano naturale modo di esprimersi gli elementi più dotati. E' l'attività numero uno nella Chiesa. Chi sono invece quelli che sono riservati alla predicazione tra noi? Dove vanno a finire le forze più vive e più valide della Chiesa? Che cosa rappresenta l'ufficio della predicazione, tra tutte le possibili attività e destinazioni dei giovani preti? A me sembra di scorgere un grave inconveniente: che alla predicazione si dedichino solo gli elementi che rimangono dopo la scelta per gli studi accademici, per il governo, per la diplomazia, per l'insegnamento, per l'amministrazione.

Parlando alla Casa Pontificia dissi: bisogna ridare all'ufficio della predicazione il suo posto d'onore nella Chiesa; qui aggiungo: bisogna ridare all’ufficio della predicazione il posto d’onore nella famiglia francescana. Mi ha colpito una riflessione del de Lubac: "Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. E', al contrario, l'insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta"[11]. San Paolo, il modello di tutti i predicatori, certamente metteva la predicazione prima di ogni cosa e tutto subordinava ad essa. Faceva teologia predicando e non una teologia da cui lasciare poi che altri desumessero le cose più elementari da trasmettere ai semplici fedeli nella predicazione.

Noi cattolici siamo più preparati, dal nostro passato, a fare i "pastori" che i "pescatori" di uomini, cioè siamo più preparati a pascere le persone che sono rimaste fedeli alla Chiesa, che non a portare ad essa nuove persone, o a "ripescare" quelle che se ne sono allontanate. La predicazione itinerante scelta per sé da Francesco, risponde proprio a questa esigenza. Sarebbe un peccato se l’esistenza ormai di chiese e grandi strutture proprie facessero anche di noi francescani solo dei pastori e non dei pescatori di uomini. I francescani sono “evangelici” per vocazione originaria, i primi veri “evangelici”; non possono permettere che in certi continenti, come l’America Latina, la predicazione itinerante sia appannaggio delle sole chiese “evangeliche” protestanti.

Anche sul contenuto della nostra predicazione ci sarebbero delle osservazioni importanti da fare. Si sa che la primitiva predicazione francescana era tutta incentrata intorno al tema della “penitenza”, al punto che il primitivo nome che i frati si diedero fu quello di “ penitenti di Assisi”[12]. Per predicazione penitenziale si intendeva allora una predicazione centrata sulla conversione nel senso di cambiamento dei costumi, quindi di carattere morale. Fu il mandato che diede ai frati Innocenzo III: “Andate, predicate a tutti la penitenza”[13]. Nella Regola definitiva questo contenuto morale si specifica: i predicatori devono annunciare ”i vizi e le virtù, la pena e la gloria” [14].

Questo è un punto in cui un ritorno meccanico all’origine sarebbe fatale. In una società tutta impregnata di cristianesimo, questo delle opere era l’aspetto su cui era più naturale e urgente insistere. Oggi non è più così. Viviamo in una società in molti paesi diventata post-cristiana; la cosa più necessaria è aiutare gli uomini a venire alla fede, scoprire Cristo. Per questo non basta una predicazione morale o moralistica, occorre una predicazione kerigmatica che vada diritto al cuore del messaggio, annunciando il mistero pasquale di Cristo. Fu con questo annuncio che gli apostoli evangelizzarono il mondo pre-cristiano e sarà con esso che possiamo sperare di ri-evangelizzare il mondo post-cristiano.

Francesco, e grazie a lui, in parte anche i suoi primi compagni riuscirono a evitare questo limite moralistico nella loro predicazione. In lui vibra in tutta la sua forza la novità evangelica. Il vangelo è davvero vangelo, cioè lieta notizia; annuncio del dono di Dio all’uomo prima ancora che risposta dell’uomo. Dante ha colto bene questo clima, quando dice di lui e dei suoi primi compagni:

“La lor concordia e i lor lieti sembianti
amore e meraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi”[15].

Avevano trovato, dicono le fonti, il tesoro nascosto e la perla preziosa e volevano farla conoscere a tutti[16]. L’aria che si respira intorno a Francesco non è quella di certi predicatori francescani posteriori, specie nel periodo della Controriforma, tutta centrata sulle opere dell’uomo, austera e afflittiva, ma di un’austerità più vicina a quella di Giovanni Battista che a quella di Gesù. L’immagine stessa di Francesco viene gravemente alterata in questo clima. Quasi tutti i dipinti di questo periodo lo rappresentano in meditazione con un teschio in mano, lui per il quale la morte era una buona sorella!

Continuiamo, dunque pure noi francescani a predicare la conversione, ma diamo a questa parola il senso che le dava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Prima di lui convertirsi voleva sempre dire cambiare vita e costumi, tornare indietro (è il senso dell’ebraico shub!), all’osservanza della legge e all’alleanza violata. Con Gesù non vuol dire più tornare indietro, ma fare un balzo in avanti e entrare nel regno che è venuto gratuitamente tra gli uomini. “Convertitevi e credete” non vuol dire due cose separate, ma la stessa cosa: convertitevi, cioè credete alla buona notizia! È la grande novità evangelica e Francesco l’ha colta d’istinto, senza attendere l’odierna teologia biblica.

5. Una preghiera francescana

Il secondo elemento che caratterizza la primitiva esperienza di Francesco, abbiamo visto, è una intensa vita di preghiera. In questa fase iniziale, la preghiera francescana, è, come la predicazione, una preghiera carismatica. Più tardi, con la clericalizzazione dell’ordine, l’ufficio divino diventerà il cardine della preghiera dei frati, ma all’inizio non c’erano breviari né altri libri. Pregavano spontaneamente, come lo Spirito suggeriva, da soli o insieme. Un capitolo dei Fioretti ha conservato un ricordo di questa preghiera senza libri di Francesco e dei compagni[17].

Come ritrovare qualcosa nelle nostre comunità di questa preghiera spontanea, sorgiva? Prima di essere la preghiera della primitiva comunità francescana, essa fu la preghiera della primitiva comunità cristiana. Paolo scriveva alle comunità: “Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle” (1 Cor 14,26); e ancora: “intrattenetevi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore” (Ef 5,19).

Diciamocelo pure: la preghiera comune delle comunità tradizionali rischia di ridursi facilmente a quello che Isaia definiva “un imparaticcio di usi umani”, un “onorare Dio con le labbra mentre il cuore è lontano da lui” (cf. Is 29, 13-14). Non dobbiamo certo disprezzare la preghiera liturgica, ma è necessario sostenerla e mantenerla viva con altri tipi di preghiera, da sola non basta. Noi conosciamo due soli generi di preghiera: la preghiera liturgica e la preghiera personale. La preghiera liturgica è comunitaria, ma non spontanea; la preghiera personale è spontanea, ma non comunitaria. Ci occorre una preghiera che sia al tempo stesso comunitaria e spontanea e questo è ciò che chiamiamo preghiera carismatica, non chissà quali strane forme di preghiera.

Essa permetterebbe, in certe circostanze o all’interno della stessa preghiera liturgica quando è consentito, dei momenti di autentica condivisione spirituale tra fratelli. Diversamente c’è il pericolo che nelle nostre comunità condividiamo tutto, eccetto che la nostra fede e la nostra esperienza di Gesù. Si parla di tutto eccetto che di lui.

Lo Spirito Santo ha riportato in vita questo tipo di preghiera carismatica, essa è la forza di quasi tutte le nuove comunità e i movimenti ecclesiali del dopo Concilio. Possiamo aprirci a questa grazia senza tradire minimamente la nostra identità, anzi manifestandola. Quando nella chiesa apparve il rinnovamento evangelico di Francesco e degli ordini mendicanti in genere, tutti gli ordini preesistenti beneficiarono di questa grazia, vedendovi una sfida a riscoprire anch’essi la loro ispirazione evangelica di semplicità e povertà. Lo stesso dovremmo fare noi ordini tradizionali davanti ai nuovi movimenti suscitati dallo Spirito nella Chiesa.

La preghiera carismatica è essenzialmente una preghiera di lode, di adorazione, e chi, più di Francesco, ha impersonato questo tipo di preghiera? Un teologo gesuita, già docente alla Gregoriana, Francis Sullivan, ha definito Francesco d’Assisi “il più grande carismatico della storia della Chiesa”. Il rinnovamento dell’ordine francescano appare costantemente legato, nella sua storia, al rinnovamento della preghiera; è partito quasi sempre da case di ritiro e di preghiera,

6. Essere “per i poveri” e “essere poveri”

Per quanto riguarda il terzo elemento, la povertà, dirò solo qualcosa che aiuta a collocare l’ideale francescano della povertà nella storia della salvezza e della Chiesa e a vedere come, anche in questo punto, Francesco attua un ritorno al vangelo.

A proposito della povertà, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento segna un salto di qualità. Esso può essere sintetizzato così: l’Antico Testamento ci presenta un Dio “per i poveri”, il Nuovo Testamento un Dio che si fa, lui stesso, “povero”. L’Antico Testamento è pieno di testi sul Dio “che ascolta il grido dei poveri”, che “ha pietà del debole e del povero”, che “difende la causa dei miseri”, che “fa giustizia agli oppressi”[18]; ma solo il Vangelo ci parla del Dio che si fa uno di loro, che sceglie per sé la povertà e la debolezza: “Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9). La povertà materiale, da male da evitare, acquista l’aspetto di un bene da coltivare, di un ideale da perseguire. Questa è la grande novità recata da Cristo.

In questo modo, sono poste ormai in chiaro le due componenti essenziali dell’ideale della povertà biblica, che sono: essere “per i poveri” ed essere “poveri”. La storia della povertà cristiana è la storia del diverso atteggiarsi di fronte a queste due esigenze.

Una prima sintesi e un equilibrio tra le due istanze è raggiunto nel pensiero di uomini come san Basilio e sant’Agostino e nell’esperienza monastica da essi avviata, in cui, alla più rigorosa povertà personale, si unisce una uguale sollecitudine per i poveri e i malati che si concretizza in apposite istituzioni che serviranno, in alcuni casi, come modello alle future opere caritative della Chiesa.

Nel medio evo, assistiamo al ripetersi di questo ciclo in un altro contesto. La Chiesa, e in particolare gli antichi ordini monastici, diventati in occidente assai ricchi, coltivano ormai la povertà quasi solo nella forma dell’assistenza ai poveri, ai pellegrini, cioè gestendo istituzioni caritative. Contro questa situazione, a partire dall’inizio del secondo millennio, insorgono i cosiddetti movimenti pauperistici che mettono in primo piano l’esercizio effettivo della povertà, il ritorno della Chiesa alla semplicità e povertà del Vangelo.

L’equilibrio e la sintesi sono realizzati, questa volta, dagli ordini mendicanti e in particolare da Francesco che si sforza di praticare, ad un tempo, un radicale spogliamento e una cura amorevole per i poveri, i lebbrosi, e soprattutto di vivere la propria povertà in comunione con la Chiesa, non contro di essa.

Con tutte le cautele del caso, possiamo forse scorgere una dialettica analoga anche in epoca moderna. L’esplosione della coscienza sociale nel secolo scorso e del problema del proletariato ha di nuovo rotto l’equilibrio, spingendo a mettere tra parentesi l’ideale della povertà volontaria, scelta e vissuta alla sequela di Cristo, per interessarsi al problema dei poveri. Sull’ideale di una Chiesa povera, prevale la preoccupazione “per i poveri” che si traduce in mille iniziative e istituzioni nuove, soprattutto nell’ambito dell’educazione dei fanciulli poveri e dell’assistenza ai più abbandonati. Anche la dottrina sociale della Chiesa è un prodotto di questo clima spirituale.

È stato il concilio Vaticano II a rimettere in primo piano il discorso su “Chiesa e povertà”. Nella costituzione sulla Chiesa si legge, a questo proposito: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via...Come Cristo è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito, a cercare e salvare ciò che era perduto, così la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza e in loro intende servire a Cristo”[19]. In questo testo sono riunite entrambe le cose: l’essere poveri e l’essere a servizio dei poveri.

Questi sviluppi interpellano anche noi francescani di oggi. Non dovremmo commettere l’errore di ritornare alla povertà come era concepita, negli ordini religiosi, prima di Francesco, e nella Chiesa universale prima del Vaticano II, cioè quasi solo come un essere “per i poveri”, un promuovere iniziative sociali. A noi francescani, non basta una “scelta preferenziale dei poveri”, occorre anche una “scelta preferenziale della povertà”.

Ciò che questo significa in concreto, varia da luogo a luogo e non è mia intenzione avventurarmi in suggerimenti pratici. Dico solo che condivido la preoccupazione espressa dal mio Ministro generale, Fr. Mauro Jori, nella sua recente lettera intitolata: “Ravviviamo la fiamma del nostro carisma!”, là dove denuncia il pericolo, presente in certi ambienti, di trasformare la scelta della povertà di san Francesco in una scelta di ricchezza e di promozione sociale, che separa dalla gente comune più che portare a condividere il loro tenore di vita.

7. La nostra collocazione nella Chiesa

Vorrei adesso cercare di vedere come si collocò Francesco nei confronti della Chiesa del suo tempo e come, sul suo esempio, dobbiamo collocarci noi francescani di oggi. Dei rapporti di Francesco con la Chiesa gerarchica abbiamo, come è noto, due visioni opposte: quella della storiografia ufficiale dell’ordine, del Francesco “vir catholicus et totus apostolicus”, e quella degli Spirituali di allora, fatta propria dal Sabatier, che parla di un conflitto più o meno latente e di strumentalizzazione di Francesco da parte della gerarchia.

Quest’ultima è quella che, per ovvie ragioni di spettacolarità, è stata fatta propria in genere dai film su Francesco. Tutti ricordano la frase che un cardinale pronuncia, in modo ammiccante, nel film di Zeffirelli “Fratello Sole e sorella Luna”, dopo che Innocenzo III ha accolto Francesco: “Finalmente abbiamo un uomo che parlerà ai poveri e li porterà nuovamente a noi”. Anche la riduzione televisiva di due anni fa su Francesco e Chiara, per altro non priva di valore, indulge in questo stereotipo.

La storia raramente si svolge in bianco e nero; spesso prevalgono le mezze tinte. Le intenzioni umane, anche dei capi della Chiesa, non sono sempre univoche e puramente spirituali, specie in un tempo, come quello di Innocenzo III, in cui il papa era la realtà politica più in vista del mondo occidentale. Ma perché pensare che il papa e i cardinali pensassero unicamente a riconquistare le masse per sé e non anche per Gesù Cristo e il vangelo? Alla interpretazione “malevola” dell’atteggiamento della gerarchia possiamo, con buone ragioni anche storiche, opporre una interpretazione “benevola”. La Chiesa gerarchica si rende conto di non potere, a causa del ruolo che svolge nel mondo, raggiungere direttamente le masse popolari in fermento e vede in Francesco e in Domenico gli strumenti per questa necessità urgente della Chiesa di fronte all’aggressività dei movimenti eretici.

Abbiamo una conferma di questa intenzione pastorale e non politica dell’atteggiamento di Innocenzo III, nell’origine della devozione di Francesco per il Tau. Nel profeta Ezechiele leggiamo:

“La gloria del Dio di Israele, dal cherubino sul quale si posava si alzò verso la soglia del tempio e chiamò l'uomo vestito di lino che aveva al fianco la borsa da scriba. Il Signore gli disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono” (Ez 9, 1-4).

Nel discorso con cui aprì il concilio Lateranense IV nel 1215, l’anziano papa Innocenzo III riprese questo simbolo. Avrebbe voluto, diceva, essere lui stesso quell’uomo “vestito di lino, con una borsa da scriba al fianco” e passare personalmente per tutta la Chiesa a segnare un Tau sulla fronte delle persone che accettavano di entrare in stato di vera conversione [20].

Non poteva evidentemente farlo di persona e non solo perché era anziano. Ad ascoltarlo, nascosto tra la folla, si pensa ci fosse anche Francesco d’Assisi; è certo, in ogni caso, che l’eco del discorso del Papa giunse fino a lui che raccolse l’appello e lo fece suo. Da quel giorno cominciò a predicare, ancora più intensamente di prima, la penitenza e la conversione e a segnare un Tau sulla fronte delle persone che si avvicinavano a lui. Il Tau divenne il suo sigillo. Con esso firmava le sue lettere, lo disegnava sulle celle dei frati. San Bonaventura poté dire dopo la sua morte: "Egli ebbe dal cielo la missione di chiamare gli uomini a piangere, a lamentarsi… e di imprimere il Tau sulla fronte di coloro che gemono e piangono" [21]. Fu per questo che Francesco fu talvolta chiamato “l’angelo del sesto sigillo”: l’angelo che reca, lui stesso, il sigillo del Dio vivente e lo segna sulla fronte degli eletti (cf. Ap 7,2 s.).

Francesco si assunse il compito che la Chiesa gerarchica non poteva assolvere, neppure mediante il suo clero secolare. Lo fece senza spirito né polemico né apologetico. Non polemizzò né con la Chiesa istituzionale né con i nemici della Chiesa istituzionale, con nessuno. In questo il suo stile è diverso anche da quello del suo contemporaneo Domenico.

Ci domandiamo: cosa dice a noi tutto questo? Per motivi diversi da allora (ma non del tutto!), anche oggi le masse si sono alienate dalla Chiesa istituzionale. Si è creato un fossato. Molta gente non è più in grado di arrivare a Gesù attraverso la Chiesa; bisogna aiutarla ad arrivare alla Chiesa attraverso Gesù, ripartendo da lui e dal vangelo. Non si accetta Gesù per amore della Chiesa, ma si può accettare la Chiesa per amore di Gesù.

Ecco un compito proprio dei francescani. Siamo in una posizione unica per farlo. Ci predispone a questo ruolo l’eredità del nostro padre Francesco, l’immenso patrimonio di credibilità che si è acquistato presso l’umanità intera. La sua intuizione di una fraternità universale, che si estende a tutte le creature, accompagnata dalla scelta della minorità, fanno di lui e dei suoi seguaci i fratelli di tutti, i nemici di nessuno, i compagni degli ultimi. La scelta di papa Giovanni Paolo II, di Assisi, come luogo di incontro delle religioni, e innumerevoli altre iniziative sono un segno di questa vocazione dei figli di Francesco.

La condizione per poter svolgere questo compito di ponte tra la Chiesa e il mondo è avere, come Francesco, un profondo amore e fedeltà alla Chiesa e un profondo amore e solidarietà con il mondo, soprattutto il mondo degli umili. Un mezzo non trascurabile è anche il nostro saio francescano. Attraverso di esso, Francesco si fa presente anche visibilmente agli uomini d’oggi. Se la gente non ci vede mai con l’abito come fa a individuarci come figli di Francesco? Sono convinto che il giorno che i francescani non portassero mai in pubblico, nemmeno quando sono in paesi cristiani e cattolici, l’abito religioso priverebbero il mondo di un grande dono e se stessi di un grande aiuto. Attraverso il suo abito, Francesco, come dice di Abele la Lettera agli Ebrei: “defunctus adhuc loquitur”: morto, parla ancora (Eb 11,4). Io ne ho una riprova personale nell’aiuto che trovo nell’abito nel mio servizio in televisione.

8. Una nuova Pentecoste francescana

Come tradurre in atto tutte le proposte evocate e quelle ancora più numerose che certamente emergeranno dagli interventi che seguiranno? La risposta ci viene dalla parola pronunciata da Francesco vicino alla fine della sua vita: “Io ho fatto il mio dovere; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo!” [22]. Questa parola non era rivolta soltanto ai presenti, ma ai suoi seguaci di tutti i tempi.

Siamo richiamati a quello che si diceva all’inizio sul carisma francescano: esso non consiste nel guardare a Francesco, ma nel guardare a Cristo con gli occhi di Francesco. C’è una cosa che permane immutata da Francesco a noi, al di sotto di tutti mutamenti storici e sociali: lo Spirito del Signore. Tutta la vita del Poverello, se ci si fa caso, si svolge, sotto la guida dello Spirito Santo. Quasi ogni capitolo della sua vita si apre con l’osservazione. “Francesco, mosso, o ispirato, dallo Spirito Santo, andò, disse, fece…”.

Nella ricorrenza del XVI centenario del con cilio ecumenico Costantinopolitano 1- il concilio che definì la divinità dello Spirito Santo -, il papa Giovanni Paolo II scrisse: “Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato... non può realizzarsi se non nel lo Spirito Santo, cioè con l'aiuto della sua luce e del la sua forza”[23] . Questo vale più che mai per il rinnovamento degli ordini religiosi.

Ci sono due soli tipi di rinnovamento possibili: un rinnovamento secondo la legge e un rinnovamento secondo lo Spirito. Il cristianesimo –Paolo ce lo insegna – è un rinnovamento secondo lo Spirito (Tit 3,5), non secondo la legge. In realtà la legge non è riuscita a rinnovare veramente nessun ordine religioso; mette in luce la trasgressione, ma non da la vita. Essa è utile e preziosa se messa a servizio della “legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8,2), non se pretende di sostituirla. Se, come scrive san Tommaso d’Aquino, anche la lettera del Vangelo e i precetti morali contenuti in esso ucciderebbero se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede e la forza dello Spirito Santo”[24], cosa dobbiamo dire di tutte le altre leggi positive, comprese le regole monastiche?

Dobbiamo domandarci che cosa può significare per noi francescani, accogliere la grazia della “novella Pentecoste” invocata da Giovanni XXIII. La seconda generazione francescana vide se stessa come la realizzazione delle profezie di Gioacchino da Fiore di una nuova era dello Spirito. C’era, evidentemente, dell’ingenuità, se non dell’orgoglio, in questa identificazione, senza contare che la tesi stessa di una terza era dello Spirito Santo –sia o no da attribuirsi in questa forma a Gioacchino - è eretica e inaccettabile. E tuttavia c’è qualcosa che possiamo ritenere da questo capitolo discusso della nostra storia: la convinzione di essere una realtà suscitata dallo Spirito Santo e che è chiamata a tenere viva nel mondo la fiamma della Pentecoste.

Il primo capitolo delle Stuoie si aprì il giorno di Pentecoste del 1221; si aprì dunque con il solenne canto del Veni creator che faceva ormai parte della liturgia di Pentecoste. Quest’inno, composto nel IX secolo ha accompagnato la Chiesa in ogni grande evento svoltosi nel secondo millennio cristiano: ogni concilio ecumenico, sinodo, ogni nuovo anno, o secolo è iniziato con il suo canto; tutti i santi vissuti in questi dieci secoli l’hanno cantato e hanno lasciato nelle parole l’impronta della loro devozione e amore allo Spirito.

Con esso invochiamo anche noi la presenza dello Spirito su questo nuovo Capitolo delle stuoie. Vieni Spirito creatore. Rinnova il prodigio operato all’inizio del mondo. Allora la terra era vuota, deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso, ma quando tu cominciasti ad aleggiare su di esso, il caos si trasformò in cosmo (cf. Gen 1,1-2), cioè in qualcosa di bello, ordinato, armonioso. Anche noi sperimentiamo il vuoto, l’impotenza a darci una forma e una vita nuova. Aleggia, vieni su di noi; trasforma il nostro caos personale e collettivo in una nuova armonia, in “qualcosa di bello per Dio” e per la Chiesa.

Rinnova anche il prodigio delle ossa aride che riprendono vita, si alzano in piedi e sono un esercito numeroso (cf. Ez 37, 1 ass.). Noi non diciamo più come Ezechiele: “Spirito soffia dai quattro venti”, come se non sapessimo ancora da dove soffia lo Spirito. Nella settimana pasquale diciamo: “Spirito Vieni Spirito dal costato trafitto di Cristo sulla croce! Vieni dalla bocca del Risorto!”.




[1] E. Durkheim, Giudizi di valore e giudizi di realtà, in Sociologia e filosofia, Comunità, Milano 1963, pp. 216 s, (cit. da F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 198625.
[2] M. Weber, Economia e società, Comunità, Milano 1961, vol. II, pp. 431 ss. (cit. da Alberoni, ib.).
[3] Cf. F. Alberoni, op. cit. pp. 5-9.
[4] P. Sabatier, Vita di san Francesco d’Assisi, Mondadori, Milano 1978, p. 75.
[5] Celano, Vita prima, XIII, 32 (FF, 372)
[6] Cf. Leggenda dei tre compagni VIII, 25 (FF 1427).
[7] J. Lordtz, Francesco d’Assisi. Un santo unico, Edizioni Paoline 1973, p. 132.
[8] Cf. G. Theissen e A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, pp. 235 ss. e la critica di D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I,1, Paideia, Brescia 2006, pp. 71ss.
[9] Celano, Vita seconda, LXXI, 105 (FF, 692)
[10] Cf. Celano, Vita prima, III, 7 (FF, 331).
[11] H. de Lubac, Exégèse médiévale, I,2, Parigi 1959, p.670.
[12] Leggenda dei tre compagni, X, 37 (FF, 1441).
[13] Celano, Vita prima,XIII, 33 (FF, 374)
[14] Regola Bollata, cap. IX.
[15] Divina Commedia, Paradiso, XI, vv.76-78.
[16] Cf. Celano, Vita prima, III, 6-7 (FF, 328-331).
[17] Fioretti cap. IX (FF, 1837).
[18] Su questo tema di Dio come sovrano giusto che si fa vindice dei poveri nell’Antico Testamento, cf. J. Dupont, Le beatitudini, Edizioni Paoline 1976, pp.596 ss.
[19] Lumen gentium, 8.
[20] Innocenzo III, Sermo VI (PL 217, 673-678).
[21] S. Bonaventura, Legenda maior, 2 (FF, 1022).
[22] Celano, Vita seconda, CLXII, 214 (FF, 804).
[23] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “A concilio Costantinopolitano I”, in AAS 73 (1981), p. 489.
[24] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1-2.

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Francesco e Chiara due innamorati, ma di chi?


da "Avvenire" del 20.10.2007

È divenuto un luogo comune parlare dell’amicizia tra Chiara e Francesco in termini di amore umano. Nel suo noto saggio su Innamoramento e amore Francesco Alberoni scrive che “il rapporto fra santa Chiara e san Francesco ha tutti i caratteri di un innamoramento trasferito (o sublimato) nella divinità”. “Francesco e Chiara”di Fabrizio Costa, la fiction televisiva in onda su Rai Uno nei giorni 6 e 7 Ottobre, meglio forse di “Fratello Sole e sorella Luna” di Zeffirelli, ha saputo evitare questo cedimento al romanticismo, senza nulla togliere alla bellezza anche umana di un tale incontro.



Come ogni uomo, anche se santo, Francesco può aver sperimentato il richiamo della donna e del sesso. Le fonti riferiscono che per vincere una tentazione del genere una volta il santo si rotolò d’inverno nella neve. Ma non si trattava di Chiara! Quando tra un uomo e una donna sono uniti in Dio, questo vincolo, se è autentico, esclude ogni attrazione di tipo erotico, senza neppure che ci sia lotta. È come messo al riparo. È un altro tipo di rapporto. Tra Chiara e Francesco c’era certamente un fortissimo legame anche umano, ma di tipo paterno e filiale, non sponsale. Francesco chiamava Chiara la sua “pianticella” e Chiara chiamava Francesco “il nostro Padre”.

L’intesa straordinariamente profonda tra Francesco e Chiara che caratterizza l’epopea francescana non viene “dalla carne e dal sangue”. Non è, per fare un esempio altrettanto celebre, come quella tra Eloisa ed Abelardo, tra Dante e Beatrice. Se così fosse stato, avrebbe lasciato forse una traccia nella letteratura, ma non nella storia della santità. Con una nota espressione di Goethe, potremmo chiamare quella di Francesco e Chiara una “affinità elettiva”, a patto di intendere “elettiva” non solo nel senso di persone che si sono scelte a vicenda, ma nel senso di persone che hanno fatto la stessa scelta.

Antoine de Saint-Exupéry ha scritto che “amarsi non vuol dire guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Chiara e Francesco non hanno davvero passato la vita a guardarsi l’un l’altro, a stare bene insieme. Si sono scambiati tra loro pochissime parole, quasi solo quelle riferite nelle fonti. C’era una stupenda riservatezza tra loro, tanto che il santo veniva a volte rimproverato amabilmente dai suoi frati di essere troppo duro con Chiara.

Solo alla fine della vita, vediamo questo rigore nei rapporti attenuarsi e Francesco cercare sempre più spesso conforto e conferma presso la sua “Pianticella”. È a San Damiano che si rifugia prossimo alla morte, divorato da malattie, ed è vicino a lei che intona il cantico di Frate Sole e di sorella Luna, con quell’elogio di “Sora Acqua”, “utile et humile et pretiosa et casta”, che sembra scritto pensando a Chiara.

Invece di guardarsi l’un l’altro, Chiara e Francesco hanno guardato nella stessa direzione. E si sa qual è stata per loro questa “direzione”. Chiara e Francesco erano come i due occhi che guardano sempre nella stessa direzione. Due occhi non sono solo due occhi, cioè un occhio ripetuto due volte; nessuno dei due è solo un occhio di riserva o di ricambio. Due occhi che fissano l’oggetto da angolature diverse danno profondità, rilievo all’oggetto, permettono di “avvolgerlo” con lo sguardo. Così è stato per Chiara e Francesco. Essi hanno guardato lo stesso Dio, lo stesso Signore Gesù, lo stesso Crocifisso, la stessa Eucaristia, ma da “angolature”, con doni e sensibilità propri: quelli maschili e quelli femminili. Insieme hanno colto di più di quanto avrebbero potuto fare due Francesco o due Chiara.
Se c’è una lacuna nella fiction su Francesco e Chiara è forse l’insufficiente rilievo dato alla preghiera e con essa alla dimensione soprannaturale della loro vita. Una lacuna forse inevitabile quando la vita dei santi è portata sullo schermo. La preghiera è silenzio, quiete, solitudine, mentre la parola “cinema” viene dal greco kinema che significa movimento! Ha fatto eccezione il film “Il grande silenzio” sulla vita dei certosini, ma anch’esso non reggerebbe sul piccolo schermo.

In passato si tendeva a presentare la personalità di Chiara troppo subordinata a quella di Francesco, appunto come “sorella Luna” che vive di riflesso della luce di “fratello Sole”. L’ultimo esempio in questo senso è il libro uscito nell’estate scorsa su “l’amicizia tra Francesco e Chiara” (John M. Sweeney, Light in the Dark Age: the Friendship of Francis and Clare of Assisi, Paraclete Press 2007 ).

Tanto più quindi è da lodare, nella fiction televisiva, la scelta di presentare Francesco e Chiara come due vite parallele, che si intrecciano e si svolgono in sincronia, con uguale spazio dato all’uno e all’altra. È la prima volta che avviene, in questa forma. Ciò risponde alla sensibilità attuale tesa a mettere in luce l’importanza della presenza femminile nella storia, ma nel caso nostro corrisponde alla realtà e non è una forzatura.

La scena che mi ha colpito di più vedendo, in anteprima, la fiction “Francesco e Chiara” è quella emblematica iniziale, una specie di chiave di lettura di tutta la storia. Francesco cammina su un prato, Chiara lo segue mettendo i suoi piedi, quasi per gioco, sulle orme lasciate da Francesco e alla domanda di lui: “Stai seguendo le mie orme?”, risponde luminosa: “No, altre molto più profonde”.

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padre Raniero Cantalamessa ofmcapp.









Discorso al Capitolo Francescano - Assisi, 9 feb 2001


Relatore (Padre Agostino Gardin): Allora mi permetta, Padre Raniero, una parola sola nel ringraziarLa che è venuto sfidando il traffico feroce di questo Venerdì con la pioggia. Padre Raniero Cantalamessa è un volto noto in Italia, perché compare spesso in televisione ed è un volto molto noto in Vaticano, perché è il predicatore del Papa. Predicatore Apostolico, quindi; noi abbiamo scelto bene. E’ un frate cappuccino. E questo per noi è molto importante; quindi un nostro fratello francescano. La ringraziamo fin d’ora, Padre Raniero, perché non abbiamo dubbi, almeno chi lo conosce non ha dubbi, che ci dirà delle cose interessanti e ci aiuterà in questa giornata, che vuole essere di riflessione, di preghiera e di preparazione per l’elezione del Ministro Generale. Grazie Padre.

P. Cantalamessa: Bene, ringrazio il Ministro Generale per l’onore che mi fa di poter parlare ad un’assemblea così importante, in un momento così delicato, anche, della vita della famiglia francescana. Mi sono ricordato, venendo qui, che san Francesco aveva stabilito per i Capitoli Generali una data precisa, cioè: Pentecoste. Allora, se cronologicamente questo Capitolo non avviene a Pentecoste, almeno spiritualmente dovrebbe avvenire a Pentecoste. Bisogna che si crei quel clima spirituale, per cui penso, che Francesco aveva voluto e scelto la Pentecoste in modo che, questo evento così importante per la vita di una famiglia religiosa, sia un evento spirituale, sia fatto nello Spirito. Colpisce, leggendo le fonti francescane, quante volte all’inizio di un Capitolo nuovo, di una narrazione o, anche, all’interno agli scritti di san Francesco si trova questa espressione : “Francesco mosso dallo Spirito, ispirato dallo Spirito, ecc., ispirato dall’Alto ..”. Si ha l’impressione che Francesco faceva davvero tutto in un clima di Pentecoste, in un clima spirituale. Allora ho pensato, carissimi confratelli, di mettermi con voi in un’atmosfera, in un momento da ricreare lo stato d’animo di Pentecoste, perché non ci può essere uno stato d’animo migliore, un atteggiamento migliore, con cui compiere questo gesto della elezione, che quello di metterci dentro l’atmosfera dello Spirito Santo. Qualcuno mi ha chiesto se c’era un testo scritto, anche per favorire i nostri cari traduttori simultanei; ma, mi pare, che nei Capitoli Generali ci sono tante relazione, tante pagine scritte che si ascoltano, che mi sembrava che aggiungerne ancora altre fosse quasi una crudeltà; mentre, mi sembra più spontaneo affidarci un po' allo Spirito, a quello che lo Spirito vuole dirci in questo momento.

Per creare il clima di Pentecoste la via migliore è quella di rileggere quello che avvenne la prima volta a Pentecoste: l’inaugurazione della Pentecoste; perché, secondo me, questo Capitolo, questa narrazione della venuta dello Spirito ha qualche cosa che rassomiglia all’istituzione dell’Eucarestia, cioè alla celebrazione della Messa. Nella Messa la Chiesa non fa che raccontare quello che Gesù fece nell’Ultima Cena: prese il pane, lo spezzò...però sappiamo che, mentre la Chiesa racconta quello che avvenne nell’Ultima Cena per la potenza dello Spirito Santo invocato nell’epiclesi, quello che avvenne quella notte avviene di nuovo e cioè il pane diventa il corpo di Cristo. Qualcosa di analogo, non di identico naturalmente, perché non è un Sacramento, avviene quando si ascolta la narrazione dell’evento di Pentecoste. Se ascoltato con fede, con apertura, quello che avvenne in quell’anno, in quel giorno, avviene di nuovo e cioè lo Spirito viene, perché la Pentecoste fu inaugurata quel giorno, ma non è mai stata chiusa. La Chiesa è la Pentecoste che continua. Forse, voi avete sentito quel magnifico testo di un metropolita orientale, in un grande raduno ecumenico a Upsala: “Senza lo Spirito Santo Dio è lontano. Il Vangelo è lettera morta. L’autorità della Chiesa è una dominazione. La Liturgia è una pura evocazione. L’agire dei cristiani è una morale da schiavi. Ma con lo Spirito Santo Dio è presente, il Vangelo è Spirito e Vita, l’autorità della Chiesa è servizio, la Liturgia è commemorazione e attesa e l’agire cristiano è deificato.” Uno schema semplice ed efficace senza lo Spirito Santo , con lo Spirito Santo, però, è un’altra cosa.

Tra l’altro c’è un altro motivo per scegliere questa parola come base della nostra riflessione. Quel giorno avvenne il primo Capitolo elettivo della Chiesa, perché fu proprio nel contesto di Pentecoste che, per la prima volta, ci fu un elezione nella Chiesa: fu eletto il dodicesimo Apostolo. E non è senza un motivo, perché questa elezione fa parte della Pentecoste anch’essa; fa parte di questo clima nuovo in cui avvengono tutte le cose. Ricorderete il discorso di Pietro in quella circostanza; o meglio, la preghiera che lui fece: “Mostra, Signore, chi è colui che Tu hai eletto”, che indica l’atteggiamento esatto, perfetto, con cui nella Chiesa si dovrebbe procedere ad un’elezione.

Domandarsi, ognuno, in preghiera : “Mostra, Signore, chi è colui che Tu hai eletto”, in modo da fare in questo gesto il più possibile un’interpretazione della volontà di Dio e il meno possibile un atto umano, politico, diplomatico, come avviene in tutte le elezioni mondane, secolari. Mostraci signore colui che hai scelto. Quella volta sapete che il metodo era quello di tirare a sorte, non è detto però che questo metodo sia canonizzato. Ma anche se non si usa più il metodo di tirare a sorte, si usa un altro sistema di votazione, però l’atteggiamento deve essere quello che ognuno si mette in quest’atteggiamento: “Chi è colui signore che tu hai scelto” il signore risponde, risponde perché in questo modo uno si spoglia delle proprie intenzioni che possono essere più o meno rette e si mette nell’ottica di volere fare la volontà di Dio, di volere essere strumento della volontà di Dio.

Bene, con queste premesse, adesso noi leggiamo il racconto della Pentecoste. Individuiamo due o tre o forse quattro quadri, perché il racconto di Pentecoste è un dramma bello, dramma nel senso originario del termine che qualcosa avviene, non nel senso che finisce in maniera tragica. E’ un dramma. Cambia anche lo scenario, per così dire. C’è una scena di interno all’inizio: il Cenacolo; poi, c’è una scena in esterno, per usare un linguaggio che mi è familiare, perché lo devo usare tutte le settimane, sulla piazza, e poi, di nuovo si ritorna all’interno, con questa comunità che è nata, che vive la sua incipiente vita comunitaria, fatta di gioia, di semplicità. Quella comunità, che per tanti versi, ci richiama alla nostra prima Comunità francescana. Allora la prima scena, il primo quadro sul quale rifletteremo un po' è quello che occupa i primi cinque versetti: “Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro. Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.” Per i traduttori che volessero la referenza è il capitolo secondo degli Atti degli Apostoli, naturalmente.
Bene, in un certo senso, per cominciare con una nota un po' leggera, questo miracolo delle lingue avviene di nuovo. Pietro parlava e tutti l’ascoltavano da questo momento in poi nella loro lingua, come avviene qui; solo che Pietro non aveva la traduzione simultanea, io ho la traduzione simultanea. Io parlo italiano e voi tutti, spero, mi sentite nella vostra lingua. Quando il Signore sta per fare qualcosa di importante, manda prima dei segni, per richiamare l’attenzione degli uomini distratti, e qui ci sono due segni: c’è un vento, un segno per l’orecchio, per l’udito, un vento gagliardo, e il vento era associato allo Spirito Santo già da quella parola di Gesù, riferita da Giovanni. Poi c’è un segno per la vista, si videro delle lingue come di fuoco. Anche qui è un segno eloquente, perché il fuoco era stato associato allo Spirito Santo già da Giovanni Battista. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.

E dopo questi segni... che probabilmente erano accompagnati già da un’azione interiore dello Spirito. E’ strano, alle volte si nota, si vede che prima che il Signore agisca, quando Lui è presente, si crea un’atmosfera strana, soprannaturale, come alle volte quando il cielo fa presagire quello che sta per succedere, se una tempesta o altro. Dopo questi segni la realtà, detta con mezza riga, “tutti furono pieni di Spirito Santo”: questo è l’evento, in assoluto, più importante della storia della salvezza, insieme alla Creazione, all’Incarnazione, al Mistero Pasquale e alla Parosia; ed è descritto con mezza riga “tutti furono pieni di Spirito Santo”. Sta a noi, cari confratelli, non scivolare sopra queste parole, sarebbe come una bomba che non esplode, perché la miccia non viene accesa. E’ tutto qui. Il detonatore è qui. Cosa vuole dire che furono pieni di Spirito Santo? Che cos’è lo Spirito Santo? Lo Spirito Santo è, secondo la povera risposta della nostra teologia, l’amore personale del Padre e del Figlio, e dire amore vuol dire la vita, la gioia, la felicità. Agostino diceva la beatitudine; allora dire che furono tutti pieni di Spirito Santo è come dire, per immaginare in maniera umana, che si sono aperte le cataratte di un diga immensa e adesso questa massa di acqua, che è la vita trinitaria, si è riversata nei piccoli contenitori dei cuori degli Apostoli. Si è compiuto il senso di tutta la storia.

Perché Dio aveva creato il mondo? Perché aveva rivelato la Bibbia? Aveva mandato Gesù Cristo? Per potere un giorno, quando gli uomini fossero stati purificati, preparati come otri nuovi: farli partecipi alla Sua Vita; effondere, come dice la preghiera eucaristica, il Suo Amore su tutte le creature; allietarle con gli splendori della sua luce. Ecco adesso questo è compiuto. Il cuore degli Apostoli è diventato partecipe, un vaso comunicante, per così dire, della vita trinitaria. E siccome questo Spirito Santo è essenzialmente come lo è Dio, Amore, vorrei dire che, gli Apostoli hanno fatto un’esperienza travolgente, come chi è inondato da una massa d’acqua sterminata. Hanno fatto un’esperienza travolgente di essere amati da Dio. Questa parola, che ripetiamo a non finire: “l’Amore di Dio”, che spesso è una parola vuota, quel giorno per gli Apostoli non fu un parola vuota. Cambiò loro la vita. Diede loro un cuore nuovo, il famoso cuore nuovo. E questo lo vediamo. Non è che bisogna immaginarlo, perché da questo momento gli Apostoli sono altre persone.

Cambiati. Cambiati. Vedremo, magari, successivamente dov’è il cambiamento più profondo. San Luca ci ha voluto anche dire qualcosa implicitamente in questi poche versi, con un metodo molto frequente nella Bibbia, che è, potremmo dire, la citazione implicita o il rimando. Qui c’è un rimando a Esodo 19, la teofania del Sinai, ottenuto attraverso dei simboli: il fuoco, il vento...allora Luca ha voluto dire la cosa, forse, più importante di tutte proprio in questo modo implicito. Agostino già in un sermone lo diceva alla gente in questo modo: “Guardaste l’analogia, la somiglianza e la differenza. Cinquanta giorni dopo l’immolazione della Pasqua in Egitto e l’uscita dall’Egitto, perché secondo calcoli interni furono cinquanta giorni, il popolo sul monte Sinai ricevette la legge scritta con il dito di Dio su tavole di pietra ed ora dopo l’immolazione del vero Agnello ecco che il dito di Dio scrive di nuovo la legge. Ma questa volta non su tavole di pietra, ma sulla tavola di carne dei cuori. E’ come dire che lo Spirito Santo è la legge nuova, la legge interiore, la legge che non ti fa fare le cose con la minaccia del castigo, della costrizione, ma ti spinge a fare le cose per attrazione, spontaneamente. Io credo che questa sia la chiave per capire Francesco e tutto quello che ha fatto.

Francesco è l’uomo che ha in pieno sposato, ricevuto la legge nuova interiore. Per cui tutto quello che fa, lo fa spontaneamente, con una spontaneità che a volte disorienta anche chi gli sta intorno; ma è la novità, la libertà di questa legge, che è tutt’altro che libertinaggio. E’ una legge esigentissima, che però fa fare le cose per amore. E noi ce lo dovremmo ricordare questo, perché tutta la vita religiosa, tutta la vita cristiana, ma la vita religiosa soprattutto, se non vuole essere un legalismo, tipo vecchio testamento, deve essere vissuta all’impronta della Pentecoste, cioè alla legge nuova, la legge interiore, che si riassume in un comandamento, quello che Gesù aveva chiamato il comandamento nuovo appunto e cioè l’amore. “Ama e fai ciò che vuoi” diceva Agostino. “Ama e fai ciò che vuoi” cioè preoccupati che nel tuo cuore ci sia l’amore verso quella persona, mettiamo. Questo vale per i superiori specialmente. Metti nel tuo cuore l’amore, poi, qualunque cosa fai, va bene: se correggi è amore, se lasci correre è amore, se parli è amore, se taci è amore, perché questa legge non può fare che bene. Potremmo vedere e non abbiamo tempo e passo oltre. Ma potremmo vedere anche come il senso dei nostri voti si radica qui. E perché oggi noi viviamo nell’amore, però il nostro amore quaggiù, in questo mondo, è soggetto a cambiare. E’ instabile. Non siamo confermati in carità, allora, mentre noi abbiamo chiaro che Dio è l’oggetto massimo più desiderabile, al tempo stesso temiamo che possiamo cambiare parere domani, esserci stancati. Cosa facciamo? Beh, facciamo quello che fece Ulisse, il quale voleva rivedere la moglie e la patria; sapeva che doveva attraversare un luogo pericoloso: le sirene, non era sicuro di se stesso, di poter mantenere fermo il proposito, allora si fa legare all’albero della nave. I voti hanno questo senso qui. Abbiamo trovato l’oggetto del nostro amore, sappiamo però che siamo volubili e possiamo cambiare anche domani, e allora ci leghiamo., come diceva Kirgekardt: “...per proteggerci contro la disperazione di non poter amare sempre”. La stessa spiegazione vale anche per il matrimonio. Ecco dunque che questo primo quadro ci dice già una cosa grandiosa, che dovrebbe informare tutta la nostra vita, anche la nostra legislazione. Perché uno potrebbe dire: “Allora se c’è una legge nuova, adesso a che scopo i comandamenti di Dio, i precetti evangelici, il diritto canonico, la nostra regola francescana, le costituzioni, le regole, le leggi che facciamo anche nei Capitoli Generali? A che scopo questa massa di leggi positive esteriore?”. Di fatto a qualcuno il dubbio è venuto. Al tempo di San Francesco c’erano quelli che ragionavano così e dicevano: “Non abbiamo più bisogno di regole, di leggi perché abbiamo lo Spirito e la libertà”. No! Noi sappiamo che queste leggi hanno una funzione, servono a proteggere proprio l’amore. Non più a dare la vita. Noi non vogliamo ricadere nell’errore denunciato da Paolo, però queste leggi ci servono per poter proteggere l’amore di Dio, la vita stessa.

Bene andiamo avanti, vediamo un altro quadro. Usciamo all’esterno con gli Apostoli e vediamo come questo cuore nuovo si esprime concretamente, adesso, nella vita. Si trovavano allora in Gerusalemme: Giudei, osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore la folla si radunò e rimase sbigottita, perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore. Notate una cosa qui. Qui c’è un’affermazione implicita che lo Spirito Santo è Dio al pari del Padre e del Figlio, perchè gli effetti della sua apparizione sono esattamente gli stessi di quando Dio appariva a qualcuno o Gesù, per esempio, sul lago manifestava la sua potenza divina, cioè i segni sono lo stupire, lo sbigottimento davanti al soprannaturale che si manifesta. Stupiti, fuori di sé. E dicevano: “...costoro che parlano non sono forse tutti dei Galilei? E com’è che li sentiamo parlare ciascuno la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, ecc...”, questo lungo elenco di popoli, “...eppure li sentiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio. Tutti erano stupiti, perplessi, chiedendosi l’un l’altro che significa questo, altri li deridevano e dicevano si sono ubriacati di mosto”. Bene, carissimi confratelli, vediamo il messaggio perenne che c’è nascosto qui, perenne! E fa parte dell’evento di Pentecoste. Qui si sa che San Luca ha voluto di nuovo dirci qualcosa implicitamente stabilendo un parallelismo con un altro momento della Bibbia, in questo caso sai tratta di Genesi 11, l’episodio di Babele. E come dire che la Chiesa è l’antiBabele. Adesso viene cambiata la situazione che era stata iniziata a Babele. Un messaggio, sapete, attualissimo, modernissimo perché l’esperienza di Babele non è solo finita con la Genesi, sappiamo che è la situazione del mondo: caos, caos linguistico, caos ideologico, caos, dentro di noi, psicologico, perché c’è un caos spaventoso dentro di noi, caos, confusione di progetti, di desideri contrastanti,; dunque, Babele è qualcosa di cui gli uomini fanno l’esperienza. Non per nulla Babele è diventata come una cifra, un simbolo anche per l’uomo moderno: la moderna Babele. Potremmo dire che l’analogia, il parallelismo antitetico consiste in questo: a Babele parlavano tutti la stessa lingua eppure in un certo momento nessuno capisce l’altro, a Pentecoste parlano tutte lingue diverse, e per questo c’è questo elenco, eppure a partire da un certo momento tutti si capiscono come se parlassero un unica lingua. Dov’è la spiegazione? La spiegazione è nel confronto. Dunque, gli uomini di Babele dicevano: “...Venite e costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo”, poi, forse, sottovoce aggiungono, ma è scritto nella Bibbia: “Facciamoci un nome per non disperderci sulla faccia della terra”. Ora, cari fratelli, gli uomini di Babele, contrariamente a quello che è stato detto alle volte, anche in passato da alcuni padri della Chiesa, non erano degli atei, erano degli uomini pii e religiosi e quello che volevano costruire era un tempio , un tempio alla divinità, di cui restano ancora le rovine in Mesopotamia. Si chiamano Ziqqurat. Sono templi a terrazze sovrapposte. Volevano costruire, come era normale nell’antichità. Questo ce li fa sentire vicino. Volevano costruire una Chiesa parrocchiale, un grande santuario, per così dire. Il peccato è che non fanno questo per onorare la divinità, ma per farsi un nome. “Facciamoci un nome”, c’è volontà di potenza. Dio è strumentalizzato. Dio deve servire per dare delle vittorie a questo popolo che costruisce la torre. “Facciamoci un nome”.

Adesso passiamo a Pentecoste e vediamo dove è la differenza. Questi Apostoli non vogliono farsi un nome. Vogliono fare un nome a Dio, proclamano le grandi opere di Dio. E per questo tutti li capiscono, perché quando in una comunità, in una società, ognuno cerca di farsi un nome, si determinano tanti poli quanti sono le persone che fanno perno su se stesse ed è Babele, ed è la guerra degli egoismi. Quando tutti quanti si orientano verso la Gloria di Dio, quando il centro diventa Dio, ecco che si capiscono perché c’è una convergenza. Un po' come un’immagine dei raggi di una ruota: se seguite il movimento dei raggi di una ruota mentre dal centro vanno verso l’esterno, vedete che man mano che si allontano dal centro si allontanano anche tra di loro; se li seguite mentre dalla circonferenza vanno verso il centro, voi vedete che man mano che si avvicinano ad un centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo . Ora quello che impressiona qui, è vedere come questi Apostoli che, fino a non poche settimane prima regolarmente quando si ritrovavano insieme discutevano chi era il più grande ed erano animati come tutti noi poverini dallo spirito di autoaffermazione, adesso si sono dimenticati di questo problema chi è il più grande. Sono abbagliati dalla gloria di Dio. E’ avvenuta la conversione radicale, possiamo chiamarla un conversione copernicana. Si sono decentrati da se stessi e si sono ricentrati su Dio, che è la definizione che dava (............) della conversione: “ Si sono decentrati da se stessi e si sono ricentrati su Dio”. E’ questa, cari fratelli, è la conversione sempre in atto, che ci aspetta a tutti. Agostino ha scritto un trattato famoso, “De Civitate Dei”, e molti oggi fanno tesi di laurea su quest’opera, un capolavoro per determinare, magari, quale è una fonte di un certo paragrafo, di una certa idea. E come avviene di solito si guarda alla fogliolina e si smarrisce la foresta. Non si vede la foresta, cioè pochi sono intenti a cogliere qual è il grande messaggio, quell’intuizione che Agostino ha voluto racchiudere, che ha fatto nascere questo capolavoro.

Qual è? L’intuizione è semplice, dice Agostino: “...ci sono nel mondo due città in costruzione. C’è una città di Satana che si chiama Babele o Babilonia, dice lui, e si costruisce questa con l’amore di sé, cioè il materiale è l’egoismo, che può giungere usque ad contentum Dei, fino al disprezzo di Dio; e c’è un altra città che si chiama la città di Dio, chiamata Gerusalemme, che nasce a Pentecoste che si costruisce sull’amore di Dio, che può arrivare fino al sacrificio di se stessi. Queste due città”, dice, “sono come due cantieri”. I traduttori sanno che cosa vuol dire cantieri. E’ una parola, che io spesso, quando devo parlare in altre lingue, faccio difficoltà a trovare l’equivalente....working placet in inglese, ma in spagnolo, per esempio? Difficile. Allora...non ha importanza. Queste due città sono due cantieri. Chi conosce Roma sa che cosa sono i cantieri, per il Giubileo ce ne erano tanti, sempre aperti, che ognuno deve decidere in quale cantiere vuole lavorare, in quale cantiere vuole arruolarsi. Ogni cosa nella Chiesa, permettetemi di fare anche esempi concreti: un Sinodo, un Consiglio Pastorale, un Capitolo Generale, ogni iniziativa può essere o Babele o Pentecoste. E’ Babele se ognuno cerca di farsi un nome, è Pentecoste se ognuno, non dico non sente la spinta a farsi un nome, ma sceglie coscientemente di voler fare un nome a Dio. Non si tratta qui di non sentire la naturale tendenza all’autoaffermazione, di mettere a frutto i propri talenti, l’importante è vedere se uno fa di questo lo scopo, diciamo, esplicito e cosciente, voluto nella sua vita, cioè la propria autoaffermazione, self fullfillment, che è diventata una filosofia. Ma per il Vangelo questa rimane una parola negativa e lo sarà sempre, anche se in certe filosofia è diventata una specie di ideale. Qui siamo davanti ad una scelta. San Ignazio di Loyola non ha fatto altro che copiare Agostino, quando ha inventato la famosa predica dei due stendardi. L’avete mai sentita? Se avete fatto degli esercizi ignaziani, saprete della predica dei due stendardi. Solo che lui era militare, e anziché in termini di città, si esprime in termini di campi di battaglia. Allora, dice che c’è un campo di battaglia che si chiama Babilonia, che ha lo stendardo di Satana, e il campo di battaglia di Cristo, che si chiama Gerusalemme, che ha lo stendardo di Cristo.
Per dire, carissimi confratelli, che questo è il bivio davanti al quale ci troviamo sempre di nuovo, sempre di nuovo! E’ sempre di nuovo dobbiamo riorientare le nostre intenzioni, in modo da lavorare nel cantiere di Pentecoste e non in quello di Babele. Aihmé! C’è tanta Babele anche nella Chiesa, perché ci siamo noi con il nostro egoismo.

Mi impressiona una mozione di Francesco, che come sempre lui era arrivato nella santità veramente ai limiti estremi , dice: “Beato quel servo di Dio che si rallegra del bene che Dio fa attraverso un altro, come se lo facesse attraverso di lui”. Questo è un traguardo altissimo, altissimo. Vuol dire che questa persona, e lui la viveva questa cosa, è arrivata al punto che ormai il suo io lo vede unicamente in Dio. Non ha un conto personale da far valere. Per cui se il bene lo fa un altro e lo fa bene al posto mio, io mi rallegro lo stesso. Pensate cosa questo potrebbe determinare di pace, di serenità e anche in occasione come queste. Quale serenità, quale pace dà... e non è facile, ovvio. Non stiamo parlando di caramelle, stiamo parlando di traguardi spirituali, che possiamo perseguire solo con la grazia di Dio, con lo Spirito Santo. C’è una breve frase di Gesù che può aiutare in questa lotta terribile alla volontà di farsi un nome, ed è quando Gesù un giorno dice: “Io non cerco la mia gloria”. Alle volte giova ripeterlo come una giaculatoria questo, perché serve, aiuta a realizzare quello che significa.

Che lo Spirito Santo, che realizzò questa meravigliosa conversione quel giorno per gli Apostoli, la possa in qualche nodo, se non in quella maniera così repentina, però la possa mettere anche nel nostro cuore, come un desiderio profondo; arrivare a una purezza di intenzioni per cui siamo preoccupati e perseguiamo la gloria di Dio e non il nostro personale nome. Bene dedichiamo, se non siete troppo stanchi, un po' di attenzione a un quadro successivo. I traduttori riescono a seguirmi?
Leggiamo allora quello che segue. Alla reazione ironica di alcuni secondo cui gli Apostoli sarebbero ubriache, San Pietro prende la parola. Io spero che questa reazione non ci sia più nella Chiesa di dire: “ Io sono ubriaco”, perché è una tentazione che ogni tanto può venire quando si vedono certe manifestazioni dello Spirito; si liquidano facilmente dicendo: “...ma sono ebbri, sono fanatici”, lo dicevano anche intorno a Francesco, quindi stiamo attenti. Lo dicevano anche di Francesco, che era pazzo, perché lo Spirito, quando è autentico, rompe il passo delle convezioni umane e fa fare cose che non sempre sono secondo la logica umana. Allora San Piretro prende la parola e dice: “Uomini di Galilea, voi tutti che vi trovate a Gerusalemme ( se volete la referenza per voi traduttori siamo al versetto 14 del capitolo ), vi sia ben noto questo, e fate molta attenzione alle mie parole, questi uomini non sono ubriachi come voi pensate, accade invece quello che predisse il profeta Gioele: “Negli ultimi tempi dice il Signore io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona. I vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani faranno dei sogni””. Dunque Pietro viene a dire una cosa formidabile, che la grande effusione dello Spirito prevista per i tempi del Messia è avvenuta. Allora è come dire che tutto quello che si aspettava in Israele è accaduto, non c’è più da aspettare, da guardare avanti , c’è da guardare indietro, infatti dirà subito a chi bisogna guardare. Ma soffermiamoci un momentino, perché qui, carissimi confratelli, in questo discorso c’è qualcosa che ci può interessare.

Io vado più tranquillo, l’importante è sapere se voi siete disposti ad andare più a lungo, perché le due cose non si possono ottenere di potere parlare, di potere tradurre per tutti e stare in un tempo conveniente per una...state tranquilli non vi tengo un’altra ora, d’altra parte dobbiamo dare tempo allo Spirito Santo per scendere, perché Lui come la pioggia, ha bisogno di scendere un pò lentamente. Speriamo.

Dicevo, dobbiamo soffermarci un pò, perché qui c’è un discorso importante, quello sulla dimensione carismatica dello Spirito. Lo Spirito che dà, distribuisce doni, carismi per l’edificazione della comunità . Paolo svilupperà poi tutto questo aspetto. In particolare, cari fratelli, qui Luca insiste sulla profezia. Avete capito che qui siamo interpellati in prima persona? Che ne abbiamo fatto del nostro carisma profetico? Che ne facciamo? E’ ancora visibile? La vita religiosa è detto e ripetuto deve essere una profezia vivente della Gerusalemme celeste. Il francescanesimo è una profezia di un altro mondo. Allora io penso che sempre è sano che noi, famiglie francescane, tentiamo di mantenere sempre di riaccendere, San Paolo direbbe di soffiare sulla fiamma per ravvivarla , la fiamma del nostro carisma profetico, perché se non siamo profeti nel senso vero profondo della parola, cioè coloro che aiutano i fratelli a rompere il muro del visibile, dell’immediato per percepire la presenza del regno di Dio, facilmente il nostro servizio scade ad un servizio puramente istituzionalizzato di gestione, gestionale. Ricordo spesso io un fatto: predicavo una volta un ritiro a settanta vescovi e millecinquecento sacerdoti in America Latina, ci fu una Messa che era una Pentecoste, a metà ritiro.
?Si pregava in piccoli gruppi dopo la comunione nella Chiesa, io ero nel presbiterio, quando dalla Chiesa si stacca un giovane sacerdote, deciso viene davanti a me, si inginocchia, mi guarda negli occhi e mi dice: “Padre, benedicame padre, quiero ser profeda de Dios” - “Benedicimi padre, voglio essere un profeta per Dio”. E mi resi conto in un attimo, guardandolo negli occhi, che era vero che era chiamato. Perché nel mondo d’oggi c’è bisogno di profeti. La più grande sciagura dopo l’esilio per gli ebrei non era di avere perduto il tempio, era quello che dice il salmo: “...non ci sono più profeti tra noi e nessuno sa fino a quando”. Ecco, allora, questo richiamo nel cuore della Pentecoste, all’importanza anche di queste manifestazioni dello Spirito: la profezia; ma abbraccia tanti altri carismi; ci deve ricordare, aiutare a non appiattirci, lasciarci prendere completamente dai problemi del momento, i problemi concreti, al punto da dimenticare che anche se rimaniamo in tre in un ordine religioso, io dico alle volte a delle suore che temono di estinguersi, che sono in una situazione delicata, non abbiate paura, se rimanete solo tre persone e l’ordine finisce con queste tre, però queste tre sono sante , l’ordine ha compiuto per Dio tutto il suo compito.

Anche in un Capitolo Generale questa parola può risuonare a proposito. In un capitolo, quello delle stuoie, Francesco, dicono le fonti, fu preso da un impeto profetico. Questo impeto profetico è quando sentì: “Io sarò la tua bocca “, o meglio, dice Dio a Geremia, tu sarai la mia bocca. Ecco Francesco, dicono le fonti che mentre erano riuniti i frati in un clima di grande gioia e fervore salì su un muretto e si mise a dire poche parole ma di fiamma: “Fratelli, grandi cose abbiamo promesso al Signore, ma più grandi sono le cose che il Signore ha promesso a noi. Osserviamo fedelmente le cose che noi abbiamo promesso al lui e attendiamo con ferma fiducia le cose che lui ha promesso a noi. Breve è il piacere che si prova in questa vita con il soddisfacimento dei desideri, ma eterna è la pena che ne segue. Al contrario, breve è la sofferenza che noi sopportiamo in questa vita, ma eterna è la gloria che ne seguirà.” Non era un discorso preparato, è ovvio, è evidente. Era un discorso profetico. Dicevo, questa parola risuona bene anche in un Capitolo dove deve sempre una famiglia religiosa trovare un momento di riscoperta del proprio carisma, di entusiasmo da trasmettere anche poi come un onda sonora a tutto il corpo, a tutta la famiglia.

E anche spesso nelle decisioni che i superiori definitori devono prendere, vivo anch’io in una curia generale, e, anche se indirettamente, perché non ho mai rivestito nessuna autorità, neppure di vicario in una casa religiosa, però indirettamente vedo qual è la vita di una curia generale, che in mezzo a questi assilli quotidiani è bene che qualcuno ogni tanto la tenga viva. Però noi siamo anche per essere profeti, quindi le decisioni che si dovranno prendere, col buon senso, con tutti i criteri normali, però che abbiano sempre una.
Ma per assolvere un compito dello Spirito. Ancora un altro breve flash. Pietro dà queste spiegazioni in fretta, perché si vede che gli preme arrivare ad altro e quest’altro è quello che comincia con il versetto 22, in sintesi è questo: lo Spirito Santo venendo sugli Apostoli ha illuminato di colpo Gesù Cristo, la figura del maestro che avevano conosciuto, che avevano visto mangiare, dormire, ma che non avevano ancora scoperto chi era. Avevano vissuto il mistero pasquale, ma non avevano capito che cosa era avvenuto in quella settimana, non avevano capito davvero; adesso di colpo lo Spirito Santo ha rivelato loro la dimensione vera di Cristo, di Gesù, avevano capito cosa era avvenuto a Pasqua, e allora si è creato dentro di loro come un vortice che li trascinava, fino a che Pietro grida questo nome: Gesù di Nazaret. E c’è da immaginare l’effetto che fece il sentire gettare questo nome in mezzo alla folla, come si getta una fiaccola ardente in mezzo alla folla, ecco si, l’effetto deve essere quello. E Gesù l’avevano dimenticato o qualcuno pensava: “...ah, si parla di quel certo Gesù di Nazaret che i nostri capi hanno ucciso alcune settimane fa, era finito”, adesso Gesù risorge, nel kerigma, non che non era risorto prima, era risorto, ma non nei cuori della gente, quando Pietro, nella potenza dello Spirito Santo grida: “Ve lo ricordate Gesù di Nazaret? Quell’uomo che passava in mezzo a voi facendo del bene?” ed ecco il mistero pasquale adesso, Pietro, e qui ci troviamo davanti ad un discorso che secondo gli esegeti risale a molto molto in là, cioè conserva proprio il tono della primitiva predicazione della Chiesa.

Dunque ecco il mistero pasquale, detto in maniera forte: “Voi l’avete crocifisso”, quella gente poteva protestare: “No, ti sbagli, noi non eravamo davanti a Pilato. Molti di noi sono qui per la festa” , eppure tacciono, tacciono perché lo Spirito Santo sta facendo esattamente quello che Gesù aveva predetto: “Egli venendo convincerà il mondo di peccato, perché non hanno riconosciuto me”. Quella gente ha capito che il Cristo, Gesù di Nazaret, come diceva Isaia, è morto per i peccati del popolo, se loro hanno peccato, hanno ucciso Gesù di Nazaret. Poi Pietro li risuscita dopo averli uccisi dicendo: “Dio l’ha risuscitato dai morti, l’ha costituito Signore e Messia”. Si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro: “Che dobbiamo fare fratello?”. Meraviglioso spettacolo: come nasce la Chiesa. Ecco la Chiesa nasce in questo momento: degli uomini pieni della potenza dello Spirito Santo annunciano il Cristo, non in retorica, non in erudizione, ma nella potenza, nella convinzione dello Spirito; c’è della gente che si sente compunta, “catennughesa”, che vuol dire trafitta e dice: “Che dobbiamo fare?”. “Pentitevi, fatevi battezzare” e nasce la Chiesa. Cosa può dire applicando questo momento alla nostra vita, innanzi tutto mi viene in mente, carissimi confratelli, quando questo concetto del pentitevi fosse caro a Francesco, il quale all’inizio non pensava di chiamare frati minori i suoi frati, ma, come voi sapete meglio di me, vero?, i penitenti di Assisi. Francesco era entrato in questo clima di penitenza, che non vuol dire la flagellazione esteriore, Francesco ha capito, come forse nessun altro, che cos’è la metànoia evangelica, che vuol dire entrare nel cuore di Dio e veder ormai le cose, il peccato dal cuore di Dio. Allora Francesco sviluppa questa devozione incredibile al Tau, firma col Tau, segna la fronte col Tau, al punto che San Bonaventura dice: “Si sarebbe detto che tutta la sua missione nella terra consisteva nel segnare un Tau sulla fronte della gente...” Che cos’è il Tau? Il Tau, secondo Ezechiele 9, è il segno che Dio ordina di tracciare sulla fronte di coloro che gemono, che piangono per gli abomini che si commettono nella casa di Dio, cioè per i peccati. Ecco, la comunità cristiana è nata così e così rinasce ogni volta, attraverso questo procedimento, questo avvenimento di Pentecoste.
Carissimi confratelli vi auguro che questo vostro momento di vita sia davvero nel suo, possiamo dire nel suo piccolo, ma non è mai nel suo piccolo, una esperienza di Pentecoste, in cui, attraverso le normali discussioni, valutazioni, tutto quello che si vuole, però regni al di sopra di tutto questa luce, domini questa luce, che è la luce dello Spirito, che fa fare tutte le cose secondo Dio. Non c’è da stupirsi, né da pensare che si tratti di tutt’altro che Pentecoste se in un capitolo ci sono anche pareri diversi, si formano anche schieramenti, questo è normale, guarda a me mi stupisce molto questo: il giorno di Pentecoste arriva lo spirito, prende tutti per i capelli e li mette insieme, mette insieme tutti quanti, Parti, Elamiti, fa subito un’unità, diciamo agisce in maniera carismatica. Però dopo non fa più così, nel corso degli atti degli Apostoli, quando nascono i problemi gravi, come quelli dell’accettazione dei pagani nella Chiesa, lo spirito lascia gli Apostoli alle loro risorse umane; allora essi devono scriversi, consultarsi, finalmente si riuniscono a Gerusalemme e anche lì appare che ci sono pareri diversi, gruppi diversi, uno intorno a Giacomo, uno intorno a Paolo e Barnaba, uno di mezzo come mediatore intorno a Pietro. Lo Spirito Santo li fa agire attraverso le normali risorse umane del dialogo, dello scambio, in cui si può esercitare la carità, l’umiltà, ecc. Però alla fine, quando si arriva ad una decisione che tutto sommato è anche un po' di compromesso, questi Apostoli hanno il coraggio di dire: “E’ parso bene allo spirito santo e a noi di stabilire questo”. Ed erano convinti che lo Spirito aveva agito attraverso quei normali canali, che poi sono quelli che si usano anche oggi nella Chiesa. Dunque fiducia nell’azione dello Spirito, anche se lui ci lascia alle nostre povere risorse umane, nelle quali però noi dobbiamo sempre agire, come direbbero le fonti francescane, mossi da spirito santo. E così sia.