Ieri, lunedì 15 ottobre, dopo la sessione sinodale, è stato presentato ad alcuni padri sinodali il film Bells of Europe – Campane d’Europa sul tema dei rapporti fra il cristianesimo, la cultura europea e il futuro del Continente.
Il film presenta estratti di una serie di eccezionali interviste originali con le maggiori personalità religiose cristiane, il Papa Benedetto XVI, il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, il Patriarca di Mosca Kirill, l’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, l’ex Presidente della federazione delle Chiese Evangeliche in Germania Wolfgang Huber e altre personalità della politica e della cultura.
Il filo unificante del film è dato dal suono delle campane dei diversi angoli del Continente e dalla fusione di una campana nell’antica fonderia di Agnone. La colonna sonora è realizzata anche con musiche del famoso compositore estone Arvo Pärt, che, intervistato anche lui nel film, spiega come sia stato appunto ispirato dal tintinnio delle campane.
Realizzato dal Centro Televisivo Vaticano in base a un’idea del Padre Germano Marani, con il supporto di diverse altre istituzioni, fra cui la Fondazione La Gregoriana, il film è ora a disposizione di RAI Cinema, che ne detiene i diritti per la diffusione televisiva e home video.
Un fascicolo con i testi integrali delle interviste realizzate in occasione del film, in versione italiana e inglese, è stato distribuito a tutti i partecipanti al Sinodo. Da segnalare anzitutto il testo dell’ampia intervista finora inedita del Santo Padre Benedetto XVI, che ho pubblicato questa mattina (v.).
* * *
Di seguito propongo il testo della intervista del Centro Televisivo Vaticano a padre Francois Xavier Dumortier S.J., Rettore Magnifico della Pontificia Univesità Gregoriana.
Il film presenta estratti di una serie di eccezionali interviste originali con le maggiori personalità religiose cristiane, il Papa Benedetto XVI, il Patriarca ecumenico Bartolomeo I, il Patriarca di Mosca Kirill, l’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, l’ex Presidente della federazione delle Chiese Evangeliche in Germania Wolfgang Huber e altre personalità della politica e della cultura.
Il filo unificante del film è dato dal suono delle campane dei diversi angoli del Continente e dalla fusione di una campana nell’antica fonderia di Agnone. La colonna sonora è realizzata anche con musiche del famoso compositore estone Arvo Pärt, che, intervistato anche lui nel film, spiega come sia stato appunto ispirato dal tintinnio delle campane.
Realizzato dal Centro Televisivo Vaticano in base a un’idea del Padre Germano Marani, con il supporto di diverse altre istituzioni, fra cui la Fondazione La Gregoriana, il film è ora a disposizione di RAI Cinema, che ne detiene i diritti per la diffusione televisiva e home video.
Un fascicolo con i testi integrali delle interviste realizzate in occasione del film, in versione italiana e inglese, è stato distribuito a tutti i partecipanti al Sinodo. Da segnalare anzitutto il testo dell’ampia intervista finora inedita del Santo Padre Benedetto XVI, che ho pubblicato questa mattina (v.).
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Di seguito propongo il testo della intervista del Centro Televisivo Vaticano a padre Francois Xavier Dumortier S.J., Rettore Magnifico della Pontificia Univesità Gregoriana.
D. – Che cosa significa per lei l’Unione Europea?
R. –
Non mi relaziono all’Europa come se fossi esterno ad essa, perché sono
un europeo, per grazia e per nascita. Mi sento figlio dell’Europa. Ogni
volta che sono andato all’estero, ho scoperto come mi sento figlio di
questa Europa. Vivo questa filiazione come eredità e come responsabilità. Come eredità anzitutto.
Come
europei, noi ereditiamo una situazione che potrebbe sembrare di
divisione, di diversità, di pluralismo fra i vari Paesi, le culture
diverse, le molte tradizioni, le differenti concezioni dell’uomo e del
mondo. Credo tuttavia che, se si accetta il fatto che tutto questo non
costituisca solo una semplice giustapposizione di prospettive, ma possa
esserci una seria possibilità di fecondità fra queste diverse realtà,
l’Europa allora sia ricca di queste sue stesse diversità. Credo che il
compito degli europei, in relazione a questa eredità, sia fare in modo
che questa diversità sia feconda.
Questo patrimonio è anche un patrimonio di memoria. Una memoria
dolorosa, poiché la nostra Europa ha vissuto due guerre mondiali. La mia
famiglia ha sperimentato tutto questo sulla propria pelle: è stata
divisa dal totalitarismo a più riprese, abbiamo conosciuto il gulag, i
campi di concentramento. In questo patrimonio ereditato c’è anche ciò
che è stato il nostro passato più doloroso con una storia, con delle
fratture, delle crisi, delle guerre, tanto che, in un certo senso, noi
europei siamo tutti scossi, feriti, come diceva Jan Patochka riferendosi
all’Europa dell’Est. E la solidarietà che possiamo vivere in rapporto
al nostro patrimonio è una solidarietà da feriti. Ma, nello stesso
tempo, questa storia ha trasformato gli europei in persone che conoscono
ciò che la storia può produrre, sanno che la storia può colpire, ferire
ogni popolo, ogni persona e ogni nazione.
Inoltre, per me l’Europa è anche la vita dello Spirito, e dunque tutto
ciò che segna il patrimonio intellettuale, musicale, estetico,
artistico. La vita spirituale dell’Europa è estremamente importante, è
il mio cibo ed è anche il suolo sul quale le mie radici sono piantate,
la sorgente interiore che può a volte cantare in me, ovviamente se sono
chiamato a cantare questo genere di canti…
Dicevo però che vivo questa filiazione non solo come l’eredità di un
patrimonio, ma anche come responsabilità. Una responsabilità, perché per
me l’Europa è, a mio modo di vedere, l’Unione Europea. E l’Unione
Europea non è una realtà fissata una volta per tutte, definita a priori,
ma può essere vista come una sorta di processo. Credo che ci siano
poche costruzioni nella storia che abbiano avuto come scopo, al loro
punto di partenza, la pace : un bene straordinariamente prezioso e che è
sempre fragile, ma questa pace esiste dalla fine della seconda guerra
mondiale nello spazio europeo. Questa pace è comunque il risultato di 65
anni di vita insieme dopo la Seconda Guerra Mondiale. La pace si è
installata in Europa. E questa pace è un bene incomparabile di cui ci si
rende conto proprio quando scompare.
Questa pace non è semplicemente qualcosa di cui l’Europa possa gloriarsi
o che possa vivere solo per se stessa. E’ anche un’esigenza: quella di
vivere anzitutto questa pace all’interno di se stessa –quindi unita
all’esigenza di giustizia – e quella di viverla come qualcosa per il
mondo. Dunque l’Europa può essere attore, agente di pace.
Sono
nato poco prima che cominciasse il processo di costruzione dell’Unione
Europea e l’ho vissuto in tutta la mia vita fino al momento presente
come una grande avventura. Una grande avventura di pace poiché, fin
dalla Dichiarazione di Schuman, la finalità era quella di assicurare la
pace dove c’era stata guerra, divisione, violenza, morte. Il processo
dell’Unione Europea mi è sempre parso particolarmente interessante ed
esemplare: si è costruita passo dopo passo, poco alla volta, senza mete a
priori, senza cammini predeterminati, superando gli ostacoli uno dopo
l’altro, con perseveranza nell’azione e nella persuasione che si poteva
avanzare a condizione che tutti e ciascuno fossero d’accordo sul passo
successivo. E credo che questo modo di avanzare e di costruire l’Europa
nella durata sia un esempio. Perché si è trattato e si tratta di
avanzare passo dopo passo, anche se ciò sembra a volte troppo lento o
troppo difficile ad un certo sguardo… Ma questo mi sembra che sia
precisamente il rifiuto della fatalità, il rifiuto della pesantezza e la
volontà di andare avanti, costantemente, verso un avvenire non
predeterminato, verso un modello di unione europea che non è fissato in
anticipo. Credo che ci sia una sorta di ostinazione della volontà
europea, una forma di perseveranza. Credo che questa perseveranza nella
costruzione dell’Unione Europea sia qualcosa di molto prezioso, e a me
come europeo rallegra molto.
D. – In che cosa consiste la coscienza viva dell’Europa?
R. –
La forza dell’Europa è la coscienza che essa può avere di se stessa. E
la coscienza non è mai una contemplazione di sé tranquilla e
rassicurante. La coscienza è sempre un lavoro, un esame. Mi sembra che
questo lavoro della coscienza europea si manifesti sotto quattro
aspetti.
Innanzitutto una coscienza storica. Come dicevo, l’Europa è stata
devastata dalle guerre, dalla violenza. Ma l’Europa ha anche il coraggio
di guardare il suo passato in faccia. E dunque vive come un dovere
della memoria questo esame di se stessa, di ciò che ha vissuto, di ciò
che essa ha guidato, di ciò che le è successo. Credo che questo lavoro
della memoria, questo lavoro che può condurre al pentimento, e che porta
in ogni caso alla vigilanza, guardando al futuro, sia qualcosa di
essenziale.
C’è
un secondo aspetto di questa coscienza europea: la ricerca della propria
identità. L’Europa non è mai sicura di se stessa, è sempre alla ricerca
di ciò che la definisce, di ciò che la specifica, di ciò che è la sua
ragion d’essere, di ciò che è il suo progetto. Non è mai una coscienza
soddisfatta, c’è sempre qualcosa di incompiuto in lei e nella sua realtà
che la fa avanzare e la mette in movimento.
In
terzo luogo, possiamo dire che la coscienza europea è la coscienza della
ricerca di ciò che è più universale: la coscienza europea è stata
occupata dalla ricerca di ciò che è più universale, come se la causa di
questa ricerca fosse la sua apertura verso gli altri, la sua ospitalità
dell’altro all’interno di se stessa.
Ed
ecco l’ultimo aspetto. Sia a causa della Seconda Guerra Mondiale, sia a
causa dei totalitarismi, l’onore dell’Europa sono stati coloro che hanno
resistito, la coscienza morale che ha saputo dire di no. E credo che,
proprio in questa esperienza, ci sia qualcosa che è stato vissuto e che è
stato trasmesso. Mi sembra che la coscienza europea viva del rifiuto di
ciò che è inaccettabile e ingiustificabile in qualsiasi parte del
mondo, e anzitutto all’interno delle proprie frontiere.
D. –
Lei è rettore di un’importante università pontificia. Come vede in
Europa il rapporto tra la fede riflettuta e la religiosità popolare, ad
esempio quella che si esprime nei grandi santuari, come Lourdes, che
costellano il continente europeo?
R. –
Non limiterei Lourdes alla religiosità popolare. Per me, Lourdes è
anzitutto un luogo estremamente importante e che ci ricorda
l’Incarnazione al cuore della fede cristiana. Ma è vero che a Lourdes ci
sono un certo numero di manifestazioni di religiosità popolare.
Credo
che la religiosità popolare sia un fatto, e bisogna comunque partire da
ciò che esiste. Mi sembra che la religiosità popolare esprima la
ricerca di Dio attraverso i modi che sono a disposizione di quegli
uomini e di quelle donne che utilizzano quegli stessi mezzi per dare un
senso alla loro vita, per esprimere qualcosa della loro ricerca di Dio,
oscuramente, consciamente e inconsciamente. E credo che il fatto che
essi li utilizzino, approfittando del fatto che la Chiesa li ha messi a
loro disposizione e li ha loro trasmessi, sia qualcosa di importante,
dal momento che ciò rappresenta un legame con la Chiesa popolo di Dio.
Mi
sembra che bisogna avere sempre un grande rispetto delle forme di
espressione con le quali l’uomo tende alla trascendenza a partire da ciò
che egli è, a partire dalla sua storia, a partire dalla sua tradizione,
a partire da ciò che può. Dunque, mi sembra che la religiosità popolare
sia un punto di partenza estremamente rispettabile. Noi sappiamo tutti,
per averne fatto esperienza, che l’esperienza spirituale è un cammino, e
dunque si tratta di partire da un certo punto e da lì andare avanti.
Sappiamo che, se partiamo da questo punto di partenza, intraprendiamo un
cammino che non si ferma più, a condizione che lungo il cammino ci
siano uomini e donne che accettano di essere compagni di strada di
coloro che hanno cominciato a camminare. Penso che il compito di chi ha
una vocazione teologica e filosofica nella Chiesa non sia quello di
giudicare, di catalogare, di impedire o criticare quelle che sarebbero
le forme di religiosità popolare, ma di permettere a coloro che si
esprimono nella fede in questa maniera di crescere nella fede, in modo
tale da consegnarsi pienamente all’avventura spirituale.
D. – E qual è il ruolo dei cristiani per il futuro dell’Europa?
R. –
Non so se il futuro dell’Europa sia nelle mani dei soli cristiani, ma
sono sicuro che i cristiani hanno una responsabilità per il presente e
per l’avvenire dell’Europa. L’avvenire dell’Europa è nostra
responsabilità comune. Sia come europei sia come cristiani, in Europa
abbiamo una responsabilità che credo sia essenziale. Per vivere questa
responsabilità, mi sembra che i cristiani europei debbano essere e
vivere essi stessi come europei e come cristiani. Ciò che i cristiani
possono portare di specifico in Europa è il fatto di essere cristiani.
Dovrebbero essere degli uomini e delle donne che vivono da cristiani.
Noi siamo in una cultura che vive spesso una certa superficialità,
l’immediatezza delle esperienze. Credo che il cristiano, anzitutto,
possa essere un uomo della profondità, dell’interiorità, e da qui possa
aiutare a comprendere come l’Europa abbia bisogno di una certa anima per
vivere e per compiere ciò che è la sua missione, per essere fedele in
futuro a ciò che è stato il suo passato.
Tuttavia, i cristiani dovrebbero essere non solo uomini di interiorità,
ma anche uomini di speranza. La nostra vecchia Europa, come qualcuno
dice, è coperta di rughe, piena di nostalgie, incerta di se stessa, con
le sue paure, con una certa tristezza, con parole di critica che abitano
tutti gli spiriti e tutti i discorsi. Credo che nella fede cristiana
qualcosa di fondamentale sia proprio la speranza e che il cristiano
possa portare questa visione di futuro, che non è qualcosa di prodotto
solo dall’uomo, ma anche un avvenire da accogliere come una promessa.
Credo
anche che i cristiani siano persone che abbiano capacità di
discernimento, e dunque possano essere gli uomini della coscienza
morale. I nostri “sì” pronunciati giorno dopo giorno nella vita
dell’Europa hanno valore solo a condizione che siamo capaci anche di
dire “no”. E dunque mi sembra che i cristiani possano portare alla vita
comune in Europa questa capacità di discernimento che consiste nel
cercare e trovare ciò che deve essere vissuto, ciò che può essere
vissuto, ciò che non può essere vissuto e ciò che non deve essere
vissuto.
D. – Il pensiero cambia il mondo, ovvero il ruolo delle università…
R. –
Ai miei occhi l’università ed il lavoro intellettuale possono portare
molto alla vita del mondo e al futuro e al presente dell’Europa, ma a
certe condizioni: la prima è che l’università non viva la sua missione
come un accumulo di sapere, ma abbia anzitutto la preoccupazione di
pensare. Troppo spesso siamo condotti a pensare attraverso una sorta di
trattamento dei dati, o volendo rispondere ad una specie di pulsione
epistemologica della nostra società. Mi sembra che l’università sia
anzitutto la ricerca di ciò che conta, e dunque lo sforzo di pensare la
situazione esistente. Se non facciamo questo, non arriveremo mai ad
elaborare un umanesimo moderno che sia all’altezza delle sfide della
nostra società.
Penso
anche che il secondo pericolo della vita universitaria sia il
compartimentalismo, i compartimenti stagni fra discipline, campi di
indagine, entità accademiche, e considero molto importante la
possibilità di poter lavorare insieme per poter incrociare gli sguardi
sui nostri soggetti e sulle nostre sfide, e quindi di poter vivere una
specie di dialogo intellettuale e non semplicemente un accumulo di
sapere.
La
terza condizione: direi che il lavoro intellettuale deve essere abitato
dal desiderio della verità. A che cosa servirebbe il sapere, la
conoscenza se non ci fosse il desiderio, nel fondo del cuore e
dell’anima dell’università, di far valere e affermare la verità? Dunque,
essa ci deve attirare sempre più lontano dal punto in cui siamo giunti.
L’università non è un luogo di riproduzione del sapere, non è un luogo
di produzione di diplomati, è un luogo dove bisogna coltivare il
coraggio e l’intelligenza. Il coraggio e l’intelligenza permettono di
affrontare a mani nude – anche se potrebbe sembrare un modo curioso di
parlare del lavoro intellettuale – le domande e le sfide del mondo di
oggi.
D. – Che cos’è l’audacia cristiana?
R. –
Una prima semplice risposta potrebbe essere che l’audacia è non avere
paura. Credo che la paura sia una cattiva consigliera e questo ha come
conseguenza il fatto che i cristiani devono essere uomini che osano, che
non hanno paura delle sfide, che non hanno paura di essere messi in
questione. Ciò significa che c’è bisogno di persone che abbiano fiducia
nello Spirito di Dio che ci conduce più lontano del punto in cui siamo
giunti. Credo che dobbiamo ritrovare la fiamma dei primi secoli della
Chiesa, dove in un certo senso tutto sembrava possibile. Ecco, credo che
questa sia l’audacia: non avere paura di abbandonarsi allo Spirito di
Dio e credere che a Dio tutto è possibile e che, di conseguenza, vivere
di questa presenza di Dio con noi, fino alla fine dei tempi, rende le
cose possibili. Non è difficile, mi sembra, iscrivere la fede nelle
verità che sono quelle della società del nostro mondo: serve creatività,
intelligenza, ma bisogna avere anche molto rispetto degli uomini, delle
istituzioni dove noi siamo e viviamo. Mi sembra che questo significhi
essere presenti all’ora di Dio per noi, essere contemporanei all’ora di
Dio in questo mondo, non essere in ritardo e nemmeno essere troppo in
anticipo. E questo domanda un’audacia, un’audacia dosata.
Un
altro concetto di audacia potrebbe essere rischioso per un cristiano:
quello di vivere la sua fede come una crociata nel mondo moderno. Credo
che sia molto importante avere grande rispetto per gli altri, avere una
capacità di dialogo, ma nello stesso tempo essere se stessi. Come
cristiani abbiamo qualcosa da dire, da testimoniare, e ciò è importante
non solo per noi, per essere noi stessi, ma anche per quelli che
aspettano da noi qualche cosa.