sabato 30 novembre 2013

Se è appena l’aurora




Il  tweet di Papa Francesco: "La Chiesa chiama tutti a lasciarsi avvolgere dalla tenerezza e dal perdono del Padre." (30 novembre 2013)

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La Chiesa, il concilio e il mondo contemporaneo.

(Enzo Bianchi) Il concilio ha segnato la fine di una posizione difensiva, che concepiva la Chiesa come cittadella arroccata e il mondo come suo insidioso nemico: grazie al Vaticano II la Chiesa è ritornata a dialogare con il mondo e i cristiani a essere tali nella società, nella compagnia degli uomini, nel mondo moderno senza evasioni né esenzioni. Se è vero che in termini quantitativi i credenti oggi sono meno numerosi di ieri, al punto da essere divenuti minoranza anche nei Paesi di antica cristianità come l’Italia, essi sono però dotati di una consapevolezza della loro identità cristiana ben più profonda di un tempo. In tale condizione, il compito dei cristiani è quello di dialogare con tutte le donne e gli uomini contemporanei, di mettersi al loro servizio, prolungando così il servizio compiuto da Dio con la sua umanizzazione in Gesù. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16), si è fatto uomo per servire noi uomini, e la Chiesa prosegue questa diakonía, facendosi serva degli uomini e annunciatrice del Vangelo tra le genti.
I cristiani sono dunque chiamati a vivere nella compagnia degli uomini, la loro pólis è quella degli altri uomini, diversi per cultura, fede, appartenenza etnica, lingua, e anche codice morale. Ebbene, gli uomini si domandano anche oggi, e forse oggi più di ieri: «Cosa posso sperare?», e noi cristiani dovremmo esercitarci ad ascoltarli, ben sapendo che Cristo risorto può essere per loro speranza efficace che la morte non è l’ultima realtà, e che «lo Spirito Santo offre a tutti la possibilità di essere associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes, n. 22). Ora, tale comportamento può apparire in contraddizione con lo status viatoris del cristiano, costitutivamente straniero e pellegrino sulla terra, condizione così riassunta dall’apostolo Paolo: «La nostra patria è nei cieli» (Filippesi, 3, 20). Sì, la Chiesa è pellegrina sulla terra, la sua cittadinanza è solo il cielo dove i cristiani «non sono più stranieri né pellegrini, ma concittadini dei santi e coinquilini di Dio» (cfr. Efesini, 2, 19); queste affermazioni neotestamentarie non vogliono però invitare i discepoli di Gesù Cristo all’evasione dalla storia, al disimpegno nei confronti dei loro compagni di umanità, bensì a restare fedeli alla terra mentre continuano a cercare le cose dell’alto.
Proprio in questa loro capacità di restare fedeli alla terra, pur lottando contro gli idoli mondani e mantenendo vivo l’orizzonte escatologico, i cristiani possono dare un contributo essenziale alla pólis. Essa infatti abbisogna di cristiani autentici e maturi che, capaci di dedicarsi al bene comune e al servizio degli uomini, sappiano renderla più abitabile e si rendano artefici di una migliore qualità della convivenza umana: una convivenza maggiormente segnata dalle esigenze della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace, e, come tale, in grado di contrapporre cammini comuni alla barbarie incombente.
In ogni caso, la Chiesa non può comportarsi come una fortezza assediata, anche se all’orizzonte apparisse un atteggiamento aggressivo da parte del mondo non cristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la Chiesa sa che l’ostilità nei confronti del messaggio del Vangelo non può essere né rimossa né evitata (cfr. Marco, 13, 13; Giovanni, 15, 20).
Quando i cristiani manifestano sfiducia nella forza evangelica propria dell’inermità della fede; quando progettano una “religione civile” cercando di instaurare presidi e tentando alleanze strategiche con chiunque offra un sostegno alla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono la Chiesa con il regno di Dio, progettano una cristianità che appartiene al passato, che non può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù. Non si dimentichi quanto affermato dalla Gaudium et spes: «La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza (...). È suo diritto predicare la fede (...) e dare il suo giudizio morale, (...) e questo farà utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti» (n. 76).
Come amava ripetere Giovanni XXIII, «non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio»: grazie al Vaticano II possiamo affermare che oggi comprendiamo il Vangelo meglio di ieri, e proprio per questo motivo è più grande il nostro debito verso l’umanità. Quali autentici discepoli di Cristo siamo dunque chiamati a vivere quella che mi piace definire “differenza cristiana”, ossia un’esistenza diversa rispetto a quella di chi non si definisce cristiano. E questo non per un’ostinata volontà di distinzione, ma perché la vita dei cristiani, essendo modellata su quella di Gesù Cristo è di fatto diversa dalla vita mondana: nessun disprezzo per gli uomini nostri fratelli, ma la lucida coscienza di essere chiamati a «stare nel mondo senza essere del mondo» (cfr. Giovanni, 17, 11-16). In altre parole, o nella compagnia degli uomini sapremo essere come lievito nella pasta, come sale capace di dare sapore, oppure saremo quel sale di cui Gesù ha detto che, avendo perso il sapore, «serve solo a essere calpestato dagli uomini» (Matteo, 5, 13).
E questo — lo ripeto — va fatto con grande simpatia verso tutti gli uomini, poiché la fedeltà allo spirito del concilio ci insegna che solo a condizione di essere vissuto e narrato sotto il segno della misericordia il cristianesimo saprà essere eloquente; solo una Chiesa che saprà usare misericordia, che sempre preferirà la “medicina della misericordia” alla verga del castigo, che rifuggirà dal nascondersi dietro lo splendore di una verità che abbaglia e ferisce, solo questa Chiesa sarà capace di raccontare i tratti di Gesù suo Signore e di essere così ascoltata dagli uomini. In questo esercizio quotidiano il Vaticano II sta davanti a noi come bussola capace di orientare il cammino della vita cristiana, come «novella Pentecoste» le cui feconde intuizioni attendono ancora di essere pienamente realizzate: sì, quella tracciata dal concilio è davvero la via da percorrere, per giungere a «dilatare gli spazi della carità (...) con chiarezza di pensiero e con grandezza di cuore» (Giovanni XXIII, 21 aprile 1959).
L'Osservatore Romano