lunedì 1 ottobre 2012

La fonte della carità

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Dal 30 settembre al 2 ottobre si svolge a Saint Louis l’incontro annuale di Catholic Charities USA, organizzazione guidata dal reverendo Larry Snyder che coordina il lavoro di oltre 1.700 istituzioni caritative locali che negli Stati Uniti ogni anno forniscono assistenza a circa 10 milioni di persone, indipendentemente dal loro credo religioso.
In particolare, Catholic Charities si distingue per l’ampia tipologia di servizi: dai programmi sanitari per anziani e bambini, all’assistenza ai malati e alle donne in gravidanza, fino alla tutela giuridica dei poveri. Di seguito il testo dell’intervento del cardinale presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, pronunciato oggi 1° ottobre nel corso della sua prima visita negli Stati Uniti. 

 
di Robert Sarah


Ogni anno, Catholic Charities Usa, grazie alla generosità di oltre 300.000 volontari, presta servizi a favore dei poveri. Ciò conferma certamente che l’esperienza dell’amore generoso di Dio ci provoca e ci rende liberi di assumere lo stesso atteggiamento nei confronti dei nostri fratelli e sorelle. Dall’inizio della storia della Chiesa negli Stati Uniti, questa esperienza personale dell’amore di Cristo è stata la forza unificante che spinge i cattolici di ogni età a impegnarsi in atti di misericordia, giustizia, e compassione per i poveri. La Chiesa avrà sempre un amore preferenziale per i poveri: fedele al comandamento di Gesù, non potrà mai chiudere gli occhi di fronte alle sofferenze dei nostri fratelli e sorelle più sfortunati. Di fatto, siamo tutti testimoni di questo ruolo significativo che Catholic Charities ha svolto nella storia della vostra nazione. Catholic Charities ha contribuito a fare divenire questo servizio all’amore evangelico parte essenziale della cultura americana. 
Oggi, la Chiesa in America, compresa Catholic Charities, affronta delle sfide che minacciano questa eredità trasmessaci dalle generazioni precedenti. I tempi che stiamo vivendo sono caratterizzati da un secolarismo aggressivo, che cerca di escludere la religione dalla vita pubblica e, di conseguenza, instaurare una cultura senza Dio, in cui ciascuno può vivere prescindendo dalla legge della verità e dell’amore incise dal Creatore nel cuore di ciascun essere umano. Il secolarismo cerca di sostituire Dio e la sua legge divina con opinioni personali, ideologie, piaceri e bisogni. Se si esclude Dio, ne conseguono soltanto abiezione e sofferenze. Se i buoni cittadini sono costretti a mettere da parte le loro convinzioni religiose, allora la società non prescinde solo dal contributo della religione, ma promuove altresì una cultura che ridefinisce l’uomo come inferiore a ciò che egli realmente è. Se i cittadini, i cui giudizi morali sono informati dal loro credo religioso, vengono ignorati, allora la stessa democrazia è svuotata del suo vero significato. Papa Benedetto XVI ha detto: «È fondamentale che l’intera comunità cattolica negli Stati Uniti riesca a comprendere le gravi minacce alla testimonianza morale pubblica della Chiesa che presenta un secolarismo radicale, che trova sempre più espressione nelle sfere politiche e culturali. La gravità di tali minacce deve essere compresa con chiarezza a ogni livello della vita ecclesiale. Particolarmente preoccupanti sono certi tentativi fatti per limitare la libertà più apprezzata in America, la libertà di religione» (19 gennaio 2012, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti d’America, in visita «ad limina apostolorum»).
Le istituzioni caritative cattoliche non sono esenti dall’essere condizionate da questa mentalità secolarizzata. Nel passato, alcune di queste istituzioni cattoliche hanno sottoscritto convenzioni con le autorità civili per fornire servizi di affidamento e adozione. Recentemente però, le autorità civili attraverso norme proprie hanno provato a esercitare pressioni sulle agenzie cattoliche affinché dessero in adozione bambini a coppie dello stesso sesso, chiara violazione degli insegnamenti cattolici. Alle agenzie caritative cattoliche viene chiesto di scegliere se aderire alle convenzioni sull’adozione/affido, oppure di ritirarsi da questo ambito. La crisi economica e finanziaria che stiamo sperimentando a ogni livello, sia negli Stati Uniti che in altri continenti, continua a colpire particolarmente i più poveri tra i poveri, privi di protezione e garanzie. In aggiunta, sperimentiamo sempre più nuove forme di povertà tra persone che hanno perso il lavoro o che hanno situazioni familiari fragili. Vi sono persone che sono spesso smarrite, e versano in condizioni di difficoltà che non sono soltanto economiche.
Di fronte a tali nuove e complesse situazioni, dobbiamo esercitare una carità “intelligente” in grado di ascoltare e discernere; una carità organizzata, capace di risposte innovative alla crisi; una carità che comprenda le cause dei problemi e non si limiti a fornire soltanto i servizi necessari, ma che accompagni anche chi si trova in difficoltà. In tali nuove situazioni, dobbiamo saper riconoscere gli interrogativi esistenziali sul senso della vita e della sofferenza. Questo è il motivo per cui dobbiamo essere in grado di dare risposte globali. In particolare, ci sentiamo guidati da un principio di fede, valido non solo per il nostro lavoro ad extra, ma anche all’interno (ad intra) delle nostre organizzazioni: la difesa della vita, dal suo concepimento alla sua fine naturale.
Nel nostro servizio ai poveri, di fronte a queste sfide, potremmo essere tentati di cambiare i nostri principi, di scendere a compromessi e di arrenderci. In un episodio del Vangelo, si legge che Pietro camminava sulle acque per andare da Gesù, che gli stava chiedendo di raggiungerlo. Finché Pietro teneva lo sguardo fisso su Gesù, i forti venti e i marosi non potevano fargli nulla. Papa Benedetto XVI nella sua lettera apostolica che indice l’Anno della fede ci incoraggia a riporre la nostra speranza in Cristo.
Dal punto di vista strettamente umano, potremmo pensare che tali difficili circostanze possano costituire un ostacolo per la piena realizzazione della missione caritativa della Chiesa. Invece, ritengo che le circostanze così particolari di questo nostro tempo ci offrano un’occasione eccezionale per tornare alle radici della nostra identità cattolica. Attingere alle nostre radici cattoliche costituirà fonte di rinnovamento per voi e vi aiuterà a riscoprire e apprezzare questo grande tesoro, che è la nostra fede cattolica e la nostra tradizione. Quanto mai è stato appropriato e opportuno il richiamo di Papa Benedetto XVI, in occasione della proclamazione dell’Anno della fede, nella sua lettera apostolica Porta fidei, all’importanza della fede nel nostro lavoro caritativo: «La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Non pochi cristiani, infatti, dedicano la loro vita con amore a chi è solo, emarginato o escluso, (…) perché proprio in lui si riflette il volto stesso di Cristo. Grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto» (Porta fidei, n. 14).
Dopo aver riflettuto sul ruolo significativo dei nostri principi cattolici nelle attività caritative e sulla necessità di rinnovamento, desidero ora mettere maggiormente a fuoco l’“impronta cristiana” della nostra carità. Che cosa rende “cristiana” un’agenzia caritativa? Questa è la questione che intendo trattare.
Per cominciare a cogliere il senso dell’antica professione di fede della Chiesa, “Dio è amore”, Papa Benedetto ritiene che siano contemporaneamente necessarie due condizioni: l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Quando uno degli scribi chiese: «“Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi”» (Marco, 12, 29-31). Il Papa sembra affermare che l’unione di questo duplice comandamento, è la chiave per capire la raison d’être dell’attività caritativa della Chiesa. Ciò rende la carità “cristiana”, ciò le conferisce la sua identità specifica e insostituibile.
Nelle prime righe della Deus caritas est, il Papa descrive l’essenza del cristiano: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1). Dio si lascia commuovere a tal punto dalla condizione umana che diventa corpo donato e sangue versato in Cristo, cosicché «noi veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione» (n. 13). Pertanto per chi accetta l’amore primordiale di Dio, l’amore è la risposta al dono d’amore. Diventa visibile negli uomini e nelle donne che riflettono la Sua presenza.
La carità cristiana è parte costitutiva della missione della Chiesa. In primo luogo, la pratica dell’amore — costituita da attività caritativa (diakonìa), proclamazione e testimonianza della Parola di Dio (kèrygma e martyrìa) e celebrazione dei sacramenti (leitourgia) — costituisce l’essenza stessa della missione della Chiesa.
Il legame reciproco tra questi tremunera ecclesiali ci riporta al legame intrinseco che esiste tra carità ed evangelizzazione. Siamo ormai alla vigilia del sinodo sulla nuova evangelizzazione, che avrà inizio la prossima settimana a Roma, e che rappresenta una nuova sfida per tutte le nostre organizzazioni caritative in questo Anno della fede.
Possiamo iniziare con un semplice quesito: che rapporto c’è tra le nostre attività caritative e l’evangelizzazione? Se le nostre attività caritative sono attività ecclesiali, esse saranno necessariamente permeate dal Vangelo.
Che cosa possiamo fare all’interno delle nostre organizzazioni affinché, nella vita di coloro che vi lavorano, possano arrivare a unirsi carità ed evangelizzazione? Le priorità pastorali della nuova evangelizzazione devono essere assunte anche dalle nostre organizzazioni, poiché si tratta di organizzazioni ecclesiali.
Il legame con la Chiesa e con la sua missione universale non deve essere percepito come un ostacolo o una limitazione rispetto ai problemi che ci troviamo ad affrontare, ma deve essere inteso come una opportunità, che può favorire lo sviluppo e la piena comprensione della nostra azione caritativa.
Fonte della carità cristiana è la preghiera. L’amore non può essere donato ai nostri fratelli e sorelle, a meno che non sia stato attinto dalla vera fonte della divina carità, e ciò può avvenire solo attraverso prolungati momenti di preghiera, l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti e l’adorazione l’eucaristica, fonte e culmine della vita cristiana.
Il beato Giovanni Paolo II affermava che «solo una Chiesa che rende il culto e che prega può mostrarsi sufficientemente sensibile ai bisogni di chi è malato, sofferente e solo — specialmente nei grandi centri urbani — e dei poveri ovunque essi siano». (3 dicembre 1983, Discorso ai vescovi degli Stati Uniti d’America in visita «ad limina apostolorum»). L’enciclica Deus caritas est si sofferma sulla “spiritualità” di coloro che lavorano nelle agenzie caritative. «Perciò, oltre alla preparazione professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la “formazione del cuore”: occorre condurli a quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro» (n. 31 a).
Il servizio verso il nostro prossimo, quindi, esige anche il coinvolgimento del cuore, non nel senso dell’emotività, ma soprattutto nella decisione molto razionale di desiderare ciò che è meglio per l’altro, anche a prezzo del sacrificio di sé.
In tempi così difficili, restare fedeli alla nostra eredità cristiana è già di per sé una sfida. Ma la nostra identità cattolica può essere veramente la strada maestra verso il rinnovamento e il cammino sicuro su cui raccogliere i frutti duraturi nel nostro lavoro caritativo. Infatti, la vita dei santi testimonia che è possibile, con la grazia di Dio, vivere questo amore cristiano. Quanti santi e beati ci sono, che hanno amato in questo modo! Le loro opere di carità e di servizio verso i poveri hanno attraversato i secoli. Pensiamo alla missione a favore dell’istruzione e dell’alfabetizzazione dei poveri ed emarginati realizzata da santa Elisabetta Anna Seton, oppure all’instancabile impegno di santa Francesca Cabrini a favore degli immigrati indifesi, o all’impegno a favore degli indiani americani e degli afroamericani di santa Caterina Drexel. Quando questo inno alla carità viene veramente vissuto nella nostra vita personale e all’interno delle nostre organizzazioni, tutte le nostre attività caritative, realizzate in nome della Chiesa, saranno durature, perché «la carità non avrà mai fine» (1 Corinzi, 13, 8).

 Fonte: L'Osservatore Romano 2 ottobre 2012