lunedì 25 novembre 2013

Papa Francesco e i rapporti tra ebraismo e cristianesimo



Pagine Ebraiche: Il rabbino Abraham Skorka parla di Papa Francesco e dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo

È in uscita il numero di dicembre di «Pagine Ebraiche», il mensile di attualità e cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane diretto da Guido Vitale. Anticipiamo in questa pagina un’intervista al rabbino Abraham Skorka — rettore del Seminario rabbinico conservative latinoamericano e amico di Papa Francesco — e l’editoriale scritto dal presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.

(Renzo Gattegna) Tra passato e futuro. Per guardare in faccia il passato è necessario applicarsi allo studio e sviluppare capacità di analisi e di critica. Per guardare in faccia il futuro le stesse qualità non sono sufficienti, ne occorrono anche altre molto più rare, come dimostra il fatto che nessuno, neanche i più grandi specialisti, può vantarsi di aver previsto, solo cinque anni fa, le condizioni nelle quali attualmente si trova il mondo. Si deve onestamente riconoscere che la realtà ha largamente superato non solo le più audaci previsioni scientifiche, ma anche quelle più fantastiche. Nessuno è riuscito a dimostrare di possedere sufficiente capacità di interpretare e di operare la sintesi fra i sintomi e i segnali di allora, con l’acutezza, la spregiudicatezza e la libertà da vincoli ideologici e culturali, risalenti al passato, che sarebbero state necessarie per capire le nuove linee di tendenza.
Chi guarda esclusivamente al passato può anche subire senza conseguenze il fascino delle gesta degli antenati e persino sviluppare nei loro confronti un sentimento di sacralità. Chi deve guardare al futuro, chi ha la volontà e la responsabilità di progettare e programmare il mondo che verrà, quello nel quale vivranno i figli e i nipoti, pur mantenendo il rispetto per la memoria e per i valori tradizionali, non può farne oggetto di culto o peggio di idolatria.
Le stesse caratteristiche che possono essere considerate positive in chi studia il passato, possono produrre effetti deleteri in chi, lavorando per il futuro, per nessun motivo potrà mai rinunciare alla massima libertà di giudicare, di creare, di progettare e persino di fantasticare e di sognare.
Un’occasione da non perdere
(Adam Smulevich) «Penso che il rabbinato, e parlo di rabbinato mondiale in tutte le sue componenti, stia attraversando un momento di crisi profonda e lacerante. C’è crisi in Israele, c’è crisi in tutte le comunità della Diaspora. Ne usciremo soltanto se avremo il coraggio e la forza di confrontarci mettendo da parte vecchi schemi e guardando con una diversa consapevolezza al futuro». 
È quanto afferma Abraham Skorka, rabbino conservative e rettore del seminario rabbinico latino-americano, in questi mesi che precedono la missione di Papa Jorge Bergoglio in Israele. Al suo fianco il pontefice avrà proprio Skorka, amico e interlocutore dai tempi di Buenos Aires. Dall’Argentina a San Pietro, il legame tra i due leader religiosi è sfociato in un libro, Il cielo e la terra, che ha segnato una nuova tappa nei rapporti tra ebraismo e cristianesimo. In un momento in cui il dialogo è chiamato a un ulteriore e irrinunciabile salto di qualità, Skorka analizza il successo di Bergoglio e propone una sfida di comunicazione per il mondo ebraico. Sullo sfondo l’inconfondibile profilo di Gerusalemme: «Sempre più vicina, sempre più stimolante. Un’occasione da non perdere». Ma per poterla cogliere pienamente — ammonisce Skorka — il rabbinato dovrà essere capace di imporre “un nuovo corso” agli eventi.
Bergoglio ha rivoluzionato il modo di comunicare della Chiesa con parole e azioni che hanno lasciato un segno in tutta l’opinione pubblica. Un effetto, fortissimo, lo si è avuto anche nei rapporti con il mondo ebraico. Lei che lo conosce bene, come valuta la sua condotta?
Non ne sono sorpreso, per niente. Bergoglio agisce nel solco di quelli che sono i suoi più intimi convincimenti. In particolare nelle relazioni con l’ebraismo, che conduceva con la stessa intensità e con la stessa passione anche a Buenos Aires.
A oltre cinquant’anni dalla dichiarazione Nostra aetate i progressi nel dialogo tra ebrei e cattolici sono sotto gli occhi di tutti. Se da un lato non si può non dirsi soddisfatti di questo traguardo, impensabile prima del concilio Vaticano II, dall’altro ci si chiede quale sia adesso la miglior strada da percorrere per un ulteriore e decisivo salto di qualità.
È un interrogativo pressante per entrambi, ebrei e cattolici. Posso assicurare che non passa giorno in cui non mi ponga questa domanda. Soprattutto da parte ebraica dobbiamo riflettere su come accogliere le numerose manifestazioni di avvicinamento della Chiesa cattolica di questi ultimi anni. È una sfida cui non possiamo sottrarci ed è un piacere condividerla con un amico come Bergoglio. Il confronto su queste specifico argomento è denso e proficuo.
Tra i tanti segnali pervenuti dal Vaticano, quale ritiene sia stato il più significativo?
Riconosco un grande valore agli interventi di Bergoglio contro il proselitismo. È un punto sul quale batte con forza e con un’enfasi tutta speciale e ciò ha ancora più rilievo se consideriamo la cornice di evangelizzazione all’interno della quale questi interventi sono pronunciati. Bergoglio mi ha chiarito che il concetto era già stato esplicitato dal suo precedessore. L’incisività in materia dell’attuale Papa è però maggiore. Dobbiamo infatti ricordarci come l’evangelizzazione, fino a poco tempo fa, fosse inevitabilmente associabile al proselitismo. Adesso invece il Papa parla di avvicinare alla fede i soli cattolici. La risposta che ci sta dando, in questo e in altri ambiti, rappresenta un importante chiarimento ad aspetti controversi del passato. Mi auguro che i leader ebraici ne abbiano piena coscienza.
Come apportare un contributo al dialogo interreligioso preservando un’originalità ebraica senza appiattimenti e compromessi?
Penso che il rabbinato, e parlo di rabbinato mondiale in tutte le sue componenti, stia attraversando un momento di crisi profonda e lacerante. C’è crisi in Israele, c’è crisi in tutte le comunità della Diaspora. Ne usciremo soltanto se avremo il coraggio e la forza di confrontarci mettendo da parte vecchi schemi e guardando con una diversa consapevolezza al futuro. Il mondo cambia, tutto cambia. Dobbiamo riscoprire i nostri valori più profondi, che le generazioni ebraiche si trasmettono da millenni, e imporre un nuovo corso agli eventi. Soltanto assecondando questa pulsione, che ritengo imprescindibile, potremo essere consapevoli protagonisti del cambiamento.
È un’analisi molto dura. Quale ritiene siano le ragioni di questa crisi?
Sono molte e diverse tra loro. Una parte è peculiare al mondo ebraico e a dinamiche prettamente interne. Oltre a ciò risentiamo di una crisi di valori e spiritualità che è globale e che interessa vari aspetti del vivere quotidiano. È in crisi la Chiesa, siamo in crisi noi: sarebbe utopistico pensarci immuni. Anche per questo dico: rimbocchiamoci le maniche, sforziamoci di andare oltre, veicoliamo le nostre migliori energie fisiche e intellettuali per il raggiungimento di un obiettivo dal quale potremo tutti trarre beneficio.
I primi mesi di pontificato hanno messo in luce lo straordinario talento di Bergoglio nel muovere e suscitare emozioni. Leader carismatici, è questo che serve all’ebraismo?
La storia è una continua sfilata di leader carismatici che hanno commesso crimini e ucciso nei modi più barbari. Il carisma da solo non basta, servono anche altre qualità ovviamente. Il mio modello di ebraismo ideale è quello propugnato dal rav Abraham Joshua Heschel. Di un ebraismo così oggi si sente mancanza.
Come sono i suoi rapporti con il rabbinato italiano?
Ho vari amici. A partire dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e dal suo collega fiorentino Joseph Levi. Ci siamo incontrati una nuova volta a Roma, in occasione delle Giornate per la pace organizzate dalla Comunità di Sant’Egidio.
In quella circostanza lei è stato ospite personale di Bergoglio a Santa Marta. Il Papa e il rabbino, fianco a fianco per una settimana. Cosa serba di questa esperienza?
Un ricordo molto piacevole. Siamo stati accanto alcuni giorni, condividendo i tre pasti quotidiani e altri momenti, sia pubblici che privati. Abbiamo parlato di tutto: del dialogo ma anche del viaggio che faremo insieme in Israele. Sono anni che condividiamo idee, esperienze e momenti di preghiera. Adesso tutto questo, in virtù del suo nuovo ruolo, ha evidentemente un sapore e un valore diverso. Ma resta il Bergoglio di sempre: un interlocutore coerente, ma soprattutto un amico sincero che si è prodigato, con tutte le sue forze, per non farmi mancare niente. Abbiamo celebrato assieme l’inizio dello Shabbat, era al mio fianco quando ho recitato ilkiddush e spezzato le challot forniteci dall’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede Zion Evrony. Sono state giornate indimenticabili e penso che abbiano un valore che va oltre l’affetto e la fiducia che da sempre ci legano.
Come ha trovato Bergoglio?
In grande forma, concentrato, determinato, fermamente convinto della sua missione. La Chiesa è a una svolta. Aspettiamoci cambiamenti epocali. Non saprei dire se questo avverrà su questioni relative al dogma e ad aspetti dottrinari. Sono però sicuro che, sul fronte della percezione collettiva della spiritualità, dovremo abituarci a nuove e importanti enunciazioni. La capacità di sorprendere fa parte del dna di Bergoglio. Il futuro è dalla sua parte.
Lei è autore, assieme a Bergoglio, di un libro di grande successo: Il cielo e la terra, scritto quando eravate a Buenos Aires. Come è nata e cosa ha rappresentato questa sfida?
L’idea di scrivere qualcosa insieme ce l’avevamo da tempo. È stato Bergoglio a dare l’impulso decisivo. Un giorno mi ha detto: “Andiamo Abraham, scriviamo questo libro”. Il risultato è un lavoro che vede un ebreo e un cristiano a confronto sui grandi temi dei nostri tempi: osservanza religiosa, eticità dei comportamenti, impegno nel sociale. Un confronto sviluppato su posizioni assolutamente paritarie, nel pieno rispetto e riconoscimento della dignità altrui.
Il libro risale al 2010. Si immaginava che di lì a poco il suo amico Jorge sarebbe diventato Papa?
Bergoglio era già un leader, un grande protagonista della Chiesa latino-americana. Dopo la conferenza dei vescovi del 2007, in occasione della quale ricevette molti consensi, mi confidò di percepire tangibilmente l’apprezzamento di tanti colleghi. Lo fece con estrema umiltà, in amicizia, senza vantarsene in alcun modo. Da allora ho sempre avuto la sensazione che, con un nuovo conclave, Bergoglio potesse essere il prescelto per guidare la Chiesa in questo momento storico ricco di insidie, ma anche di formidabili opportunità.
L'Osservatore Romano