La rassegnazione alla volontà di Dio
Il termine “rassegnazione” non gode di una buona stampa. Rassegnarsi sembra indicare debolezza, viltà, pavidità, colpevole rinuncia a rivendicare o a far valere i propri diritti e a difendersi dall’oppressore. Questa polemica contro la rassegnazione e i rassegnati era molto forte, ricordo, negli anni della contestazione marxista seguenti al 1968. Era una polemica anticristiana. L’etica cristiana era accusata di predicare, in nome di illusori compensi celesti, la rassegnazione dei lavoratori oppressi dai soprusi e dallo sfruttamento operati dai padroni.
Non si ammetteva assolutamente che l’oppresso avesse motivi ragionevoli per rassegnarsi o si dovesse comunque rassegnare ad una condizione almeno momentaneamente senza sbocco, ma doveva e poteva ribellarsi e combattere, nella certezza della vittoria mediante la rivoluzione e la lotta di classe. Evidentemente chi incitava alla rivolta erano degli esaltati, fuori della realtà, che tuttavia facevano presa sui giovani e che nel corso degli anni seguenti avrebbero dato il via al terrorismo dei vari movimenti di sinistra, come per esempio le Brigate Rosse.
Ma il disprezzo per la rassegnazione finì per diffondersi anche negli ambienti cattolici, dopo che questa espressione era stata usuale anche con termini sinonimi (abbandono, accettazione, pazienza, sopportazione, arrendevolezza e simili) in passato per lungo tempo. Per questo non sentirete mai oggi un predicatore fare l’elogio della rassegnazione.
Indubbiamente è importante intendersi sul significato del termine, il quale, benchè rivestito oggi come oggi di un significato generalmente negativo, potrebbe o dovrebbe secondo me, dovutamente spiegato, recuperare il suo significato valido, in realtà assai prezioso e fondamentale nell’etica cristiana, anche se non necessariamente legato a tale etica, ma al semplice buon senso della condotta corrente.
Innanzitutto l’etimologia. Rassegnazione viene dal tardo latino resignatio, da re-signare, uno dei numerosi composti con la particella re che significa rinforzo, conferma, rafforzamento, ma anche, al contrario, riconduzione, rilascio, abbandono, remissione, rinuncia. Anche il signo di resigno può andare con diverse preposizioni: con-signo, de-signo, in-signo, ad-signo, dove il signum, segno, di volta in volta può dire consegnare, designare o disegnare, insignire, assegnare.
In resigno quel re appartiene al secondo gruppo di significati, non al primo; quindi in conclusione resigno ha il senso di lasciare, permettere, abbandonare, consentire, accettare, rinunciare. Da qui espressioni come “rassegna” o “rassegnare le dimissioni”. La rassegna implica lo scorrere di diverse cose che poi si lasciano o passano; rassegnare le dimissioni vuol dire abbandonare un ufficio o un incarico.
Così la rassegnazione è un atto per il quale il soggetto cessa da qualcosa, rinuncia a qualcosa o ad intraprendere qualcosa, non insiste in un’azione o non la intraprende neanche, perchè, come ci si esprime correntemente, “non ne vale la pena” o “non c’è niente da fare”, in quanto già si prevede che non potrà avere successo o non si potrà ottenere ciò che si vorrebbe o si desidera o di cui si ha bisogno.
Al limite, la rassegnazione è un atto riflessivo: rassegnarsi, un atto faticoso e doloroso, ma che si fa volentieri, e che ha per oggetto se stessi, ossia la propria vita e la propria esistenza. Esso ha una origine stoica, ma è poi stato trasfigurato dal cristianesimo. E’ un metter la propria vita nella mani di un destino nel quale in ultima analisi si ha fiducia, e al quale in ogni caso non si può sfuggire.
Il principio stoico è bene espresso dal detto comune “occorre fare di necessità virtù”. In base a questo principio, gli stoici sapevano restar sereni e pazienti anche nelle avversità, dietro alle quali ammettevano la legge di un misterioso Logos divino supremo, ignoto all’uomo e a volte anche agli dèi.
La rassegnazione stoica è dettata da una semplice considerazione razionale che vede l’universo come dominato dalla necessità logica. Da qui l’accorgimento di “fare, come dice il proverbio già citato, di necessità virtù”. Invece la rassegnazione cristiana è anch’essa certo un adattarsi ad una situazione che non possiamo correggere, ma nella pace, basata sulla fede in un Dio che può permettere le sventure, le contrarietà e lo stesso peccato, ma sempre per superiori finalità salvifiche.
La differenza tra la rassegnazione stoica e quella cristiana è che, mentre nello stoicismo il decreto del destino, ossia della moira o dell’eimarmène, o del fatum, secondo la religione romana, ha il carattere della necessità ferrea, l’ananke, nel cristianesimo il decreto del destino è espressione saggia di un Dio d’amore, libero, giusto e misericordioso.
Da qui la differenza tra rassegnazione stoica e quella cristiana: che lo stoico accoglie una necessità indipendente da prospettive di salvezza, in quanto nello stoicismo l’individualità del saggio è destinata a dissolversi nella Razionalità del Tutto, mentre nel cristianesimo il fedele salva il proprio io liberamente, nella vita eterna dopo la morte ed accoglie l’atto d’amore di un Dio che lo conduce alla salvezza. Nel cristianesimo Dio predestina alla vita eterna, ma causando lo stesso atto del libero arbitrio che obbedisce alla legge divina.
E poi a chi si rassegna il cristiano? A Dio, alla sua santissima misteriosa volontà, sull’esempio di Cristo. La rassegnazione virtuosa, propria del cristianesimo, non comporta, come potrebbe sembrare, irritazione, tristezza, senso di frustrazione o un mordere il freno, ma al contrario comporta pace, fortezza e serenità, in quanto non si tratta di rassegnarsi a un destino disumano e tirannico, ma di abbandonarsi nelle mani della Provvidenza sull’esempio di Cristo: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum”.
La rassegnazione cristiana comporta quindi un atto di fiducia in Dio, che, nel suo piano di salvezza, permette la cosa spiacevole o anche la tragedia non certo per crudeltà o perché incapace di impedirle, ma per unire l’anima alla Croce di Cristo. Dio vuole il bene, e non vuole il male, ma permette il male di pena e di colpa, potendoli impedire, e lo fa per ricavare da essi un bene maggiore.
Si può e si deve dire che Dio permette il male senza che ciò giustifichi il considerare o l’accusare Dio di essere l’autore del male. Quel “permettere” vuol dire semplicemente che vuol non impedire o per punire i reprobi o per un fine di salvezza. Oggetto della permissione divina è qualcosa che Dio di per sé e in linea di principio non vuole (che i teologi chiamano “volontà antecedente”), ma che alla fine vuole non impedire (“volontà conseguente”) per fini di salvezza o di giustizia punitiva.
Dire che Dio permette il male vuol dire che Egli rispetta le libere scelte dell’uomo, fossero pure il peccato e la ribellione alla legge divina. Quindi la “permissione divina” non va intesa come l’atto del superiore col quale acconsente o soddisfa alla richiesta del suddito. Qui infatti abbiamo una volontà vera e propria del superore. Invece la permissione divina è, se possiamo usare questa espressione metaforica, un rassegnarsi a malincuore a ciò che Egli non vorrebbe, da cui però Egli nella sua onnipotenza e bontà, ricava un bene maggiore.
Ora è chiaro che oggetto della rassegnazione è ciò che Dio permette, non ciò che Egli positivamente vuole. Non ci si rassegna ad una grazia ma ad una disgrazia, non ci si rassegna alla gioia ma alla sofferenza, non ci si rassegna alla vittoria, ma alla sconfitta, non ci si rassegna alla vita ma alla morte.
Se Dio ci dona quello che desideriamo, non parliamo di rassegnazione ma di esultanza. Certo possiamo e dobbiamo anche desiderare la croce come una grazia, ma resta sempre il fatto che in quanto la croce ripugna alla natura, non si può esultare davanti alla croce come si esulta nella resurrezione.
E’ bene, è logico e facile rassegnarsi, se Dio ci impedisce di mettere in atto un piano peccaminoso; e questo ce lo dice la coscienza; è comprensibile infatti che Dio ci impedisca di fare il male; è difficile invece rassegnarsi quando Egli ci blocca in un’opera che stiamo facendo per Lui. Ci vien voglia di protestare e di irritarci con Lui. Eppure qui la rassegnazione ha una grande importanza per la nostra santificazione e per l’eventuale successo di quell’opera in un futuro che può essere il futuro di Dio.
Esiste certo anche una rassegnazione sbagliata e peccaminosa, che è espressione di negligenza, neghittosità, attaccamento al peccato, viltà o accidia: un non voler combattere il male quando è possibile vincerlo e ciò o per mancanza di fede o di coraggio. Quando è possibile non rassegnarsi, non ci si deve rassegnare, ma si deve affrontare la situazione con le proprie forze. E’ obbligo invece rassegnarsi nella pace, quando è chiaro che la prova non può essere evitata o che l’ostacolo non può esser aggirato.
Decidere se rassegnarsi o non rassegnarsi è questione di prudenza e di saggezza. Può essere conveniente in certe circostanze rassegnarsi, ma se sopraggiungono circostanze favorevoli, potrà essere bene non rassegnarsi e combattere. Il presente stato di natura decaduta richiede inevitabilmente prima o poi la virtù della rassegnazione, ma non dobbiamo rassegnarci a questo stato come se fosse eterno: dobbiamo tenere sì moderatamente alla rassegnazione, ma nella speranza di quella vita futura nella quale ogni forma di rassegnazione avrà perso la sua ragion d’essere.
P. Giovanni Cavalcoli